Anime & Manga > Lady Oscar
Segui la storia  |       
Autore: _Agrifoglio_    23/09/2021    12 recensioni
Una missione segreta, un’imboscata vicino al confine austriaco e il corso degli eventi cambia. Il senso di prostrazione dovuto al fallimento, il dubbio atroce di avere sbagliato tutto, un allontanamento che sembra, ormai, inesorabile, ma è proprio quando si tocca il fondo che nasce, prepotente, il desiderio di risorgere. Un incontro giusto, un’enorme forza di volontà e, quando tutto sembrava perduto, ci si rimette in gioco, con nuove prospettive.
Un’iniziativa poco ponderata della Regina sarà all’origine di sviluppi inaspettati da cui si dipanerà la trama di questa storia ricca di colpi di scena, che vi stupirà in più di un’occasione e vi parlerà di amore, di amicizia, di rapporti genitori-figli, di passaggio alla maturità, di lotta fra concretezza e velleitarismo, fra ragione e sogno e della difficoltà di demarcarne i confini, di avventura, di duelli, di guerra, di epos, di spirito di sacrificio, di fedeltà, di lealtà, di generosità e di senso dell’onore.
Sullo sfondo, una Francia ferita, fra sussulti e speranze.
Davanti a tutti, un’eroica, grande protagonista: la leonessa di Francia.
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes, Quasi tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Orco


Libero dalle catene, prigioniero della passione



Sala-regia


 
Roma, fine settembre 1805
 
Quando giunse il giorno dell’udienza pontificia, Oscar indossò l’alta uniforme e, in compagnia di André, salì sulla carrozza di gala dell’Ambasciata francese.
Durante il tragitto, la donna ripassò mentalmente i punti principali del discorso che avrebbe fatto al Pontefice. Non doveva essere lungo, ma chiaro e, soprattutto, incisivo, tale da indurre il Papa a opporsi fermamente all’ascesa incontrollabile di Bonaparte.
I rapporti fra Papato e potere temporale, nei secoli, non erano mai stati semplici né distesi. A volte, c’erano stati forti contrasti, sfociati in guerre e bolle di scomunica. In altre occasioni, erano stati stipulati concordati e strette alleanze dalla durata variabile.
Nell’attuale contingenza, era fondamentale che il Papa negasse decisamente ogni legittimazione a un usurpatore che costituiva una grave minaccia per l’intera Europa. Non era possibile seguire la via dei trattati con un uomo avido di potere che, già in passato, si era mostrato particolarmente infido nell’onorare gli impegni presi.
Oscar avvertiva come un macigno il peso della responsabilità, perché lei e Talleyrand erano stati gli unici, oltre, ovviamente, ad Alain, a perorare la causa di Napoleone, quando tutti, a partire dalla Regina, avevano diffidato di lui e non si erano mostrati propensi ad affidargli il comando di mezzo battaglione. Era stato l’atteggiamento di apertura che aveva palesato a vincere le remore della riluttante Maria Antonietta e, ora, doveva porre rimedio al suo madornale errore, con ogni mezzo e a qualunque costo.
Era intenzionata a fare ammenda, a raddrizzare ciò che aveva contribuito a storcere e chi sarebbe stato più idoneo del Papa a farle ottenere la sua personale redenzione?
Se ne stava ancora aggrovigliata in questi pensieri quando la carrozza si fermò davanti alla Scala Regia del Palazzo Apostolico.
Oscar e André scesero dalla vettura e la prima cosa che videro nel mettere piede nel vestibolo fu la monumentale statua equestre di Costantino, lì posizionata da Gian Lorenzo Bernini. Imboccarono, quindi, la Scala Regia, costruita da Antonio da Sangallo il Giovane e, poi, completamente ristrutturata dallo stesso Bernini, che consisteva in un’amplissima rampa di marmo sormontata da una volta a botte e affiancata, su ambo i lati, da una fila di colonne inframmezzate da grandi lucernai appesi al soffitto. Poiché il colonnato si andava restringendo a mano a mano che si procedeva verso la sommità, Oscar e André ebbero la sensazione che la scala fosse molto più lunga di quello che effettivamente era.
Giunti in cima, Oscar poté entrare nella Sala Regia mentre André fu fatto accomodare nell’adiacente Sala Ducale.
Il pavimento della Sala Regia era ricoperto da lastre di marmo decorate con motivi geometrici. Le pareti, alte sedici metri, erano pure di marmo nella parte inferiore mentre, in quella superiore, erano ricoperte da enormi quadri e da affreschi. Il soffitto era costituito da una volta a botte, lavorata con un ricco cassettonato a stucchi.
Oscar varcò la soglia, tenendo sottobraccio il copricapo piumato e, sul lato opposto della sala, vide un trono dorato, posizionato sopra alcuni scalini e sotto un baldacchino di velluto rosso. Assiso sul trono, c’era il Papa, con l’abito talare bianco avorio, ricoperto da un candido rocchetto di pizzo. Sulle spalle, indossava una mozzetta di velluto rosso, bordata di ermellino e, sopra la mozzetta, una stola anch’essa rossa mentre, in testa, aveva lo zucchetto bianco.
Pio VII le fece cenno di procedere e lei si inginocchiò pochi passi davanti alla soglia mentre lui la benediceva. Si rialzò, proseguì verso il trono e, giunta a metà della sala, si inginocchiò una seconda volta e il Papa la benedisse di nuovo. Arrivata ai piedi del trono papale, si inginocchiò ancora, ricevendo la terza benedizione. A quel punto, baciò la scarpa rossa del Pontefice che le consentì di alzarsi.
Il Santo Padre, al secolo Barnaba Niccolò Maria Luigi Chiaramonti, aveva sessantatré anni e un viso magro, scavato e triangolare, caratterizzato da una fronte spaziosa e da un naso lievemente arcuato. Alla luce delle candele che accentuavano il gioco dei chiaroscuri, quel volto sembrava ancora più fragile e ossuto. Sotto le sopracciglia folte, brillavano due occhi miti, ma fermi. I capelli erano brizzolati e un po’ scomposti, lunghi ai lati, ma tagliati sopra le spalle. L’immagine, nel complesso, ispirava autorevolezza senza ostentazione.
– Potete parlare, Generale de Jarjayes – disse, con voce calma, il Pontefice.
– Santità, Vi porto i più rispettosi omaggi di Sua Maestà la Regina Maria Antonietta, Reggente al trono di Francia e di Navarra – esordì Oscar, tentando di dare alle sue parole la migliore intonazione possibile.
– Benediciamo la nostra devota figlia e auguriamo a lei e al Re un regno felice e prospero, illuminato dalla grazia dello Spirito Santo – rispose pacatamente il Papa – Avete fatto un buon viaggio, Generale de Jarjayes?
– Molto confortevole, Santità, Vi ringrazio. 
– Siete soddisfatta del Vostro soggiorno romano?
– La mia famiglia ed io siamo deliziati da Roma e dai romani – rispose Oscar, ancora memore delle meraviglie che aveva visto nell’ultimo mese.
– Cosa siete venuta a impetrare da Noi, Generale de Jarjayes? Immagino che la visita ai luoghi di culto della Cristianità e alle vestigia degli antichi Cesari non sia l’unico motivo del Vostro lungo cammino.
– Santità, Vi supplico, Vi imploro di non presenziare all’incoronazione di Napoleone Bonaparte. Vi scongiuro, Santo Padre, di non avallare questa follia.
Il Maestro delle Cerimonie Pontificie sollevò impercettibilmente il sopracciglio all’udire tanta audacia mentre il Papa rimase imperturbabile.
– Se anche non presenziassimo all’incoronazione, Generale de Jarjayes, la situazione non cambierebbe. Napoleone è già Imperatore o Re dei territori da lui occupati e la cerimonia solenne formalizzerà tale investitura senza crearla.
– La situazione è quella descritta da Vostra Santità, ma la Vostra assenza avrebbe un peso politico enorme. RifiutandoVi di assistere alla cerimonia e di incoronare il Re, neghereste legittimazione spirituale al potere di un tiranno, indicando la strada da percorrere ai Sovrani d’Europa.
– La presa di posizione che ci chiedete è molto netta e irreversibile, Generale de Jarjayes.
– Il Generale Bonaparte è un usurpatore, Santità. Egli ha scacciato i legittimi Sovrani dai loro troni e sta mettendo a ferro e fuoco l’Europa. Nessun equilibrio è al sicuro con lui. Non segue altra logica che quella del proprio tornaconto e non è mosso da altra passione che non sia la smodata brama di potere che lo divora. Il bene comune non gli interessa, nessuna pietà ne mitiga le decisioni. L’ho visto in azione, Santo Padre. E’ una macchina da guerra, alimentata da un feroce individualismo e, più territori occupa, più cresce in lui il desiderio di conquistarne altri. Ha una mente distaccata e un cuore freddo, non è sfiorato dalla minima compassione per il genere umano, è indifferente alle sofferenze di quelli che comanda e, in più di un’occasione, si è macchiato di atrocità verso i prigionieri e persino verso i suoi soldati. Io stessa ne sono stata testimone. Non si fermerà finché non avrà ridotto il mondo un cumulo di macerie.
– Trattandosi di un uomo così implacabile, la via della diplomazia non sarebbe da preferirsi a quella dello scontro diretto?
– Il Generale Bonaparte non è affidabile, Santità. La sola legge che segue è quella del più forte. Egli ispira la sua condotta all’opportunismo e, se un trattato non gli conviene più, egli smette di onorarlo. In diverse occasioni, non ha tenuto fede ai patti.
– Perorate la Vostra causa con molto fervore, Generale de Jarjayes.
– Io stessa favorii l’ascesa di quel tiranno, ammirata dagli indubbi talenti che dimostrava. Ritenendolo un militare capace, convinsi la Regina Maria Antonietta ad affidargli un’armata.
– Tutti dobbiamo convivere con i nostri rimorsi, Generale de Jarjayes, è il destino dell’uomo. Il sincero pentimento e il proposito di rimediare all’errore, se sorretti dalla fede in Dio, ci mostrano la via da seguire e ci fanno dono di una rinnovata serenità. Vi comunicheremo la nostra decisione. Che Dio sia con Voi.
Oscar chinò il capo per ricevere la benedizione.
Pio VII le sembrava un uomo buono e saldo. Malgrado l’apparenza fragile, doveva avere una forte tempra morale. Lei, invece, era sempre stata una donna d’azione e di granitici principi, ma non si considerava animata da una grande fede o, almeno, non si era mai soffermata a valutare l’aspetto religioso della vita e i suoi rapporti con il divino. Credeva nel bene, proteggeva i più deboli, si comportava secondo rettitudine, ma lo faceva in obbedienza al codice cavalleresco che le era stato inculcato e per un senso innato di giustizia e non in ottemperanza ai dettami della religione. Nella sua lotta contro il rimorso, quindi, disponeva di un alleato in meno.
Percorse a ritroso il cammino fatto al suo arrivo, ripetendo le tre genuflessioni e, senza dare le spalle al Papa, uscì dalla Sala Regia.
 

Pio-VII


********

Sentiero-Corsica


 
Corsica, fine settembre 1805
 
Risalivano i pendii rocciosi che cadevano a strapiombo sul mare, coi volti rossi e accaldati e le gambe affaticate, determinati a portare a termine la missione di salvataggio del Re.
Pini, abeti, faggi e ontani dominavano le rocce, ma, oltre alle foreste, c’erano anche ampi spazi ricoperti dalla macchia mediterranea. Aloi, agavi e cespugli di mirto e di caprifoglio crescevano ovunque. Ai bordi della via, verdeggiavano ciuffi di menta e di erba medica, ortiche e rametti alti e stortignaccoli di basilico mentre, dalle rocce sottostanti il sentiero, spuntavano cespugli molto alti di rosmarino. Ciclamini, crochi e asfodeli si incuneavano nella pareti rocciose e, se i militari gettavano l’occhio in basso, verso il mare, non era raro scorgere grosse macchie di erica, papavero, timo, lavanda o larghe distese di fichi d’India. Erba spontanea, a forma di piccole spighe quasi incolori, sovrastava i sassi, vicino ai quali fiorivano clematidi e campanule.
Soltanto la fatica, i dolori muscolari e il costante pericolo di essere scoperti li richiamavano alla realtà.
Oltre il sentiero, accanto a un leccio, a una quercia e ad alcuni ulivi secolari, ritorti e nodosi, udirono lo scroscio di un ruscello e vi si avvicinarono, immergendoci le braccia fino ai gomiti e aspergendosi il volto, i capelli e il collo. Bevvero avidamente con le mani a conca e, poi, riempirono gli otri fino a farli gonfiare al massimo della loro capienza. I due muli che avevano portato bevevano quietamente e brucavano qualche filo d’erba.
Il Colonnello de Valmy tirò fuori dalla bisaccia una carta geografica e l’aprì su una roccia piatta, chiamando vicino a sé la guida corsa.
– Noi dovremmo essere qui – disse, indicando un punto – mentre la casa e il terreno di proprietà di Madame Bonaparte dovrebbero essere qui.
– Sì, Signore – rispose la guida.
– Siamo, quindi, a metà strada. E’ essenziale – proseguì, rivolto a tutti – che continuiamo a percorrere sentieri poco battuti e che ci muoviamo in totale silenzio. Vi ricordo che un gruppo di stranieri, in queste terre, non passa inosservato.
La segretezza era il loro imperativo categorico. Non indossavano la divisa, ma i costumi tradizionali dei pastori corsi e si muovevano con estrema circospezione. Avevano imparato qualche parola in corso, principalmente espressioni di saluto e a dire sì e no, fermo restando che a camminare avanti e a interloquire con i viandanti eventualmente incontrati sarebbe stata la guida. Per il resto, si sarebbero affidati all’aiuto di Dio e alla fortuna.
– Riposiamo qui per mezz’ora, facciamo una leggera merenda e, poi, ripartiamo – concluse il Colonnello de Valmy.
Trascorsa la mezz’ora, ripresero la marcia, rimettendosi in spalla le bisacce e tirandosi dietro i due muli. I fucili erano nascosti sotto gli ampi mantelli. Gli ufficiali portavano la loro acqua e i loro effetti personali mentre i soldati semplici si dovevano sobbarcare anche le provviste e l’armamentario che non era stato possibile caricare sui muli.
Il sentiero, ora, era ancora più ripido, ricoperto di terriccio e di foglie secche, con frequenti pietroni affilati e scivolosi accompagnati da qualche ciuffo d’erba che obbligavano i soldati a fare molta attenzione agli zoccoli dei muli oltre a dove mettevano i piedi. Tutt’intorno, alberi di rovere e un folto sottobosco dominavano la scena, occludendo quasi del tutto la vista del mare.
Alcune ore dopo, giunsero in prossimità di un’ampia distesa di pietre bianche, in mezzo alle quali crescevano centinaia di fili d’erba lunghi e ricurvi, ormai ingialliti. Oltre la distesa, sorgeva una casa di pietra, in stato di abbandono. A destra della casa, si snodava un muretto con dietro una fontana – abbeveratoio e, vicino a quello, troneggiava un grande albero dal tronco massiccio e, alla base, un gruppetto di aloi. Ancora a destra, c’erano tre fichi d’India e, a una ventina di passi dalla casa, un pozzo. Una grande agave cresceva sotto una delle finestre sul lato dell’edificio.
– Questa è la casa di proprietà di Maria Letizia Ramolino dove è tenuto prigioniero il Re – disse il Colonnello de Valmy nel boschetto di ulivi dove sostavano – Stando alle nostre informazioni, le provviste sono portate qui una volta al mese e l’ultimo rifornimento c’è stato tre giorni fa. Se agiremo in modo pulito, senza lasciarci sfuggire nessuno e non saremo scoperti strada facendo, avremo quasi un mese di vantaggio.
Gli uomini annuirono.
– La guida baderà ai muli in nostra assenza e Clerc le resterà vicino, facendo da palo. Nella casa, dovrebbero esserci dieci carcerieri. Non faremo prigionieri e nessuno dovrà sfuggirci. Questa è una missione che non prevede sopravvissuti. Sparate alle parti vitali dei malviventi, se non volete che facciano del male al Re o che chiamino rinforzi, col risultato, nel giro di pochi minuti, di trovarci sommersi da orde di pastori vomitati dalle montagne – nel dirlo, fece ruotare il braccio intorno all’orizzonte – Tutto chiaro?
– Sì – risposero, all’unisono, gli uomini.
– Andiamo!
 
********

Casa-di-pietra


 
I carcerieri del Re dovevano essere in casa, perché nessuno si aggirava nella corte antistante o sulla distesa di pietre.
Quattro artiglieri, noti per essere dei buoni tiratori, lasciarono il boschetto di ulivi dove la squadra era acquartierata e si avvicinarono, strisciando, al muretto a destra dell’edificio.
L’operazione comportava dei rischi, ma dovevano per forza avvicinarsi, perché, avendo ricoperto le bocche dei fucili con dei panni, al fine di attutire i rumori, la gittata e la precisione delle armi sarebbe stata ridotta.
Stavano stesi sotto il muro da un paio di minuti, quando due uomini uscirono dalla casa guardandosi intorno, evidentemente attirati da qualche movimento oltre le finestre.
Due soldati si sporsero fulminei dal muretto quel tanto che bastava per prendere la mira e, poi, fecero fuoco, puntando alla testa. I malcapitati caddero come frutti maturi e i due tiratori si acquattarono immediatamente sotto il muro per ricaricare i fucili.
Richiamati dagli spari, per quanto silenziati e dalla caduta dei corpi, altri tre uomini armati uscirono dall’edificio, dirigendosi immediatamente verso il punto da cui erano provenute le deflagrazioni. Contemporaneamente, il Colonnello de Valmy e tre soldati spuntarono dal fianco opposto della casa e ne varcarono la soglia.
– Dentro, dovrebbero esserci cinque uomini – disse il Colonnello, dopo un rapido calcolo.
Due carcerieri trascinarono subito il Re in cantina e ce lo rinchiusero mentre altri due uomini rovesciarono un tavolo e ci si nascosero dietro. Il Colonnello de Valmy e un soldato spararono riparati da una porta e, dopo che gli uomini barricati dietro il tavolo ebbero risposto al fuoco, piombarono loro addosso nel momento in cui quelli ricaricavano. Ne seguì una breve colluttazione, terminata con la morte dei due malviventi, freddati con le pistole che il Colonnello e l’altro soldato celavano in una tasca del mantello.
Mentre Valmy e il soldato ricaricavano il fucile e la pistola, entrarono in casa i quattro militari che si erano nascosti dietro il muretto, reduci dall’uccisione dei tre sgherri che erano andati loro incontro.
– Attenti! – urlò uno dei soldati che stavano già in casa.
I due uomini che avevano chiuso il Re in cantina si stavano avvicinando da destra, pronti a sparare, ma il colonnello de Valmy e il soldato che, poco prima, aveva agito insieme a lui furono più rapidi e fecero fuoco, salvando i compagni.
Si diressero, quindi, verso la cantina, la cui ubicazione risultava da una pianta della casa che si erano studiati a memoria durante il viaggio in mare, ma uno dei carcerieri appena colpiti, non ancora morto, estrasse dalla cintura una pistola e fece per sparare. Un soldato lo vide, fu più rapido e lo colpì in testa.
Arrivati davanti alla porta della cantina, spararono sulla serratura e spalancarono la porta.
– Colonnello – disse uno degli uomini – Ci avevate detto che i carcerieri erano dieci, ma io ne ho contati soltanto nove…
Mentre abituavano gli occhi al buio della stanza, videro la sagoma del Re, legato e imbavagliato, che si dimenava, mugugnava e faceva, con la testa, cenno a qualcosa dietro di lui. Il Colonnello de Valmy guardò oltre Luigi XVII e vide la bocca di una lupara spuntare da alcuni sacchi di tela grezza, ammassati contro la parete.
– Attenti ai sacchi dietro il Re, è una trappola! Maestà, buttateVi a terra! – tuonò Valmy.
L’avvertimento del Colonnello fu accompagnato da una salva di proiettili in direzione dei sacchi, seguita da un silenzio lugubre e irreale. Uno dei soldati oltrepassò il Re, si diresse verso i sacchi, li spostò e si chinò sull’uomo riverso in mezzo ad essi.
– E’ morto – riferì.
Il Colonnello de Valmy si avvicinò al Re, lo aiutò a rialzarsi, gli tolse il bavaglio dalla bocca e disse:
– Maestà, siete libero.
 
********

Sentiero-Corsica-2


 
Fecero vestire il Re da pastore corso, lo aiutarono a montare sul dorso di uno dei due muli e si affrettarono ad abbandonare la casa, prima che qualche autentico pastore, attirato dai rumori, accorresse e scoprisse la carneficina. L’edificio sorgeva in un luogo isolato, ma non potevano rischiare.
Luigi XVII era molto pallido e debole, aveva la muscolatura infiacchita e, ben presto, uno dei soldati dovette montare in groppa dietro di lui, per sostenerlo. La soma fu, in parte, spostata sull’altro mulo e, in parte, presa in carico dai soldati semplici.
Gli misero un cappuccio in testa, per evitare che qualcuno, incrociandoli, lo riconoscesse e per proteggerlo dai raggi del sole, ma queste furono le uniche cure che poterono prodigargli, non essendoci neppure il tempo di rifocillarlo, se non con del poco invitante cibo essiccato e con l’acqua dell’otre.
Il Colonnello de Valmy mandò due uomini in avanscoperta, col compito di segnalare eventuali presenze sulla strada mentre il resto del gruppo procedeva compatto lungo lo stesso sentiero percorso all’andata. Il Re viaggiò sempre a dorso di mulo, tranne nei tratti più impervi e stretti, in cui fu portato a spalla da uno dei soldati o trasportato da due militari su una sorta di rudimentale sedia gestatoria di cuoio.
Giunti sulla spiaggia, Luigi XVII respirò liberamente per la prima volta dopo tanti anni, ascoltando il rumore ritmico delle onde, annusando l’aria salmastra e gli aromi dei cespugli di rosmarino e di timo e godendosi il contatto dei granelli di sabbia sotto il palmo delle mani. Il Colonnello de Valmy ne osservava dubbioso la muscolatura inesistente, l’andatura claudicante e incerta, il volto pallido ed emaciato, dominato da due occhi che sembravano enormi, le mani ossute, il sobbalzare a ogni minimo rumore e, in cuor suo, sperava di non riportare alla madre un cadavere.
I soldati semplici, nel frattempo, caricavano sul brigantino l’esigua attrezzatura e vi facevano salire i due muli, dopo averli bendati, affinché non si spaventassero nel vedere il vuoto sotto le assi.
Quando le operazioni furono terminate, gli uomini salirono in nave e salparono verso il porto di Civitavecchia.
 
********

Grottesche


 
Roma, Colle Oppio, fine settembre 1805
 
L’asse di legno cigolava e, di tanto in tanto, traballava, a causa di un coordinamento non perfetto degli uomini di fatica che la stavano calando nella grotta. A lume di torcia, Oscar guardava la nuda pietra del pozzo scorrere in verticale davanti a lei e qualche granello di polvere scivolare a causa dell’attrito delle funi sulle pareti rocciose.
Più scendeva, più l’aria era viziata, ma le avevano detto che ne valeva sicuramente la pena.
Giunta quasi sul fondo, uno scossone e una lieve inclinazione dell’asse di legno le avrebbero fatto perdere l’equilibrio, se non si fosse retta saldamente alle due funi e se l’uomo sceso prima di lei, da sotto, non avesse con le mani raddrizzato la pedana.
– Perdonate, Generale! – gridarono gli uomini di fatica.
– Va tutto bene, potete tirare su le funi! – si affrettò a rispondere – E grazie del salvataggio, Signor Canova!
– Non dovete ringraziarmi, Generale de Jarjayes – rispose Antonio Canova – Resterete affascinata da quello che vedrete quaggiù. Ci venivo spesso, da giovane, quando studiavo l’arte classica.
– Per tutti noi è un onore averVi come guida! Speriamo soltanto che Don Paolo non si senta spodestato dal suo ruolo di cicerone! – e rise allegramente.
Si tolse, alla bell’e meglio, un po’ di polvere dalle spalle e dalle maniche della giacca e fletté il busto in avanti per sgrullarsi i capelli.
Mentre era intenta a compiere queste operazioni di approssimativa pulizia, dalla rudimentale altalena, furono calati anche André, i tre ragazzi e il pretino. Indossavano tutti i pantaloni ad eccezione di Don Paolo che non aveva rinunciato alla sua tonaca. Il pretino aveva ingaggiato una sua personale e buffa contesa con Canova per dimostrare agli illustri ospiti di essere lui la guida migliore e il celebre scultore lo lasciava fare, per buon carattere e diplomazia.
Si guardarono intorno, avvicinando le torce ai muri e furono stupiti dalla quantità di figure vivaci e raffinate, sebbene sbiadite dal tempo e dall’umidità, che si trovarono dinanzi. Centauri e sfingi, musici e danzatrici, tralci di fiori e di frutta, nature morte, ghirlande, animali, fauni e satiri, ninfe dei boschi e fontane zampillanti li osservavano dalle pareti.
Sui muri, nel bel mezzo degli affreschi, scorsero le firme di Giacomo Casanova, del Marchese de Sade, di Filippino Lippi, del Ghrirlandaio e di tanti altri visitatori noti o anonimi.
Presi da spirito di emulazione, Honoré e Antigone tirarono fuori dalle tasche due coltellini, per incidere i loro nomi sulle mura, ma furono prontamente fermati da Oscar:
– Non rovinate le pareti e rispettate il lavoro di chi vi ha preceduti.
Bernadette non ci aveva nemmeno provato e, per questo, ricevette un sorriso di approvazione da parte di André.
Girarono per molto tempo, in un susseguirsi di stanze, corridoi e cunicoli, a volte in piedi, altre chinati o addirittura in ginocchio.
Il pretino, petulante come sempre, sbuffava, reso paonazzo dagli starnuti e lacrimoso dalla polvere. Arrossiva quando passava davanti alle immagini di danzatrici discinte o di ninfe troppo sinuose e non perdeva mai l’occasione di mettere bocca sulle spiegazioni di Canova.
– Come furono trovate queste grotte, Signor Canova? – domandò André.
– Circa trecento anni fa, un giovinetto cadde accidentalmente in una fessura che, poi, è il pozzo che abbiamo usato noi per calarci e tale circostanza, sfortunata per lui, fu una fortuna per il resto dell’umanità, perché portò al ritrovamento di questi ambienti sotterranei.
– Tutto ciò è cosa nota – sbuffò il pretino.
– Da allora – continuò Antonio Canova, ignorando l’altro – artisti come Pinturicchio, Raffaello, Michelangelo, Ghirlandaio, Filippino Lippi e Luca Signorelli si calarono nelle grotte per studiare gli affreschi antichi e contribuirono alla diffusione, in epoca moderna, della pittura chiamata grottesca. Fu Raffaello che, grazie alla sua vasta cultura umanistica, riuscì a comprendere la logica di queste decorazioni e a riproporle alla perfezione nei suoi dipinti.
– Ma anche questo è cosa nota – rincarò il pretino, con la sua voce sussiegosa e nasale.
– Non posso certo eguagliare la Vostra cultura umanistica, Don Paolo – disse Canova – essendo io un umile artigiano. Mi limito a mettere le mie modeste conoscenze a servizio dei nostri ospiti, a gloria del Sommo Pontefice.
Il pretino apparve rabbonito e l’effetto di ciò fu che tacque per almeno cinque minuti.
Dopo circa un’ora di permanenza nelle grotte, vinti dalla stanchezza e dall’aria stantia, sebbene ammirati dai luoghi, decisero di fare ritorno in superficie.
– Signor Canova – chiese Oscar mentre stavano camminando verso il pozzo – A quale monumento appartengono questi ambienti?
– Si afferma comunemente che si tratti delle Terme di Tito – rispose lo scultore – ma io ho una mia personale teoria. Secondo me, potrebbe trattarsi di parte della Domus Aurea di Nerone.
– Saranno sicuramente le Terme di Tito – puntualizzò, con aria di sufficienza, il pretino.
Pronunciate queste parole, mise il piede sulla pedana di legno e strattonò le funi.
– Ehilà, garzoni, mi tirate su? Ehilà!
                        

Grottesche-2


********
 
Torino, fine settembre 1805
 
In una placida mattina di settembre, il Marchese Camille Alexandre de Saint Quentin e Paolina Bonaparte camminavano nella piazza antistante il palazzo reale, intenzionati a fare una passeggiata per le vie più eleganti della città. Erano scortati da quattro militari che li seguivano da una rispettosa distanza.
Lei era bellissima, con una redingote di velluto rosso, ornata sul corpetto da alamari neri, che si apriva su un abito di mussola verde chiaro. In testa, aveva un cappellino di velluto anch’esso rosso, abbellito da nastri, piume e fiori, fermati, di lato, da una grande spilla di diamanti. Sotto il copricapo, i capelli erano acconciati in riccioli, onde e volute complicate, frutto delle abili mani di un rinomato parrucchiere.
– Paolina, vorrei chiederVi una cosa – disse il Marchese, con voce bassa.
– Ebbene, parlate, se no mi farete morire dalla curiosità! – rispose la donna mentre lo guardava con gli occhi che sembravano due stelle.
– L’Imperatore Vostro fratello… gradisce che passeggiate insieme a me?
– Io esco con chi mi pare e piace e, poi, perché dovrei ragguagliare Napoleone sulle mie frequentazioni? Ma è questo che volevate chiedermi? – aggiunse, poi, con un tono di vago rimprovero – Io credo di no!
– Quando stavamo uscendo dal palazzo…
– Sì?
– Quando stavamo uscendo dal palazzo… abbiamo incrociato un granatiere che Vi fissava con insistenza e in un modo che a me non è piaciuto…
– E Voi lasciatelo guardare! Uno sguardo non può recare alcun danno! Suvvia, non siate melodrammatico…
– E non è tutto… Voi non lo scoraggiaste, ma, anzi, lo guardaste di rimando… e sembravate compiaciuta…
– Qualsiasi dama è compiaciuta per l’ammirazione di un cavaliere!
– Non quando dice di amare un altro!
– E, quindi, dovrei chiudermi nella mia stanza e passare il tempo a scriverVi lettere sdolcinate e a disegnare il Vostro ritratto?
– Basterebbe che non incoraggiaste altri corteggiatori – disse lui, con un accento nella voce e un’espressione nel volto che tradivano un malessere fisico oltre che interiore – Specialmente se poco educati!
– Oh, insomma, se devo sorbirmi una paternale, io Vi lascio e me ne torno a palazzo! State diventando davvero tedioso!!
Gli occhi di lei erano due torce di sdegno e di furore mentre lui, davanti alla prospettiva di una brusca interruzione della passeggiata, che stava attendendo da tre giorni, si sentì franare la terra sotto ai piedi.
– Io sono una donna ammirata, in vista e ammirata, metteteVelo bene in testa – rincarò Paolina – e, se non siete in grado di capirlo o di accettarlo, allora…
– No, mia carissima, Vi supplico di perdonarmi, sono stato un folle a dubitare di Voi!
Lei si quietò un poco e lo guardò con occhi fieri e scintillanti. L’aveva avuta vinta un’altra volta e questo la rendeva allegra e compiaciuta.
Camille Alexandre strinse le palpebre, quasi a voler scacciare i pensieri molesti e terribili che gli ossessionavano la mente. Quella passione lo dominava durante il giorno e gli toglieva il sonno la notte. Viveva per vederla, per ricevere uno sguardo e un cenno di approvazione da lei, per ascoltarla, coglierne il profumo, idolatrarla. E pensare che non aveva mai avuto il coraggio di darle un bacio… Tentò di avvicinarsi a lei per catturarle le labbra, ma Paolina lo prese sottobraccio e lo costrinse bruscamente a starle di fianco anziché di fronte.
– Eh, no! Mi rimproverate per dei presunti sguardi e, poi, vorreste baciarmi sulla pubblica via, davanti a tutti, come una poco di buono! – sibilò velenosamente, in preda alla collera.
Lui, umiliatissimo, abbassò il volto, si fermò di colpo e rimase indietro.
Doveva credere in quel sogno, doveva continuare a crederci, lei era bellissima, troppo bella e aveva accettato di farsi corteggiare da lui. Era il sole, era le stelle era il centro di tutto.
– Paolina…
Al richiamo, ella si voltò e lo guardò interrogativamente.
– …Voi mi amate…?
– E Voi cosa pensate, sciocco?
Fece un sorriso, al tempo stesso accattivante e canzonatorio e gli fece cenno di raggiungerla.
Lui percorse rapidamente il piccolo tratto che lo separava da lei e le si aggrappò al braccio, come un assetato a un otre già quasi tutto strizzato, come un naufrago alle assi squassate che galleggiano in mare, come il disperato che era.
 
********

Casa-pendente


Elefante


Tartaruga


 
Bomarzo, fine settembre 1805
 
Il Sacro Bosco di Bomarzo sorgeva su un’altura ricoperta di olmi, castagni, lecci, pioppi e tantissime altre specie vegetali. Oscar, André e i tre ragazzi vi si erano recati su consiglio di Antonio Canova e, con loro, era andato l’immancabile Don Paolo.
– Il Sacro Bosco si inserisce nella tradizione dei giardini alchemici o esoterici del cinquecento e fu ideato da Vicino Orsini, Signore di Bomarzo, in ricordo della moglie defunta, Giulia Farnese.
– Giardini esoterici o alchemici, Signor Canova? – protestò il pretino – Ce n’era abbastanza per finire sul rogo!
– Don Paolo e perché? Un giardino con delle statue non può far male ad alcuno e, poi, Vicino Orsini combatté a lungo al servizio del Papa col quale, oltretutto, la prima moglie era imparentata. Egli stesso era nipote di un Cardinale.
Stanco di essere sempre contraddetto dal celebre artista, il pretino assunse un’aria offesa e stizzita mentre il resto della comitiva procedeva sul sentiero, tentando di ignorarne i malumori.
– E con ciò? – sbottò, dopo qualche istante di risentito silenzio – Anche il mio prozio era un Cardinale, ma non mi sono mai ritenuto autorizzato, sol per questo, a dilettarmi di alchimia.
– Mi arrendo davanti alla Vostra schiatta, Don Paolo – rispose Canova – Io provengo da una famiglia di umili tagliapietre.
Composto alla bell’e meglio l’ennesimo alterco, lo scultore indicò una torretta edificata su un masso, dicendo:
– Possiamo iniziare la visita da questo piccolo edificio: la casa pendente, fatta costruire da Giulia Farnese mentre il marito era in guerra.
– Questa, poi – sibilò il pretino – Una casa storta… Ne avevano di denari da buttare in quella famiglia…
La strana architettura era stata progettata su tre diversi piani inclinati, così che il pavimento pendeva in avanti rispetto alla porta d’ingresso e su uno dei due lati oltre a non formare un angolo retto con le pareti. Il risultato era un’illusione ottica in forza della quale chi entrava, pur trovandosi perfettamente dritto, si percepiva storto, con l’ovvia conseguenza di spostare il baricentro del corpo e di perdere l’equilibrio.
Varcata la soglia, i viaggiatori furono colti da uno sgradevole senso di vertigine e fu Canova a esortarli a ignorare l’inclinazione delle pareti e del pavimento e a procedere come se l’illusione ottica non ci fosse.
– Questa singolare casa rappresenta le difficoltà che la vita pone dinnanzi all’uomo e la mancanza di equilibrio nel creato. Così come il visitatore, entrato qui, deve adattarsi a ciò che vede e tentare di ritrovare l’equilibrio nonostante le illusioni ottiche, allo stesso modo, l’uomo, nel corso della vita, deve mutare la sua prospettiva, evolversi, trasformarsi, liberarsi dai condizionamenti dei sensi, dalle convinzioni pregresse e dalle passioni, passare a un diverso livello di percezione e trovare, quindi, un nuovo equilibrio malgrado il disordine che lo circonda.
– Vi informo che Don Paolo si è affacciato a una delle finestre e sta vomitando – disse, ridendo, Antigone al fratello e all’amica – Poco male, tanto non se ne accorgerà nessuno, primo perché ci siamo soltanto noi, secondo perché, qui, è già tutto polvere, ragnatele e odore di muffa…
Malgrado la frase fosse poco più forte di un sussurro, Oscar e André la udirono ugualmente.
– Mi domando perché Don Paolo ci abbia seguiti anche a Bomarzo – disse Oscar al marito – con suo gran disagio e mettendosi, oltretutto, in condizione di subire un secondo confronto con Canova.
– Io penso – rispose André – che il Cardinale Brancadoro ci abbia assegnato Don Paolo non soltanto come guida, ma anche come guardiano. Vuole sapere cosa facciamo, dove andiamo, con chi parliamo e Don Paolo ci tiene d’occhio e gli riferisce. Se ci pensi, è normale. Anche noi avremmo fatto sorvegliare degli eventuali viaggiatori stranieri, venuti in Francia in missione diplomatica.
Usciti da quella bizzarria in pietra, se ne trovarono di fronte molte altre, perché il Sacro Bosco ospitava decine di grandi statue in basalto, raffiguranti mostri, figure mitologiche e composizioni con evidenti rimandi letterari. Così, fra un castagno e un pioppo, fra una quercia e un frassino, videro spuntare sfingi, draghi, leoni, arpie, il vaso di Pandora, Cerbero che, coi suoi latrati, separava i vivi dai morti, un grande elefante africano che, con la proboscide, stritolava un legionario romano e un’enorme tartaruga, simbolo di saggezza, longevità e dell’incontro del cielo con la terra, sormontata da una vittoria alata.
Dopo la morte di Vicino Orsini, il bosco era stato abbandonato e il risultato era che la vegetazione cresceva ovunque scomposta e che le enormi statue erano annerite e ricoperte di umidità, di muschio e di molti funghi della pietra circolari, marroncini e giallastri. Ciò, però, se possibile, conferiva maggior fascino al parco. 
In quella superba cornice naturale, da quell’immenso teatro di alberi e piante, spuntava fuori, ogni tanto, un mostro terribile o una strana e attorcigliata creatura mitologica, come le paure e gli incubi che, in modo del tutto inaspettato, periodicamente emergono dal fondo dell’anima. Tutto il complesso risultava onirico, surreale e immensamente suggestivo e, volendo provare a dare un significato a ciò che si vedeva, l’intelletto si fermava e la lingua taceva.
– Che ne dite di questi gruppi scultorei? – domandò Canova agli illustri ospiti.
– Che sono molto diversi dal Vostro Perseo o dai Vostri Amore e Psiche che abbiamo avuto modo di ammirare durante il nostro soggiorno romano – rispose Oscar.
– Questo è sicuro! – sorrise Canova – Il Sacro Bosco non ha eguali. Lo si può interpretare come l’eccentricità di un ricco Signore rinascimentale o, secondo alcuni studiosi, come un percorso iniziatico.
Il pretino emise uno sbuffo e scosse la testa.
– Queste sculture rappresentano le illusioni, le paure irrazionali, i condizionamenti, le prove che la vita mette dinanzi a ognuno di noi. In un percorso di riflessione, di catarsi e, quindi, di salvezza, l’uomo deve imparare a vincere i suoi condizionamenti, a tenere a bada le paure, a liberarsi dalle illusioni, a mettere in discussione le sue convinzioni e ad abbandonare la vecchia percezione per una nuova. Si deve trasformare, rinnovare, purificare, innalzare a un grado di comprensione più elevato e passare dalla visione terrena a quella divina, rappresentata dal tempio classico in cima all’altura.
Nel loro cammino, si trovarono di fronte a un’immensa faccia con la bocca spalancata, rappresentante Ade, dio degli inferi, che inghiotte i viventi. La statua, come tutte le altre, era ricoperta di muschio che si ammassava soprattutto sul naso, sugli zigomi, sulle pieghe della fronte e sulle ondulazioni dei capelli e della barba. Dopo essere saliti sui gradini di una breve scala dissestata, affiancata, su entrambi i lati, da grovigli di edera e avere oltrepassato la bocca, trovarono, all’interno, un tavolo e delle panche, destinati alla meditazione o a strani rituali. A causa dell’eco, là dentro, i suoni diventavano sinistri rimbombi. Intorno alla bocca spalancata, era incisa la scritta: “Lasciate ogni pensiero, voi che entrate”, chiaro rimando alla Divina Commedia oltre che invito ad abbandonare i vecchi ragionamenti e ad assumere nuovi atteggiamenti mentali.
Simbolo di metamorfosi era anche la grande testa di Proteo, divinità marina capace di assumere qualsiasi forma.
L’apparizione della statua di Echidna, un enorme mostro con il corpo di donna e due code squamate al posto delle gambe, riaccese l’irriverenza di Antigone. Le due code, infatti, giacevano sul terreno divaricate e, in mezzo a esse, era ben visibile l’anatomia femminile della divinità. La ragazza, nel vederla, proruppe in una risata:
– Si vede che è nipote di Oceano, perché è ancora più svergognata di lui!
Il pretino, che considerava la postura della statua davvero oscena, alzò le sopracciglia, sorprendendosi di essere, una volta tanto, d’accordo con quella che, fra sé e sé, aveva soprannominato “Madamigella Impertinente”.
– Non sarei così critico, Madamigella Antigone – intervenne Canova – Echidna, essendo una divinità marina, rappresenta l’acqua, archetipo primordiale dal quale nasce la vita, che si trova anche nel grembo materno.
– E figurarsi! – sbottò Don Paolo.
– Procedendo da questa parte – glissò lo scultore – troveremo il tempio classico, probabile luogo di sepoltura di Giulia Farnese e culmine di tutto il percorso.
Oscar tentava di riordinare le proprie idee e sensazioni mentre contemplava la struttura del tempietto che di mostruoso nulla aveva. La vita l’aveva messa di fronte a molte prove e, più di una volta, aveva dovuto mutare idee e convinzioni, soprattutto su una questione per lei molto importante. Si era illusa che la vita militare potesse essere il fine anziché il mezzo e aveva ceduto alle lusinghe fallaci della gloria bellica e di una libertà che si era rivelata nulla di più di una solitudine mascherata. Era stata costretta a venire a patti con le sue paure e aveva dovuto governare le sue intemperanze e trovare nuovi equilibri. Come Proteo, aveva assunto più di una forma ed era stata maestra nell’arte di camuffarsi. Cos’era per lei il tempio in cima alla collina? André e i figli? La serenità domestica, la salvezza della patria? Oppure ci doveva ancora arrivare? In quel caso, qual era la strada?
– Oscar che fai lì impalata? Non vuoi visitare l’interno del tempio?
– Arrivo, André.
 

Echidna


Proteo


********
 
Civitavecchia, Palazzo Vescovile, fine settembre 1805
 
Era arrivata con un giorno di ritardo rispetto a loro, avvertita da un messaggero giunto a Roma subito dopo lo sbarco. Lei e André si erano precipitati a cavallo, rifiutando le maggiori comodità di una più lenta carrozza.
Camminavano lungo il porto, coi capelli al vento, guardando le navi salpare e i puntini all’orizzonte trasformarsi in velieri sempre più grandi e compiere le manovre d’attracco nel molo.
Il messaggio del Colonnello de Valmy comunicava l’arrivo della squadra nel territorio pontificio, ma non dove avevano trovato ricovero. Si erano, perciò, messi alla ricerca del brigantino che le Guardie Reali avevano utilizzato per la missione in Corsica. Dopo un po’ di giri e vari tentativi, lo trovarono e, trascorsi altri cinque minuti, arrivò il Colonnello de Valmy che, nel vedere Oscar, si mise sull’attenti.
– Sapevo, Comandante, che Vi avrei trovata qui. Abbiamo ricevuto ospitalità nel Palazzo Vescovile.
– Come sta il Re, Colonnello?
– Il Re è vivo, Comandante, ma non mi sembra in buona salute. Lo constaterete di persona…
Entrati nel Palazzo, presentarono i loro omaggi al Vescovo e furono, poi, condotti alla presenza di Luigi XVII. Nel vederlo, Oscar avvertì una fitta al cuore. Quel giovane uomo smagrito, dall’aspetto malandato e dallo sguardo triste non era che la larva dell’adolescente sano e pieno di energie che era stato rapito cinque anni prima. Si sentiva male al pensiero di cosa avrebbe provato Maria Antonietta nel rivederlo in quelle condizioni. André, al fianco di lei, teneva a freno le lacrime con difficoltà e pensava che, se fosse successa una cosa del genere a uno dei suoi ragazzi, ne sarebbe morto.
– Sono lieta di rivederVi, Maestà – disse Oscar, contenendo a stento l’emozione.
– Sono io lieto di vederVi, Generale de Jarjayes e anche Voi, Conte di Lille! Vi ringrazio per tutto quello che avete fatto per me! Ditemi, come stanno mia madre e mia sorella? E mia zia?
– All’inizio di settembre, erano in buona salute, Maestà – rispose, commossa, Oscar.
– Disperavo di rivederle… Pensavo che non sarei più uscito da quella prigione, che sarei morto lì, fra gente sconosciuta e ostile e che avrebbero gettato le mie ossa in una tomba anonima e sconsacrata… Ora e per sempre, devo ringraziare Voi e i Vostri uomini!
– Ho fatto soltanto il mio dovere, Maestà e anche per i miei uomini è così – disse Oscar, abbassando le palpebre mentre André stringeva i pugni.
– Ora, però, voglio tornare nella mia patria, assumere le mie funzioni, ricongiungermi a mia madre, a mia sorella, a mia zia! Mi sono mancate terribilmente, voglio rivederle!
– Le rivedrete sicuramente, Maestà, ma, prima di rimetterci in mare, dovrete recuperare le forze – rispose Oscar, con fare rassicurante – Fra un paio di giorni, partiremo per Roma, dove sarete ospite di Sua Santità il Papa. Quando sarete più riposato e avremo rassicurazioni sull’assenza di navi nemiche in mare, ci metteremo in viaggio.
Luigi XVII annuì, ma questo contrattempo gli provocò alcuni spasmi in viso.
Oscar e André se ne accorsero e se ne addolorarono. Si congedarono subito dopo per organizzare i dettagli della partenza per Roma, non prima di avere chiesto al Re se potevano fare qualcosa per lui.
 
********

Napoleone


 
Torino, fine settembre 1805
 
Seduto alla scrivania del suo ampio studio, Napoleone scrutava il Marchese Camille Alexandre de Saint Quentin che stava in piedi davanti a lui.
A trentasei anni, l’Imperatore aveva tagliato i capelli che teneva corti e ravviati sulla fronte in un ciuffo sporgente, per mascherare un principio di calvizie. Non era più magro come un tempo, ma conservava ancora una discreta forma.
Avendo intuito la ragione di quella visita, aveva deciso di ricevere l’ospite privatamente nello studio senza che nessun altro presenziasse.
– Volete prendere in moglie mia sorella Maria Paola e diventare mio cognato. E’ questo il succo della Vostra richiesta, Marchese?
– Sì, Maestà. Sono stato conquistato dalle doti eccellenti di Vostra sorella e vorrei sposarla – rispose il giovane Marchese, intimidito e preoccupato, ma fermo nei suoi propositi e molto dignitoso.
– E come vorreste mantenerla? – appoggiato un po’ di sghembo allo schienale della poltrona, l’Imperatore guardava con occhi freddi e indagatori l’uomo in piedi all’altro lato della scrivania mentre tamburellava le dita sul sottomano in pelle posto sul ripiano di legno – A quanto ammontano le Vostre rendite?
– Complessivamente, a duecentomila livree annue, Maestà.
– Quali proprietà possedete? – lo incalzò Napoleone.
– Ho un castello nelle campagne di Saint Quentin da dove proviene la mia famiglia e un palazzo nella stessa città. Ho un castello e un palazzo anche nella città di Lille, altri tre palazzi nella Francia del nord oltre ad alcuni castelli più piccoli e a qualche villa suburbana. Ho terre nella città di Lille e in quella di Saint Quentin per un’estensione complessiva di circa cinquemila tese. Ho investito cinquantamila livree nella Compagnia francese delle Indie Orientali e altre cinquantamila in quella britannica.
– Non avete palazzi a Parigi? – rincarò l’Imperatore, stringendo gli occhi e assottigliando le labbra – A mia sorella piace la vita nella capitale francese.
– No, Maestà, ma posso provvedere.
– Che non abbia meno di cento stanze. E avete debiti?
– No, Maestà, eccettuati quelli contratti per la gestione delle proprietà che rientrano, però, nell’ordinaria amministrazione.
– Avete figli naturali, concubine o altre mantenute che possano turbare la serenità di mia sorella? – continuò Napoleone, con la precisione e la freddezza dell’artigliere.
– No, Maestà.
– Giocate d’azzardo?
– No, Maestà.
– Avete malattie di qualsiasi natura?
– No, Maestà.
– Sifilide o altre malattie veneree?
– No, Maestà.
– C’è la follia nella Vostra famiglia?
– No, Maestà.
– Avete una qualche tendenza alla pederastia?
– No, Maestà.
– Parlerò con mia sorella e Vi comunicherò la mia risposta – concluse Napoleone, con aria inespressiva, rivolgendosi all’interlocutore senza neanche chiamarlo più “Marchese” – Se questa dovesse essere affermativa, Vi farò visitare dal mio Archiatra di fiducia. Potete andare.
Il Marchese de Saint Quentin si inchinò rispettosamente a Napoleone che rimase seduto e impassibile. Uscì dalla stanza senza dargli le spalle, stordito dalla raffica di domande e un po’ deluso, perché non era così che si aspettava il giorno in cui avrebbe chiesto in sposa una donna.
 
********
 
– Non capisco perché insisti con questa follia, quando potresti ambire a ben altri partiti. Fossi in te, mi concentrerei su un altro Camillo, il Principe Borghese.
Camminando in su e in giù per la stanza, Napoleone esprimeva il suo disappunto a Paolina. Inarrestabile, volitiva, prepotente come lui, era la sorella che preferiva, ma anche quella dal carattere più bizzarro e refrattario a ogni forma di autorità. La giovane, dal canto suo, sapeva di potersi permettere tutto, perché Napoleone mostrava verso di lei una predilezione e un’indulgenza sconfinate e impensabili anche per il resto della famiglia. Fra i due fratelli, c’erano sempre stati un forte affetto reciproco e una grande affinità.
– Quest’uomo mi piace! E’ bello, ricco, nobile, intelligente e mi è devoto in tutto. Bacia il terreno sul quale cammino! Sa persino parlare di moda come piace a me!
– Non è che un campagnolo. E’ questo che vuoi? Rinchiuderti nelle caligini della Francia del nord?
– Ma no, vivremo a Parigi e io sarò una gran dama! So che sarà molto accomodante con me, che mi farà fare tutto quello che vorrò, che mi adorerà. Non ha genitori e fratelli fra i piedi, a parte una sorella bacchettona e noiosa che, però, risiede in Inghilterra, a discreta distanza. Sulle prime, pensavo che amasse un’altra donna che vive in Francia e per me fu un grandissimo smacco, perché non sono abituata a spartire i miei corteggiatori con le altre signore. Poi, però, lui stesso mi spiegò che non è così e che lui ama soltanto me!! Sono stata gelosa di me stessa, non è divertente? – e scoppiò a ridere.
– Ma se, fino a una decina di giorni fa, eri d’accordo con me a sposare il Principe Camillo Borghese!
– Sì, ma dieci giorni sono lunghi – protestò Paolina, battendo la punta del piede, arricciando il naso e facendo la voce infantile.
– E, quando sarai stanca di tutta quest’adorazione e di questa lunga scia di baci dietro ai tuoi piedi, cosa ti rimarrà in mano? Ti rendi conto che stai dando un calcio alla nobilissima famiglia Borghese per un oscuro Marchese di provincia?
– Non voglio vivere a Roma… C’è un’atmosfera opprimente, all’ombra del Papa e della cupola di San Pietro… Non voglio passare il tempo a recitare il rosario insieme a tutte quelle vecchie matrone baciapile! – nel dirlo, mise su un delizioso broncio infantile che avrebbe sciolto un cuore di pietra – Tanto, come tua sorella, sarò sempre ricchissima e onoratissima, che mi importa di chi sposo? Borghese, de Saint Quentin, che differenza fa? Solo un nome conta ed è Bonaparte! – pronunciando queste parole, ritrovò repentinamente la gaiezza.
Paolina sapeva sedurre chiunque, qualunque fosse la relazione umana nella quale era impegnata. Quanto al fratello, stringeva saldamente la chiave del cuore di lui e sapeva come usarla.
– Va bene, se questa è la tua volontà, ma, poi, non venire a piangere da me, sciocchina! Manderò l’Archiatra dal Marchese perché lo visiti e alcuni miei uomini di fiducia a verificare la consistenza delle proprietà che dice di avere.
Paolina iniziò a saltare e a battere le mani tutta emozionata.
– Bene, allora, ti lascio, che devo andare a ordinare l’abito da sposa e il guardaroba per le prime settimane di matrimonio!! Quante cose avrò da fare!! Se ci penso, mi sento svenire!! Chiederò aiuto a nostra madre! No, meglio di no, se no, mi farà comprare tutte vesti accollatissime e da vecchia signora…
E se ne andò in un turbinio di salti, afferrando per il braccio uno dei Corazzieri a guardia della porta e costringendolo a piroettare con lei.
 
********
 
Roma, primi di ottobre del 1805
 
Le colombe e i piccioni zampettavano nei punti vuoti della piazza, a distanza di sicurezza dalle persone. Sostavano sull’architrave e sulle alte statue che sormontavano il colonnato o in cima al grande obelisco oppure si abbeveravano e facevano il bagno nelle grandi fontane, esponendo prima un’ala e poi l’altra ai getti d’acqua.
Honoré, Antigone e Bernadette avevano trovato il punto della piazza dal quale le quattro file del colonnato del Bernini apparivano allineate in un’unica riga e si alternavano a posizionarcisi sopra. Avevano assistito alla messa nella Basilica, avevano visitato le tombe di San Pietro e degli altri Papi e, ora, giravano per la piazza in attesa di andare a pranzare.
Oscar a André guardavano i tre ragazzi discutere e scherzare spensieratamente quando videro avvicinarsi il Cardinale Brancadoro.
– Eminenza – disse Oscar – Se avessi saputo che volevate parlarmi, sarei venuta io da Voi.
– Non fa niente, Generale de Jarjayes – rispose il porporato – Volete fare una passeggiata insieme a me?
Oscar e il Cardinale iniziarono a camminare sotto l’ampio colonnato di travertino mentre André raggiungeva i figli e Bernadette.
– Sua Santità il Papa ha deciso di accogliere la Vostra supplica e di non presenziare all’incoronazione del Bonaparte. Egli Vi invia la Sua benedizione.
– Eminenza, ringrazio il Santo Pontefice e Voi per avermelo comunicato!
– Il Papa non è mai sordo alle giuste richieste dei suoi fedeli.
Il Cardinale tacque per alcuni istanti e, poi, cambiando argomento, ma non tono di voce, proseguì:
– Siete a conoscenza dell’esistenza del tesoro dei giacobini?
– Il tesoro dei giacobini, Eminenza?
– Si tratta di gemme, gioielli, opere d’arte, argenteria, denari e altre ricchezze che i giacobini razziarono nei castelli dei nobili e dei ricchi borghesi o che pretesero come riscatto in cambio del rilascio dei loro prigionieri, prima che Voi fermaste la loro follia. Ci sono anche lingotti d’oro e denaro provenienti dai finanziamenti esteri, soprattutto inglesi.
– Finanziamenti inglesi! – esclamò Oscar.
– Una parte dell’Inghilterra, specialmente il ceto mercatorio e la Compagnia britannica delle Indie, è sempre stata contraria al sistema giuridico regolante la Vostra proprietà terriera, reputandolo troppo statico e contrario al libero commercio. Fra Inghiletrra e Francia, inoltre, sin dal medioevo, i rapporti non sono mai stati pacifici e l’aiuto che il defunto Re Luigi ha fornito ai ribelli americani non ha contribuito alla distensione.
Oscar guardava il Cardinale e taceva.
– Alcune missive indirizzate ai simpatizzanti romani dei giacobini furono intercettate e sequestrate dalla nostra polizia e, ora, si trovano negli Archivi Vaticani. Siete libera di consultarle quando volete. Non pensate che, se quel tesoro fosse nascosto in Francia e Voi lo trovaste, potreste farne uso per potenziare il Vostro esercito e fermare l’invasore?
Il viso del Cardinale Brancadoro era bonario e non lasciava trasparire la minima emozione, così come la voce, calma e piana, ma, per un breve istante, lo sguardo di lui parve animato da un guizzo che Oscar colse alla perfezione. Il Cardinale pensava che lei avrebbe potuto arrestare l’insana ascesa di Napoleone e le stava anche indicando la via per reperire i mezzi finanziari. L’alto prelato – e il Papa dietro di lui – la stavano tacitamente investendo della missione di ristabilire la pace in Europa e lei se ne sarebbe dovuta fare carico per il bene della Francia e di tutti i popoli del vecchio continente.







Il paragrafo sull’escursione a Bomarzo è stato inserito su richiesta di Dorabella27.
Come al solito, grazie a chi vorrà leggere e recensire!
   
 
Leggi le 12 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Lady Oscar / Vai alla pagina dell'autore: _Agrifoglio_