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Autore: _Agrifoglio_    30/09/2021    12 recensioni
Una missione segreta, un’imboscata vicino al confine austriaco e il corso degli eventi cambia. Il senso di prostrazione dovuto al fallimento, il dubbio atroce di avere sbagliato tutto, un allontanamento che sembra, ormai, inesorabile, ma è proprio quando si tocca il fondo che nasce, prepotente, il desiderio di risorgere. Un incontro giusto, un’enorme forza di volontà e, quando tutto sembrava perduto, ci si rimette in gioco, con nuove prospettive.
Un’iniziativa poco ponderata della Regina sarà all’origine di sviluppi inaspettati da cui si dipanerà la trama di questa storia ricca di colpi di scena, che vi stupirà in più di un’occasione e vi parlerà di amore, di amicizia, di rapporti genitori-figli, di passaggio alla maturità, di lotta fra concretezza e velleitarismo, fra ragione e sogno e della difficoltà di demarcarne i confini, di avventura, di duelli, di guerra, di epos, di spirito di sacrificio, di fedeltà, di lealtà, di generosità e di senso dell’onore.
Sullo sfondo, una Francia ferita, fra sussulti e speranze.
Davanti a tutti, un’eroica, grande protagonista: la leonessa di Francia.
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes, Quasi tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La battaglia di Trafalgar
 
Mar Mediterraneo, 20 ottobre 1805
 
Oscar e André si trovavano sul ponte di prua della fregata che riportava a casa il Re, dopo cinque anni di prigionia. Le altre due fregate, che facevano da scorta al Sovrano, navigavano a poca distanza da loro. Il cielo era nuvoloso e ciò rendeva ancora più grigie le vele e più scure le corde che pendevano dagli alberi.
Malgrado le condizioni di salute ancora precarie di Luigi XVII, Oscar aveva deciso di partire ugualmente, in quanto le era stato riferito che la Royal Navy continuava a bloccare le navi napoleoniche e spagnole nei porti del Mediterraneo e dello Stretto di Gibilterra e che l’insolito via vai della flotta napoleonica a largo di Brest era recentemente venuto meno. Il mare e l’oceano erano sgombri e bisognava approfittarne.
Indossavano due pesanti redingote per proteggersi dal fresco mattutino di un autunno ormai inoltrato, accresciuto dall’umidità del mare. Il vento scompigliava i loro capelli e li riempiva di salsedine, rendendoli stopposi, permanentemente umidi e ancora più indocili di quanto già non fossero naturalmente.
Oscar distolse lo sguardo dal sartiame e lo diresse verso il Re che, seduto su una poltrona portatagli sul ponte, con una coperta sulle gambe, ascoltava i racconti di Honoré, Antigone e Bernadette che avevano preso posto vicino a lui. Nelle tre settimane seguite alla liberazione, si era un po’ ripreso e, ora, camminava da solo e senza supporto, ma era sempre molto magro, debole e oppresso da un forte esaurimento. Alto, allampanato e privo di muscolatura, a Oscar sembrava uno di quei ragni lunghi e filiformi, tutti zampe, che vedeva spesso nelle campagne di Arras.
Da madre, provava una forte stretta al cuore mentre, da soldato, era consapevole che la guida della Francia sarebbe stata incerta. Chi era quel giovane uomo che stavano riportando a casa? Sarebbe stato idoneo a governare? Era mentalmente stabile? Come aveva gestito il passaggio dall’adolescenza all’età adulta in condizioni di aspra prigionia? Il Re era stato strappato ai suoi affetti nell’età più delicata, la vita di lui si era bruscamente interrotta nella fase formativa e, adesso, era un giovane adulto approdato ai venti anni nel corso di una lunga parentesi di sospensione. Oscar se lo immaginava come una piantina cui avessero impedito di crescere o come i piedi delle donne cinesi fasciati e deformati, a causa di un impedimento contro natura imposto al fluire della vita. Chi aveva davanti a lei? Un adolescente bloccato? Un adulto per saltum? Natura non facit saltus
– Che cosa Vi è piaciuto di più di Roma? – domandò il Re ai tre ragazzi, di poco più giovani d lui – Sarei stato felice di visitarla insieme a Voi!
– Io ho adorato passeggiare per il Bosco Sacro di Bomarzo e calarmi nelle grotte del Colle Oppio con le funi e l’asse di legno, ammirando a lume di torcia quel mondo sotterraneo – si affrettò a rispondere per prima Antigone – e anche le locande di Trastevere!
– Le locande di Trastevere?! – domandò, stupito, il Re, reputandole un luogo poco consono a una fanciulla.
– Ci siamo andati in pieno giorno, accompagnati dalla scorta e sempre in luoghi rispettabili – precisò, subito, Honoré.
– E non dimentichiamo la rivalità di Don Paolo per Antonio Canova! – aggiunse Antigone con aria sbarazzina – E’ stato l’aspetto più esilarante che, da solo, è valso tutto il viaggio!
– Povero Don Paolo! – esclamò, ridendo, il Re.
– Povero Canova! – puntualizzò, con le lacrime agli occhi, Antigone e tutti la seguirono nella risata.
– A me, invece, sono piaciuti gli antichi manoscritti e quelle enormi carte geografiche nella galleria dei palazzi vaticani – disse Honoré – e la Cappella Sistina, naturalmente.
– E Voi, Madamigella Bernadette? – chiese il Re – Ve ne state muta? Mi interessa anche il Vostro parere!
– A me sono piaciute tante cose – rispose, arrossendo, Bernadette – Villa Adriana a Tivoli, l’antica Via Appia, le Catacombe, il Pantheon dove è sepolto Raffaello, il tempio rotondo accanto alla Bocca della Verità, con l’armonia delle sue forme mirabilmente conservate, la Fontana di Trevi, il Colosseo, i Fori, le conversazioni con Antonio Canova e Angelica Kauffmann…
– Bernadette ha fatto dei disegni bellissimi – disse Antigone – I miei, a confronto, sarebbero sembrati gli scarabocchi di un bambino.
– Sul serio? – domandò il Re – Desidero vederli!
Mentre Bernadette scendeva in cabina a prendere i disegni, André sussurrò a Oscar:
– Quando è in compagnia, non sta, poi, tanto male…
La vicinanza dei tre ragazzi era, per il Re, un grande toccasana. Era durante il sonno, sempre agitato e nella solitudine della cabina in cui viaggiava che la mente di lui si popolava di fantasmi e di pensieri ossessivi.
– La vita e, soprattutto, il Governo della Francia, però, non sono un’allegra conversazione fra amici. Ho idea che il Consiglio di Reggenza avrà ancora molto da fare, sebbene sotto altra forma… André!
– Sì?
– Che ne pensi del tesoro dei giacobini? I documenti che ho visionato negli Archivi Vaticani testimoniano con certezza che esso esiste, ma tacciono sull’ubicazione.
– Penso che, se lo trovassimo, potremmo finanziare la lotta all’Armata Napoleonica e la successiva ricostruzione della Francia, visto che le casse dello Stato attualmente sono messe malino. Rendere il maltolto ai vecchi proprietari è improponibile, chi li andrebbe a scovare? Quanto ai finanziamenti inglesi, ci mancherebbe pure che li restituissimo! Volevano destabilizzare la Francia per sbarazzarsi degli storici rivali e per pareggiare i conti aperti con la guerra d’indipendenza americana!
– Hai ragione, André. Appena tornati in Francia, dovremo mettere a parte della cosa la Regina Maria Antonietta e organizzare le ricerche del tesoro con metodo scientifico.
I due coniugi guardarono Bernadette risalire dalla cabina e mostrare i suoi disegni al trio che l’aspettava. Tutti convennero che quegli schizzi erano incredibilmente belli e somiglianti agli originali. Il ponte della nave era insolitamente allegro e qualche giovane ufficiale di Marina, incuriosito, si unì alla comitiva. In quei momenti, il Re pareva risanato a tornato ai tempi dell’infanzia.
 
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Versailles, 20 ottobre 1805
 
– Sono così lieta di vederVi, Generale de Jarjayes! A cosa devo la Vostra visita? Avete notizie dall’Italia?
Maria Antonietta guardava l’anziano Generale con supplice impazienza, nella speranza che questi recasse con sé buone nuove sul ritrovamento di Re Luigi.
– E’ così, Maestà – rispose il nobiluomo, ben attento a misurare ogni singola parola – Un corriere inviato da mia figlia mi ha informato del felice esito della missione di salvataggio condotta dal Colonnello de Valmy. Il Re è stato liberato ed è ospite di Sua Santità il Papa.
– Ma è meraviglioso! – esclamò la Regina, col volto illuminato e la voce gioiosa di quando era giovane e spensierata – E come sta?
– Il Re è affaticato nel corpo e nello spirito – rispose, con diplomazia, il Generale de Jarjayes.
Con la moglie, aveva discusso a lungo e insieme avevano concordato nei dettagli cosa dire alla Regina e in che modo comunicarglielo.
– Ma quanto affaticato? – chiese Maria Antonietta.
– L’Archiatra del Papa non ha riscontrato malattie come la tubercolosi, lo scorbuto e infezioni dell’epidermide né altri morbi contagiosi, ma soltanto un diffuso esaurimento fisico e mentale, del tutto comprensibile, considerati gli anni di prigionia patiti da sua Maestà.
La Regina iniziò a sospettare che le si stesse volutamente dicendo meno di quanto si sapeva e, malgrado lo sforzo di contenersi, tradì un forte nervosismo dagli occhi spaventati.
– Egli è padrone di sé? – domandò con un filo di voce.
– Sì, Maestà – rispose il Generale – Il Re è perfettamente capace di intendere e di volere.
– Posso vedere la missiva?
– Naturalmente, Maestà.
Oscar aveva fatto recapitare al padre tre lettere. La prima, indirizzata a Maria Antonietta, nella quale si diceva che il Re era stanco e deperito, ma si evitava di scendere in particolari troppo penosi. La seconda, indirizzata al Generale, che spiegava dettagliatamente il reale stato delle cose. La terza, indirizzata sempre al Generale, di tenore del tutto simile alla prima, per il caso in cui la Regina avesse chiesto di vederle entrambe.
L’intenzione era quella di preparare per gradi Maria Antonietta alle tristi condizioni del ragazzo, nella speranza che, nel lasso di tempo che sarebbe intercorso fra l’arrivo di Oscar a Civitavecchia e il ritorno in Francia, questi riuscisse a recuperare un minimo di forma fisica con del cibo nutriente e un po’ di esercizio.
Come Oscar aveva ipotizzato, la Regina domandò di leggere, oltre alla propria, anche la missiva indirizzata al Generale e questi le consegnò il terzo plico.
Maria Antonietta scorse rapidamente entrambi i fogli, constatando che erano simili nel contenuto. L’intuito materno e un’abitudine ormai consolidata a fiutare inganni e reticenze le fecero, però, subodorare i non detti che si annidavano fra quelle righe probabilmente confezionate ad arte. Capì anche che nient’altro avrebbe ottenuto dal Generale in quella sede e si arrese momentaneamente. Rispose ai pietosi silenzi dell’anziano ufficiale con un atteggiamento di falsa acquiescenza e i due si congedarono, ben consci del fatto che nessuno era riuscito a ingannare l’altro.
 
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Stretto di Gibilterra e Capo Trafalgar, 20 ottobre 1805
 
All’imbrunire del venti ottobre, le tre fregate della Regia Marina Francese avevano raggiunto lo Stretto di Gibilterra. Avvicinandosi il momento di attraversare le Colonne d’Ercole, i dubbi si riaccesero, perché il vento era forte, la nebbia molto bassa e compatta e la luce solare ogni minuto più flebile. Il Capitano aveva dato ordine di ridurre le vele, ma non di ammainarle del tutto, al fine di proseguire la navigazione, di fuoriuscire al più presto dal Mediterraneo e di allontanarsi dalle coste meridionali della Spagna nei cui porti erano ormeggiate le navi nemiche.
Giunti in prossimità di Capo Trafalgar, qualcosa di inaspettato gelò il sangue nelle vene a Oscar e a tutti gli altri. Decine di navi di una flotta che le ombre della sera non consentivano di identificare si trovavano sparpagliate su un’area di quattro miglia nautiche a largo della costa.
– Dannazione, questa non ci voleva!! – esclamò la donna che sperava, giunti a quel punto, di avere il ritorno a casa in tasca – Capitano, cosa possiamo fare?
– Le navi, purtroppo, si trovano sulla nostra traiettoria. Sconsiglio di tornare indietro, dati il buio, la nebbia e il forte vento contrario.
– E, poi, non dobbiamo reimbottigliarci nel Mediterraneo, nel quale non abbiamo porti e dove sarebbe più difficile fuggire da eventuali inseguitori – concluse Oscar.
– Per le stesse ragioni – proseguì il Capitano – sconsiglio di prendere il largo. Il vento è troppo forte e, domani, potrebbe esserci bonaccia così come tempesta. In situazioni simili, io non mi allontano mai dalla costa. Potremmo avvicinarci a Tangeri, ma non sappiamo, lì, cosa aspettarci.
– Capitano – disse, molto pensierosa, Oscar dopo avere riflettuto un po’ – Deviamo verso Tangeri, ma restiamo in mare, senza sbarcare. Alle prime luci dell’alba, torneremo indietro e vedremo che situazione ci sarà. Può anche darsi che, domani, le navi se ne saranno andate.
Fecero così e aspettarono nel mare di Tangeri l’arrivo del giorno nuovo.
 
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Battaglia-di-Trafalgar


 
Capo Trafalgar, 21 ottobre 1805
 
Il ventuno ottobre, dopo l’alba, tornarono indietro, con le imbarcazioni che procedevano sostanzialmente in abbrivio, perché il vento era calato e in aria non c’era neanche uno sbuffo. Con le navi pressoché ferme, impiegarono quasi tre ore a raggiungere il punto dal quale si erano allontanati il giorno precedente.
La situazione che trovarono, giunti in prossimità di Capo Trafalgar, era peggiorata rispetto alla sera precedente. Decine di navi, battenti bandiera napoleonica e spagnola, erano schierate in linea di fila mentre altre imbarcazioni, con bandiera inglese, erano ordinate in due colonne perpendicolari alla linea, a formare con essa una T.
– Quello che vedo non mi piace affatto, Generale de Jarjayes – disse, accigliato, il Capitano – Lo schieramento in linea di fila e, cioè, con una nave dietro l’altra, presuppone l’intenzione di dare battaglia. Ciò che non mi è chiaro, invece, è lo schieramento degli inglesi. Di solito, le battaglie navali si svolgono con due linee di fila parallele che si cannoneggiano a vicenda. Gli inglesi, però, si sono posizionati perpendicolarmente, cosa che lascerebbe intendere una volontà di sfondamento della linea nemica, dato che da prua non si cannoneggia.
– Volete dire che sta per iniziare una battaglia navale e che noi rischiamo di finirci in mezzo?! – chiese Oscar, allibita.
– Precisamente, Generale de Jarjayes.
– Mi sono trovato già una volta spettatore di una battaglia navale – si inserì André – Sette anni fa, nella baia di Abukir. Chi sa se, anche questa volta, gli inglesi saranno guidati da Nelson.
– Dobbiamo andarcene!! – esclamò Oscar.
– Consiglio di portarci oltre le navi, ma non troppo a largo – disse il Capitano – Innanzitutto, non c’è vento e, poi, un’eccessiva bonaccia come questa spesso prelude una tempesta. Eviterei il mare aperto.
Decisero, pertanto, di costeggiare la Spagna a maggiore distanza da dove erano schierate le navi, tenendo sempre la situazione sotto controllo coi cannocchiali. La manovra, però, si rivelò lentissima, perché, senza vento, le fregate erano quasi ferme.
 
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Durante tutti quei mesi, le navi napoleoniche e spagnole erano rimaste quasi sempre ancorate nei loro porti, perché quelle inglesi le controllavano e le bloccavano, soffocando a colpi di cannone ogni velleità di guadagnare il mare aperto. L’Ammiraglio de Villeneuve aveva avuto alcune buone occasioni di spezzare le linee nemiche e di portarsi vicino alle coste inglesi, ma non le aveva sfruttate per un eccesso di indecisione. Napoleone si era, quindi, stancato ed era giunto alla risoluzione di concentrare le forze sull’esercito di terra per invadere l’Austria. Aveva, perciò, ordinato all’Ammiraglio de Villeneuve di navigare verso il Mediterraneo, per sbarcare in Europa le fanterie di Marina da impiegare nelle battaglie di terra. De Villeneuve, ben sapendo che Napoleone era in collera con lui e intendeva sostituirlo, aveva deciso di ingaggiare una battaglia col nemico, preferendo una morte gloriosa a una vita coperta d’infamia ed era salpato da Cadice, in direzione di Cartagena. La manovra fu lenta e difficoltosa, a causa del forte vento contrario e della nebbia. Le navi inglesi, comandate da Nelson, avevano notato il movimento e si erano messe all’inseguimento del nemico.
Ciò che Oscar e gli altri avevano visto all’imbrunire del venti ottobre erano le navi napoleoniche e spagnole, disseminate in ordine sparso a largo di Capo Trafalgar.
Il ventuno ottobre, de Villeneuve aveva avuto un altro dei suoi ripensamenti e aveva deciso di tornare a Cadice, ma non vi era riuscito, a causa della bonaccia e delle manovre nemiche. Alle sei e venti, aveva ordinato, quindi, di schierare le navi in linea di fila, in attesa che la battaglia iniziasse. Dati la difficoltà della manovra e i continui cambi di piano, la linea di fila assomigliava, più che altro, a una mezza luna.
Fu a questo punto che Nelson sparigliò le carte. Anziché schierare le sue navi in una linea di fila parallela all’altra, decise, così come aveva già fatto nel corso della battaglia del Nilo, di creare due colonne che attaccassero perpendicolarmente la linea nemica, in uno schieramento a T, il cosiddetto “Tocco di Nelson”. Una colonna, con in testa la HMS Victory, sarebbe stata guidata da lui mentre l’altra dal Vice Ammiraglio Collingwood, a bordo della HMS Royal Sovereign.
I pregi di questa nuova formazione erano due. In primo luogo, le navi potevano sparare da entrambi i lati anziché soltanto da quello diretto verso la linea di fila nemica. Inoltre, la colonna che muoveva perpendicolarmente all’attacco, se munita di una sufficiente forza d’urto, aveva la possibilità di rompere lo schieramento nemico e di colpire più avversari da una minore distanza, incuneandosi negli intervalli della lunga fila, scatenando una mischia furiosa e riducendo lo svantaggio numerico.
Questa strategia innovativa aveva, però, anche dei grossi difetti. Innanzitutto, le navi attaccanti, così come potevano sparare da entrambi i lati, erano anche cannoneggiate da più direzioni e sottoposte al fuoco incrociato di tutta la flotta nemica. In secondo luogo, poiché le navi non avevano i cannoni a prua, ma soltanto di lato, restavano indifese fino al momento del contatto e, per tutto il tempo che impiegavano a raggiungere la fila nemica, erano cannoneggiate senza potere rispondere al fuoco.
L’unica difesa efficace contro questa formazione a T sarebbe stata l’accerchiamento delle due colonne e de Villeneuve, a onor del vero, diede ordini in tal senso, ma la cosa non gli riuscì. Sarebbe, infatti, stata necessaria una manovra veloce e armonica dell’avanguardia e della retroguardia, tale da avvinghiare le due linee di fila inglesi, ma c’era poco vento e i sottordinati non obbedirono al Vice Ammiraglio oppure non si capirono bene fra di loro.
 
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Battaglia-di-Trafalgar-2


 
Alle ore undici, Nelson parlò con i Capitani delle fregate, dicendo loro: “Oggi, vedrete il nemico molto da vicino”. Alle undici e trenta, fece issare sull’albero maestro della HMS Victory il suo segnale: “L’Inghilterra attende che ciascuno faccia il proprio dovere” e la battaglia vera e propria ebbe inizio.
La HMS Royal Sovereign era il vascello inglese più veloce, perché lo scafo era stato ricoperto da poco da un nuovo strato di rame, dando alla nave una carena più pulita. Collingwood fu, quindi, il primo a ingaggiare battaglia col nemico, prendendo di mira la nave ammiraglia spagnola Santa Ana.
Intorno a mezzogiorno, il vascello francese Le Fougueux sparò contro la Royal Sovereign il primo colpo di cannone della giornata.
Incuneatasi nella fila nemica, la Royal Sovereign si collocò a poppa della Santa Ana “a distanza di pistola”, devastandola con le sue batterie di sinistra, caricate a doppia palla. Contemporaneamente, però, varie navi giunsero  in soccorso della Santa Ana, circondando la Royal Sovereign che fu gravemente danneggiata. La nave di Collingwood fu salvata dall’arrivo della squadra britannica, ma non poté più manovrare.
Dopo la Royal Sovereign, fu la volta della HMS Victory.
Nelson passeggiava sul cassero in alta uniforme, con le tante medaglie appuntate sul petto e, da lì, teneva sotto controllo tutte le operazioni, peraltro già studiate nei minimi dettagli con i suoi Capitani. Egli riuniva in sé sia le doti dei comandanti pignoli, pianificando al millesimo tutte le varie azioni sia quelle dei condottieri ardimentosi, poiché era infervorato dalla battaglia che era sempre in grado di volgere a suo favore, all’occorrenza mutando i piani anche all’ultimo momento. In combattimento, era sempre di ottimo umore. L’adrenalina si impossessava di lui e lo rendeva quasi invincibile. Possedeva, inoltre, la radicata convinzione che quello che faceva era giusto e ciò lo spingeva a perseguire con tenacia e coraggio i suoi disegni.
Ciò che videro Oscar, André e gli altri con i cannocchiali, dal loro osservatorio privilegiato al largo della costa, fu stupefacente. La HMS Victory si dirigeva contro la linea nemica e, durante i quindici – venti minuti necessari a giungere a destinazione e a incunearsi, fu letteralmente inondata dalle bordate nemiche, senza potere rispondere al fuoco, non avendo i cannoni sulla prua.
Il Capitano delle tre fregate della Marina Reale Francese, ove erano imbarcati Oscar e gli altri, aveva issato tutte le vele, orientandole in modo da dare alle navi la maggiore velocità possibile, al fine di abbandonare al più presto il luogo della battaglia. Data l’assenza di vento, però, le imbarcazioni era quasi ferme.
Nelson, a bordo della HMS Victory, tagliò la linea di fila della flotta napoleonico – spagnola, incuneandosi tra la Bucentaure e la Redoutable.
La Bucentaure era la nave ammiraglia della flotta napoleonica, un vascello a due ponti e ottanta cannoni, costruito nell’arsenale di Tolone, varato il 13 luglio 1803, completato e immesso in servizio nel gennaio del 1804. Come tutte le navi napoleoniche, era più moderna e meglio fabbricata ed equipaggiata delle imbarcazioni inglesi che si trovavano anche in condizione di inferiorità numerica. I marinai britannici, però, compensavano con una professionalità infinitamente superiore, essendo molto più addestrati, disciplinati e coordinati dei loro colleghi napoleonici che avevano una tradizione marittima meno brillante e un addestramento quasi inesistente, dal momento che i blocchi navali inglesi costringevano il nemico nei porti.
La Bucentaure si difese, sparando un’impressionante raffica di colpi di cannone e distruggendo le vele di gabbia della Victory. Nelson, allora, ordinò a Blackwood di avvertire le navi di linea inglesi di serrare addosso al nemico. La Bucentaure continuò a sparare e l’albero di trinchetto della Victory fu distrutto, la ruota del timone si schiantò e i fanti di marina inglesi furono falciati.
Pareva eruttato l’inferno in terra, con i colpi di cannone sparati quasi ogni secondo e in qualsiasi direzione e una mischia furiosa di navi disordinate che si schiantavano l’una sull’altra. I suoni erano assordanti e le fiamme sprigionate dalle bocche di fuoco abbacinanti. I ponti delle navi ondeggiavano paurosamente, fra lo stridere delle assi e le urla dei marinai, molti dei quali erano sbalzati in mare. In acqua, galleggiavano assi di legno, funi, brandelli di vela e i corpi degli uomini di tutti gli equipaggi.
Per tagliare la linea nemica, occorreva abbordare uno dei vascelli e fu scelta la Redoutable.
Durante la manovra di avvicinamento, fu colpita a poppa anche la Bucentaure e il terribile impatto distrusse venti cannoni dell’ammiraglia, spezzandole i ponti e disalberandola, così da renderle impossibile manovrare.
Il tiro fu, quindi, concentrato sulla Redoutable, ma anche i fanti napoleonici sparavano molto bene, soprattutto dalle coffe. In cinque minuti, di centodieci marinai inglesi, novanta furono messi fuori combattimento. Le navi erano così vicine che le vele si intrecciavano fra loro.
Soltanto Nelson e il Capitano Hardy continuavano a passeggiare sul cassero.
 
Battaglia-di-Trafalgar-3


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All’una e quindici del pomeriggio, un tiratore scelto, dall’albero maestro della Redoutable, fu attratto da un luccichio proveniente dal ponte della HMS Victory. Qualcosa di brillante si spostava sul cassero avanti e indietro.
Il tiratore alzò il cane e la batteria del moschetto, tenendo l’arma parallela al suolo e, subito dopo, afferrò una cartuccia dalla cartuccera che indossava a tracolla e ne strappò il fondo con i denti, sputando immediatamente quella carta che sapeva di salnitro e di zolfo.
Di sottecchi, continuava a tenere d’occhio il luccichio semovente.
Versò alcuni grani di polvere della cartuccia nello scodellino e chiuse la batteria. Posizionò il moschetto in verticale e versò dentro il restante contenuto della cartuccia: la polvere da sparo e il proiettile.
L’obiettivo continuava a muoversi.
Estrasse la bacchetta dai supporti sotto la canna e la infilò nella bocca del moschetto, spingendo il proiettile contro la polvere da sparo. Sistemò l’arma in posizione orizzontale e armò il cane completamente.
Prese bene la mira in direzione del luccichio.
Vediamo se riesco a colpire quel pavone”.
E fece fuoco.
 
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Battaglia-di-Trafalgar-4


 
Contemporaneamente, il Comandante della Redoutable, Lucas, ordinò di abbattere il pennone di maestra della propria nave e di usarlo come passerella per arrembare la Victory. L’operazione si rivelò complicata, perché occorreva superare un dislivello, essendo i ponti della HMS Victory più alti. Lucas, però, aveva la fama di uomo determinato che non temeva niente e nessuno.
Proprio nel momento in cui l’arrembaggio stava per essere portato a compimento, da prua della Redoutable, arrivò la HMS Temeraire che iniziò a sparare sul vascello francese.
All’una e cinquantacinque, il Comandante Lucas si arrese e, quasi contemporaneamente, anche l’ammiraglia spagnola Santa Ana ammainò i suoi colori, sotto il fuoco del Vice Ammiraglio Collingwood.
Successivamente, la HMS Conqueror diede il colpo di grazia alla Bucentaure. Dopo tre ore di combattimento, de Villeneuve si arrese e la Bucentaure fu abbordata, legata con un cavo alla HMS Conqueror e, da questa, trainata a rimorchio mentre l’Ammiraglio de Villeneuve fu fatto prigioniero dagli inglesi. Rimesso in libertà alcuni anni dopo, si suicidò per non dover affrontare la collera di Napoleone.
Altrettanti duelli si conclusero in modo simile e, al termine della battaglia, ben ventuno navi napoleonico – spagnole furono catturate mentre un’altra fu affondata.
Il bottino di guerra fu di breve durata, perché la tempesta che seguì la bonaccia portò all’affondamento della maggior parte delle navi catturate. Per quanto riguarda, in particolare, il destino della Bucentaure, durante la notte, a causa del mare grosso, il cavo di rimorchio si ruppe e i marinai napoleonici ripresero il controllo del vascello, tentando di dirigerlo verso il porto spagnolo di Cadice, ma fallirono la manovra a causa della tempesta e della scarsa governabilità della nave che si incagliò sugli scogli e affondò, il 22 ottobre 1805.
Miglior sorte ebbero le tre fregate sulle quali viaggiavano il Re di Francia e i nostri protagonisti. Poiché il Capitano diffidava dell’eccesso di bonaccia, le imbarcazioni furono dirette verso un’insenatura nascosta e tranquilla della penisola iberica, dove trascorsero la notte, evitando di finire sulla rotta di qualche nave sopravvissuta alla battaglia e scampando la tempesta che si abbatté sull’oceano dopo diverse ore di calma piatta. Quando il tempo si fu rimesso, ripresero il mare in direzione del porto di Le Havre.
 
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Quella di Capo Trafalgar fu l’ultima battaglia di Horatio Nelson.
Durante l’incessante cannoneggiamento nemico, soltanto lui e il Capitano Hardy rimasero a passeggiare sul cassero della HMS Victory. All’una e un quarto del pomeriggio, il Vice Ammiraglio fu raggiunto da un colpo di moschetto, sparato da quindici metri di distanza, da un tiratore scelto a bordo della Redoutable, attirato dal luccichio delle decorazioni militari che Nelson esibiva sul petto. Il proiettile gli fracassò una spalla, due costole e la colonna vertebrale e gli perforò un polmone.
La notizia del ferimento non fu data agli uomini per non demoralizzarli e la fuoriuscita del sangue fu mascherata dal colore rosso della marsina che il Vice Ammiraglio indossava in tutte le battaglie.
Morì nell’infermeria della nave, a due ore dallo sparo, dopo avere ricevuto la notizia della vittoria. Il corpo fu rasato e conservato in una botte di rum, per, poi, essere composto in una bara ricavata da un troncone dell’albero maestro della nave ammiraglia francese L’Oriént, esplosa nel corso della battaglia del Nilo, combattuta fra l’1 e il 2 agosto 1798. Il troncone era caduto in mare e il Comandante della HMS Swiftsure lo aveva ripescato e donato a Nelson.
Fu sepolto a Londra, nella Cattedrale di Saint Paul.
Così, morì Lord Horatio Nelson, eroe nazionale, marinaio coraggioso e geniale, uomo vanitoso, pessimo marito, nemico crudele, spietato e rancoroso.
 
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Porto di Le Havre, 26 ottobre 1805
 
Erano, infine, giunti in patria. Date le condizioni di estrema debolezza del Re, Oscar aveva deciso di evitargli le scomodità di uno spostamento via terra e, pertanto, le tre fregate non avevano fatto rotta verso il porto militare di Brest, ma verso quello commerciale di Le Havre. Da lì, avrebbero risalito la Senna fino a Parigi, su un battello adatto alla navigazione fluviale.
Al loro arrivo, Oscar consegnò a un corriere una breve missiva indirizzata al Generale de Jarjayes del seguente tenore: “Il carico di limoni arriverà al porto di Parigi all’alba del 30 ottobre. La merce è integra” che, nel loro linguaggio in codice, significava la buona riuscita della missione e il loro arrivo nella capitale nella data indicata.
Il cielo era plumbeo e, ogni tanto, lasciava cadere qualche esile gocciolina. Stretta nel suo mantello militare di lana, Oscar faceva fronte ai rigori di un’uggiosa mattina di fine ottobre del nord della Francia mentre, dal molo, sovrintendeva alle operazioni di trasbordo dalle fregate al battello.
– Vi ho comprato il giornale come mi avevate chiesto, Comandante.
– Grazie, Jean – disse Oscar al suo attendente.
– Il trasbordo è quasi finito, Oscar. Saliamo sul battello, che la nebbia è molto fitta e, stanca come sei, rischi di prenderti un’infreddatura – suggerì André alla moglie.
– Sali tu, André. Do le ultime disposizioni e ti raggiungo. Tu, per favore, controlla che i ragazzi siano a bordo e che il Re sia sistemato in una cabina calda, luminosa e confortevole.
Un quarto d’ora dopo, anche Oscar salì sul battello. Sul ponte, trovò il Colonnello de Valmy, i figli, Bernadette e il marito che la rassicurò sulle condizioni del Re e della cabina.
– Guardate cosa è scritto nella prima pagina del giornale – disse la donna – Lord Nelson ha trovato la morte nel corso della battaglia di Trafalgar!
– La cosa non mi stupisce, date le abitudini del Vice Ammiraglio – disse André – Quando ero prigioniero sulla HMS Vanguard e infuriava la battaglia del Nilo, non faceva altro che passeggiare su e giù per il cassero, per giunta in alta uniforme e con tutte le medaglie e le decorazioni appuntate sul petto.
Mentre erano intenti a commentare la morte di Nelson, Antigone fu attratta da alcuni rumori provenienti da una delle scialuppe di salvataggio. Avvicinatasi alla lancia, si accorse che il telo che la ricopriva si muoveva e, con un gesto secco, lo scostò.
Si trovò di fronte un uomo nerissimo, completamente nudo, che tremava come una foglia per il freddo e con il terrore dipinto sul volto per il fatto di essere stato scoperto.
– C’è un uomo nudo, nero come la notte, su questa lancia! – gridò agli altri.
Tutti si voltarono verso la scialuppa mentre il negro saltava fuori da essa, tentando di raggiungere il parapetto e di buttarsi di sotto.
– FermateVi! – urlò Oscar mentre gli si fiondava addosso con un balzo, impedendogli di abbandonare il battello.
– Antigone, Bernadette, voltatevi dall’altra parte! – ordinò André alle ragazze – E Voi tenete questo! – disse all’africano, avvolgendolo col suo mantello e ottenendo, così, il triplice risultato di evitare che Oscar si privasse del suo, di riparare il poveretto dal freddo e di sottrarne le nudità alla vista delle ragazze – Rischiate di prenderVi un brutto malanno e, poi, non siete in condizioni di decenza!
L’africano non aveva capito una sola parola e ignorava cosa fossero un brutto malanno e le condizioni di decenza, ma era pieno di stupore e di gratitudine, perché non ricordava più da quanto tempo qualcuno avesse avuto verso di lui non soltanto delle premure, ma addirittura un atteggiamento vagamente umano.
Era un uomo nerissimo, dell’apparente età di venticinque anni, alto più di due metri, con delle catene mozzate ai polsi e alle caviglie. Mentre l’avvolgeva col mantello, André si accorse che aveva delle brutte cicatrici sulla schiena.
– E’ un negroide – disse Honoré – Ho visto le immagini dei selvaggi effigiate nei libri sull’Africa che abbiamo in biblioteca. Ne ha il colore e le fattezze.
Erano tutti concentrati sull’uomo spuntato fuori dalla scialuppa, quando udirono un gran trambusto provenire dal punto di accesso della nave.
– Questo forsennato vuole parlarVi, Generale – disse uno dei marinai a Oscar.
– Sono Moses Joynson, Capitano della nave Brookes e questo negro mi appartiene!
– Siete, dunque, un negriero! – lo apostrofò, disgustata, Oscar.
– Sono il Capitano di una nave mercantile e questo negro fa parte del mio carico. Sono partito da Liverpool e sono andato a Cape Coast, dove ho acquistato questo e altri negri dai mercanti di schiavi africani. Sono diretto in Giamaica e ho fatto una breve deviazione qui per la necessità di effettuare alcune riparazioni alla carena. Questo dannato negro ha aggredito due dei miei ufficiali, ha spezzato le catene con un’ascia ed è fuggito via! Restituitemelo!
Il Re, che era salito sul ponte perché attirato dal baccano, fece per parlare all’intruso, ma André lo trattenne, bisbigliandogli:
– Non è il caso che Vi esponiate, Maestà!
– Mister Joynson – disse, con voce severa, Oscar – Vi ordino di scendere da questa nave immediatamente!
– Non senza quel negro, l’ho comprato!
– Non si compra la vita! – lo rintuzzò, adiratissima, Oscar.
– Ma quale vita! I negri sono ominidi e non hanno un’anima!
– Mister Joynson, vi trovate in Francia, su una nave battente bandiera francese e da noi non esiste la schiavitù! Quest’uomo, qui, è libero! Prendete queste e andatevene, prima che vi faccia scendere dalla nave io, a modo mio!
Ciò detto, gli scagliò ai piedi tre monete d’oro, con occhi carichi di furia e di disprezzo.
Quello si affrettò a raccogliere il denaro, continuando a blaterare:
– Protesto!
Due marinai nerboruti lo presero ciascuno da un braccio, afferrandolo mentre era ancora carponi a raccattare le monete e lo trascinarono via di peso.
Oscar si rivolse al suo attendente, dicendogli:
– Jean, provvedi affinché quest’uomo sia lavato, medicato, convenientemente abbigliato e rifocillato con qualcosa di caldo.
Dopo che Oscar ebbe finito di impartire i suoi ordini, Luigi XVII disse al Colonnello de Valmy:
– La Brookes batte bandiera inglese e si trova in regime di extraterritorialità rispetto alla Francia, ma la schiavitù è vietata anche in Inghilterra. Quegli uomini sono liberi. Ordinate all’equipaggio delle nostre tre fregate, prima di partire per Brest, di salire sulla Brookes, di prendere in consegna i prigionieri e di sequestrare anche il resto del carico, come prova di reato. Che siano sequestrate anche le tre monete d’oro del Generale de Jarjayes dalle tasche di quel Mister Joynson. Arrivati a Parigi, riferiremo all’Ambasciata inglese.
Dopo avere dato questi ordini, il Re fece ritorno nella sua cabina, gravemente affaticato per l’emozione e per quelle poche parole pronunciate tutte d’un fiato e a voce alta, ma con lo sdegno e la determinazione stampati sul volto.







Sembra strano, ma Horatio Nelson trovò la morte anche e soprattutto a causa della sua vanità, del suo ardimento che rasentava l’incoscienza e del suo desiderio di procurarsi emozioni, sfidando la morte. Anziché adottare un atteggiamento prudente a tutela di se stesso e degli uomini che comandava, in battaglia, si esponeva sul cassero della nave, per giunta vistosamente agghindato.
La nave Brookes è esistita veramente. Era una nave negriera inglese che, dal varo nel porto di Liverpool nel 1781, fino all’ultimo viaggio nel 1804, fece undici traversate. Era stata autorizzata a trasportare al massimo quattrocentocinquantaquattro schiavi, ma arrivò a stiparne oltre settecento. Divenne famosa nel 1788 per delle incisioni che mostravano il modo disumano in cui erano trasportati gli schiavi.
Moses Joynson ne fu il penultimo Capitano mentre l’ultimo si chiamava William Murdock, ma io ho evitato di citarlo per rispetto alla serie intitolata: “I misteri di Murdock”, il cui protagonista si chiama così.
Cape Coast Castle era uno dei trenta castelli degli schiavi, costruiti nella Costa d’Oro, l’attuale Ghana. Era detto anche “Porta del non ritorno”, perché costituiva l’ultima tappa in Africa degli schiavi prima di attraversare l’Atlantico.
Trattandosi di una storia ambientata nel diciannovesimo secolo, le parole “negro” e altre simili compariranno.
Come al solito, grazie a chi vorrà leggere e recensire!
   
 
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