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Autore: _Il colore del vento_    07/10/2021    4 recensioni
Alphard, se fosse lì, probabilmente gli sorriderebbe sardonico, come suo solito. «I tuoi sogni ti hanno consumato davvero, alla fine» gli direbbe, con quel suo tono di voce grondante ironia. Del resto, Alphard lo ha sempre conosciuto meglio di tutti, certo più di sua moglie che, fortunatamente, non sembra volergli accordare tregue, neanche in punto di morte.
Chi è stato Orion Black?
["Questa storia è candidata agli Oscar della Penna 2022 indetti sul forum Ferisce più la penna"].
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Orion Black, Regulus Black, Sirius Black, Walburga Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Hiraeth:
 a longing for a home, a place, or a feeling that no longer exists or never existed.
 

Una casa di fumo

 
We were trying, but we're trying no more
It's cold on the floor, cold on the floor
This house has never been the same as before
It's never felt warm, never felt warm
There's something moving through the windows and walls
I've seen it before, seen it before
You left me living with a lingering soul,
how little you know, how little you know

 
 
 
Al momento, lo invade una gioia acuta e malinconica, sepolto da coperte troppo pesanti, strati scuri che gli opprimono gli arti gracili e smagriti.
Alphard, se fosse lì, probabilmente gli sorriderebbe sardonico, come suo solito.
«I tuoi sogni ti hanno consumato davvero, alla fine» gli direbbe, con quel suo tono di voce grondante ironia. Del resto, suo cognato lo ha sempre conosciuto meglio di chiunque, certo più di sua moglie che, fortunatamente,  sembra non volergli accordare tregue neanche in punto di morte.
Walburga si limita soltanto ad affacciarsi nella stanza di tanto in tanto, quasi a controllare a che punto del processo si trovi, nel suo lento scivolare verso la fine. Ma per lo più preferisce mandare in avanscoperta gli elfi, mantenendosi fedele fino all’ultimo a quell’accurata divisione di territori e sfere di indipendenza che ha caratterizzato il corso del loro matrimonio fallito.
Gli unici che restano un po’ di più al suo capezzale sono sua sorella Lucretia, la sempre delicata, docile Lucretia col suo sguardo azzurro di lacrime, e il suo secondogenito. Regulus ha concluso la scuola, ma a casa non c’è quasi mai. Non lo biasima, per non restarsene tutto il giorno lì a guardarlo spegnersi gradualmente.
Comunque, che ci sia o meno qualcuno per lui non fa differenza. Orion è sempre stato autosufficiente nella propria solitudine – ha sempre saputo come evocare al momento opportuno tutto ciò di cui avvertiva il bisogno. Adesso, mentre la vita evapora via in respiri lenti e rochi, stanchi, probabilmente offrirebbe ad Alphard un’ottima ragione per ridere.
«Lo sai qual è l’ultimo sogno che mi tormenta? Dimmi, lo immagini?»

 (See where I am is where I'm wanting to be,
I know what I need, know what I need
And there are many different places to see
I know how to dream, know how to dream)
 
Orion accumulava vite così come qualcuno collezionerebbe francobolli, con la pazienza di un vecchio libraio che, affamato di storie, raccolga un volume dopo l’altro, riponendoli con cura in teche delicate e su scaffali scricchiolanti.
Le sue vite erano esistenze mai vissute, dalle fattezze appena abbozzate, destini che baluginavano un istante nel giardino della fantasia per poi appassire e languire, fiori colti e subito dimenticati. Era capace di restarsene ore seduto nel suo studio, Orion, incurante della luce che cambiava e infine moriva, senza toccare piuma o sfogliare libro.
Affondato nella poltrona, giaceva immobile, con gli occhi che, al contrario, solcavano oceani e macinavano continenti – quelli disseminati sul grande mappamondo, pieno e panciuto, dritto in piedi accanto alla finestra. Per quanto ritenesse quell’oggetto il suo bene più prezioso, talvolta, avvolto nella penombra della stanza, non lo vedeva neppure.
Del resto, il mondo vero, reale, pur con tutte le sue stranezze e le sue mete lontane ed esotiche, non gli era mai parso abbastanza. Aveva sempre avvertito l’esigenza di crearne di nuovi: nuovi mondi da esplorare, versioni migliori, realizzate su misura, quella tracciata da ambizioni e desideri, dai propri sogni. Orion sapeva di aver avuto da sempre gusti difficili, appetiti insaziabili e capricciosi. La realtà, angusta e screziata di difetti e imperfezioni, non era mai stata in grado di stare al passo con gli scenari sbalorditivi dischiusi dalla sua mente, una porta spalancata su universi cangianti e mutevoli, fantastici.
Sin da piccolo, quando qualcosa lo indispettiva o lo spaventava o, semplicemente, non assecondava le sue aspettative, si rintanava dietro il sipario della mente, dove l’immaginazione si industriava, adoperandosi per cambiare tutto ciò che non aveva apprezzato e che avrebbe preferito diverso.
Le lezioni di storia e geografia poi, quelle impartitegli dal precettore negli anni precedenti a Hogwarts, gli avevano suggerito l’idea di distese smisurate, calcate da imponenti eserciti – come quello macedone o romano – in marcia, con passo risoluto e instancabile, diretti verso terre sconosciute, destinati ad eccitanti vittorie e ad accumulare opulenti bottini. A differenza degli eroi della storia, però, dei vari Alessandro Magno e Giulio Cesare, Orion si accontentava di sfiorarle soltanto, quelle coste distanti, quelle aree ignote e ricche di tesori. Giusto il tempo di superare la delusione causata dalla vita vera – si fabbricava uno scenario con cura, ci si immergeva per un po’ e poi lo abbandonava come una veste dismessa.
Era sempre stato incostante, persino nei sogni.  
Suo cognato Alphard scherzava, definendolo un bambino mai cresciuto. Ma, almeno, Alphard – con cui condivideva non solo il sangue, ma anche tutti gli anni di scuola, una vita intera – non lo aveva mai disprezzato per quell’indolenza assonnata, svagata, virante al sogno e alle fantasticherie fragili come origami. Alphard non lo aveva mai odiato, a differenza di sua sorella, colei che era infine divenuta sua moglie.
Walburga era sempre stata un mondo a parte, per lui. Un’isola cinta da mura inespugnabili e mari impossibili. Se anche ci fosse mai stato qualcosa di entusiasmante, al di là delle mura, Orion non avrebbe mai potuto saperlo, perché non v’era breccia in quelle fortificazioni, non c’era mai stato modo di vedere al di là. Walburga era una barriera compatta e insuperabile – trincerata dietro fronti aggrottate, labbra serrate e dita contratte.
Chiusa in se stessa, non s’affacciava mai al di là del proprio recinto. Walburga era prigioniero e carceriere a un tempo e i suoi giorni si susseguivano come affanni, rancori e paure affastellati dietro le sbarre della propria mente. Non c’era mai stato spazio, in lei, per i fiori della fantasia.
Forse, nel loro matrimonio, le cose sarebbero potute andare diversamente, se soltanto Orion si fosse dimostrato meno volubile con gli ideali di famiglia – che entrambi soppesavano in maniere differenti.
Le vedute granitiche di lei erano torri svettanti e inamovibili, mentre gli ideali di lui non erano che gracili papaveri germogliati per caso. All’inizio, la novità di Voldemort aveva entusiasmato anche lui, certo, ma era stata una passione effimera – come tutti gli incendi della sua immaginazione, che bruciavano in vampate vivaci per poi dissolversi in cenere affidata al vento del tempo.
Voldemort e i suoi Mangiamorte lo avevano appassionato come da piccolo lo attiravano le storie di Re Artù e dei suoi Cavalieri, di Achille e gli altri eroi di carta che affollavano i suoi libri. La Causa – quella che tanto peso aveva per Walburga e per altri membri della sua famiglia – per lui era soltanto il pretesto per immaginare, ancora, un altro mondo. Per quanto il vessillo nero di quel Mago Oscuro in ascesa sarebbe sempre rimasto, da qualche parte dentro di lui, a sbandierare come una sorta di monito, di interesse mai del tutto sopito, Orion aveva ben presto accantonato tutti gli articoli su Voldemort e i suoi seguaci, tutte le storie su di loro ed era tornato alle proprie.
Del resto, il mondo promesso dai Mangiamorte e il loro Signore, per quanto meraviglioso, per quanto inedito, restava un mondo di là da venire, lontano e sbiadito. Lo immaginava come una sorta di piccolo e uggioso Paradiso (per i Purosangue come lui), incastonato in un Inferno apocalittico, un deserto di rami scheletrici e cieli attraversati da avvoltoi. Ma, per il resto, quel sogno di un mondo di maghi e di Babbani soppressi gli sfuggiva nei suoi contorni precisi.
Come tutti i progetti collettivi, realizzabili solo a patto che molteplici volontà, diverse dalla sua, confluissero nel medesimo corso di ambizione e sete di potere, lo interessavano soltanto a metà, solo all’inizio. Tutto ciò che richiedeva troppo tempo, troppo sforzo e, soprattutto, includeva volontà esterne, ingestibili perché non riconducibili alla propria, lo entusiasmava poco. Era più facile, per lui, coltivare i propri sogni in privato: orizzonti fulgidi e ricchi di promesse, eppure solitari, angusti. Poteva visitare tutti i mondi, Orion, a patto che compisse il viaggio da solo.
L’isolamento onirico di Orion, inconciliabile con quello arido e pratico di Walburga, li aveva esiliati ai poli opposti di un legame malsano, sfilacciato. Laddove Orion si abbandonava all’indifferenza, interessato com’era a trascorrere più tempo possibile nella familiarità del proprio studio, lì dove la solitudine faceva esplodere i confini e si traduceva in alternative e scenari da scoprire, Walburga non aveva mai perdonato al marito quello che considerava un vero e proprio tradimento agli ideali di famiglia e, quindi, inevitabilmente, a se stessa. Non sapeva che farsene, lei, di un uomo opaco, dalla volontà esangue e svigorita. Sebbene, da un lato, fosse intimamente grata di quel vuoto di autorità, dovuto a un marito fiacco e distratto, che aveva occupato senza scomporsi, con estrema disinvoltura, dall’altro era sempre stata convinta che, chiunque non fosse apertamente con lei, si schierasse per forza di cose contro di lei e così, alla fine, aveva finito col ridurre Orion al ruolo che ricoprivano quasi tutti, nella sua vita: quello di nemico.
Solo, nel caso di suo marito, si trattava di un nemico più vicino, perennemente presente sotto il suo stesso tetto e perciò destinatario di un’insofferenza più costante, più viva di quella che rivolgeva agli altri.
Quando erano giunti i figli, a popolare una casa troppo grande per due persone sole, abituate ad abitare concretamente soltanto lo spazio dei propri desideri, Orion era stato grato. Non all’inizio, no; non quando i figli, appena neonati, richiedevano cure continue che, certo, non spettava a lui dispensare, ma la cui costante richiesta, segnalata da urla e pianti e rumore – rumore insopportabile –, lo distraeva e lo attirava fuori dai mondi della sua mente, costringendolo nel limitato e deludente microcosmo casalingo. Ma quando i figli erano cresciuti e, soprattutto, quando le loro personalità si erano dispiegate, in particolare quella vulcanica del primogenito, aveva potuto trarre un sospiro di sollievo.
Sua moglie aveva avuto un nuovo nemico contro cui combattere, nuove battaglie e nuovi bersagli, lui aveva potuto tornare alle sue realtà plasmabili, alle sue esistenze tutte da definire. Non che nel frattempo riuscisse davvero a recidere i fili con il presente. Era, del resto, un abitante di Grimmauld Place e non poteva fare a meno, seppur in disparte, di osservare gli sforzi e la frustrazione di sua moglie alle prese con Sirius, pianta selvatica che cresceva irrefrenabile e ribelle, seguendo intime libertà e incurante dei rimproveri materni.
Il piccolo Regulus, poi, con le sue malinconie lunari e gli slanci claudicanti di energia e impeto, i suoi timidi tentativi di compiacere gli adulti, aggiungeva un altro tassello, nuove distrazioni che tenevano impegnata Walburga, fuori dal suo studio – oasi di silenzio e raccoglimento – e movimentava la vita di casa, così come lui non avrebbe mai saputo o voluto fare.
Casa. Aveva sempre avuto difficoltà, Orion, a digerire quel termine dal sapore stantio, insipido. Casa era sempre stata, ai suoi occhi, un ponte, qualcosa di noioso e indistinguibile nella sua fissità, utile solo come porto da cui issare le vele e partire. Non era mai stata la meta, non per lui. Non fino a un certo punto, almeno.
 
 (Still there's a wound and I'm moving slow
Though it don't show, though it don't show
I've got a hole where nothing grows,
How little you know little you know)

Era stata la fuga di Sirius a costringerlo a un brusco e repentino cambiamento di prospettiva, a indurlo a recuperare quel concetto poco esplorato, ignorato.
Il suo primogenito, preferendo altre case, altre famiglie, altri mondi, aveva incrinato la quotidianità di Orion, insinuandovi crepe insanabili. Diversamente da sua moglie, che aveva risposto al gesto imperdonabile di Sirius nell’unico modo che conosceva – attraverso rabbia e ripudio, con accanito rifiuto e oblio –, Orion, solo con se stesso, non aveva potuto illudersi di non comprendere la scelta di suo figlio. Era, in fondo, quello che aveva fatto lui da sempre, dietro le porte chiuse del suo studio: trovare alternative, disegnare presenti più appetibili, preferibili.
L’unica differenza consisteva nel fatto che suo figlio, come gli eroi dei suoi libri di storia, come i grandi esploratori, avesse scelto di varcare la soglia e andare a conquistarsi di persona il proprio mondo. Sirius non era mai stato tagliato per i sogni fumosi, del resto, quei flebili sospiri della mente, soffi di vento scompaginati dalle realtà successive – Sirius aveva ereditato la praticità di sua madre, desideri solidi e un cuore fermo.
Forse, nelle aree inaccessibili del suo cuore, avrebbe persino potuto essere orgoglioso di lui. Sarebbe stato un elemento ulteriore di disarmonia con quella sua moglie di pietra, ma non gli sarebbe importato poi molto. Il problema, però, non era tanto che Sirius avesse compiuto scelte poco in linea con gli ideali di famiglia; il vero problema era che l’egoismo di suo figlio si era scontrato col proprio, che aveva finito col soccombere.
Andando via, Sirius aveva evidenziato falle e perdite in un presente che fino a quel momento aveva sempre considerato con indifferenza – imperfetto, certo, migliorabile, ma nulla che meritasse troppo la sua attenzione. Non aveva mai avuto troppo a cuore Grimmauld Place, non abbastanza da doverla portare con sé nelle proprie stanze, da estendere il suo dominio allo spazio dei suoi sogni.
Fuggendo, infrangendo gli equilibri intessuti fra malesseri e disattenzioni, suo figlio insidiava in lui il germe di un’insoddisfazione senza precedenti, pungente.
Fin da piccolo, l’incapacità di agire sulla vita e nella vita, quella in carne ed ossa, aveva sempre scatenato in Orion una fame di sogni e fantasie e l’abbandono di Sirius aveva accresciuto quell’appetito, rendendolo costante e inestinguibile. Portandosi via le sue ribellioni quotidiane, la sua scontentezza irrequieta e dirompente, Sirius si lasciava dietro un silenzio monco, avvelenato – un silenzio pregno di cose non dette, un’assenza che lo distraeva molto più di quanto non avesse mai fatto la sua presenza. Era stata dura, dopo, ritornare ai propri sogni, disegni sbilenchi come scarabocchi infantili, effimeri come farfalle. Orion si era ritrovato in seguito, sempre più spesso, a fissare un mappamondo che gli sembrava troppo piccolo, troppo poco soddisfacente. In quel mondo, forse, suo figlio aveva trovato un posto adatto a lui, ma in cambio, distruggendo il porto stabile di Orion, aveva reso inabitabili e irraggiungibili tutti i mondi possibili.
Si era ritrovato seduto su una sponda, Orion, circondato da una distesa di onde ammalianti, che andavano e venivano senza mai sfiorarlo; l’unica cosa che lo raggiungeva nel suo studio, dopo la fuga del figlio, era  il silenzio astioso di Walburga che, senza Sirius e a causa di Sirius, tornava a vessarlo di un odio quintuplicato (lo sapeva che lei lo incolpava per quel ruolo di padre mai veramente abbracciato, per quell’apatia e la rinuncia a partecipare praticamente all’educazione dei figli); e più leggero, in sottofondo, ma ugualmente acre, si era introdotto anche il silenzio dell’unico figlio che gli rimaneva – un silenzio che esprimeva troppe cose, ma in linguaggi alieni, che non si era mai curato di apprendere e che adesso gli risultavano incomprensibili. Tutti gli ormeggi recisi, si era ritrovato bloccato a terra, privo di possibilità di fuga, quasi  Sirius, prima di andare, avesse rinchiuso la sua mente a doppia mandata, intascandosi poi la chiave.
È così che il pensiero, appesantito, aveva preso a piegarsi ossessivamente su quel che era stato, incapace di librarsi sul presente e volare altrove. Aveva iniziato a consumare se stesso, a cibarsi di ricordi.
Non c’erano più mondi esotici, foreste impenetrabili e oceani limpidi da attraversare, ad attenderlo dietro le palpebre, nell’atmosfera ovattata del suo studio. Lì c’erano soltanto rovine insabbiate, monito dei suoi fallimenti, in quanto uomo e padre.

C’era Sirius, il giorno del fidanzamento di sua nipote Bellatrix, l’ennesimo ritrovo di famiglia conclusosi col primogenito in punizione e sua moglie andata  su tutte le furie. Siruis se ne stava nell’angolo più lontano della stanza in cui Walburga lo aveva rinchiuso, a giocare con i fili delle tende, insofferente come un animale in gabbia. «Non ci riesco» risuonava nella memoria il suo borbottio. «Non ci riesco a essere come mi vuole lei.»
A distanza di anni, non ricordava più cosa gli avesse risposto. Probabilmente qualcosa sul fatto che sarebbero andati a riprenderlo a ricevimento terminato, qualcosa di sciocco e inutile. Nel suo studio, l'uomo ripensava al volto adombrato e imbronciato di Sirius, alla sua bocca piegata verso il basso e immaginava piuttosto di ricavarne sorrisi – sorrisi veri, come non ricordava di avergliene mai visti fare. Immaginava di cambiare le parole pronunciate, dirgli magari che a lui andava bene che restasse così com’era, purché restasse.
Purché non infrangesse i suoi equilibri, facendo crollare i suoi sogni sotto il peso dei fallimenti e dell’inazione, purché non gli ritorcesse contro la sua passività e il suo egoismo, gli avrebbe confessato che a lui andava bene così.

C’era anche Regulus, che veniva a trovarlo spesso. Non il ragazzo pallido e serio, il Serpeverde taciturno, posato, che sedeva a tavola con loro, nei mesi di vacanza da scuola. No, era un bambino mingherlino e timido, che faceva capolino esitante dalla porta dello studio. Era il giorno in cui aveva imparato a leggere, a leggere davvero, spedito e senza errori, e, senza pensarci, era corso da lui per annunciargli la sua vittoria su quei segni d’inchiostro che per anni lo avevano occhieggiato muti, inespugnabili.
Nel suo studio, sulla sua sponda tagliata fuori da tutto (sia dalla realtà, che dalla fantasia), Orion aveva iniziato a vedere dettagli che prima non era stato in grado di cogliere. Forse, pensava, Regulus era stato tanto impaziente di venire da lui, perché aveva creduto che, entrando in possesso del segreto per decifrare i caratteri scritti, finalmente suo padre lo avrebbe accolto nei suoi spazi, gli avrebbe messo a disposizione i suoi libri e condiviso con lui storie e tempo. I libri, alcuni, glieli aveva prestati davvero, ma il tempo no, quello no, era rimasto proprietà esclusiva di Orion.
Non aveva mai raccontato storie ai suoi figli e, per quanto si fosse ripetuto che Walburga non avrebbe apprezzato, la verità era che, da sempre geloso dei propri regni maestosi, eppure delicati come ali di libellule,  non aveva mai permesso a nessuno di accedere ai racconti che immaginava per sé.

Quella subentrata dopo la partenza di Sirius non era l’immaginazione a cui era abituato. Quella di prima, florida, una tecnica d’evasione e sopravvivenza, lo aveva sempre mantenuto in vita, mentre quella facoltà sostitutiva, vorace, capace di funzionare solo consumando memorie e rimpianti, lo aveva pian piano sfiancato, aggredendo dapprima la mente, per poi accanirsi sul suo fisico e la sua salute. Lo aveva infine ridotto all'essenza, un'essenza sottile, precaria come foglie d'autunno.

Un uomo divorato dai sogni – era e sarebbe stato quello, Orion. Niente di più.
 
 
 
 
(We were standing at the foot of a path
I had to go back, had to go back
I chose to travel as a lonely man
So much that I lacked, so much that I lacked
I'm always wishing I was walking that road
It's something I hold, something I hold
I take it with me all the places I go
How little you know, how little you know)
 

L’aria della stanza in penombra sa di chiuso e di pagine ammuffite, di una storia conclusa e dimenticata in un anfratto di una libreria.
Tutti i suoi mondi possibili si sono infine ritorti contro di lui, seppellendolo in un corpo debole e incapace persino di alzarsi dal letto – alzarsi per andare dove, del resto? Lui nella vita non è mai andato da nessuna parte, preferendo un'immobilità in cui baloccarsi con fantasie prive di fondamento, capricci di un bambino troppo spaventato dalla realtà, tragicamente inadatto alla vita e all’azione.
Lo studio gli risulta bandito, ora, ormai distante quanto un continente lontano, irraggiungibile; eppure, i suoi rimpianti l’hanno seguito fin lì, arrampicandosi per i fianchi del grande letto, per accucciarsi sul suo petto, dove lo schiacciano con tutto il loro peso reale – molto più concreto di tutti i suoi sogni passati. Sarebbe stato tutto meno penoso, pensa, se al posto di mille vite immaginarie, appena sfiorate, si fosse impegnato a vivere la propria, che ora si dilegua volatile e priva di significato. 
C’è Regulus, al suo fianco, ma il suo volto pallido e serio presenta contorni labili; è una maschera di cera, che si confonde con i volti scolpiti nella memoria.
È Regulus che lo guarda, ma dai suoi occhi fa capolino il bambino d’un tempo, quello che ha appena imparato a leggere e che lui ha mandato via di fretta e furia. C’è Sirius, ragazzetto imbronciato e, a un tempo, figlio felice e sorridente, quello che sarebbe potuto diventare – che era stato suo solo nei sogni.
Nella sedia al suo fianco, si materializzano tutte le comparse trascurate della sua vita: sua sorella, con i suoi fragili sorrisi di cristallo, Alphard col sarcasmo impresso in viso, la scura Walburga col suo cipiglio severo, carica di rabbia e disprezzo. Ad affollare i suoi ultimi istanti di vita, ci sono tutte le persone a cui non ha mai dedicato il suo tempo. Sembrano quasi demoni inviati lì a riscuotere quanto spetta loro.
È così arduo mettere a fuoco il presente – così com’è, senza abbellimenti, senza l’aura dell’illusione. Non c’è riuscito mai, ma stavolta ci prova, a tenerlo fermo, ad agguantarlo per la collottola.
Per farlo, mantiene gli occhi fissi su Regulus, sul ragazzo che è diventato, germoglio cresciuto in solitudine e in cattività. Cerca di scacciare dalla mente tutte le versioni di lui che ha fabbricato per sé, per lenire le sue colpe di padre assente. Fa male guardare il viso di suo figlio e ritrovarsi davanti uno sconosciuto: neppure nelle sue realtà alternative è mai stato capace di conoscere le persone che aveva attorno. Si è sempre accontentato di tracciare per loro i caratteri che preferiva, incurante della verità delle cose. Lo sconosciuto, che un tempo è stato un bambino timido sulla soglia del suo studio, è a disagio – lo è sempre stato in sua presenza, anche se Orion se ne accorge davvero soltanto ora. Gli siede accanto per dovere, non perché abbiano veramente qualcosa da dirsi. Nessuno parla mai, a Grimmauld Place: ognuno impone i propri silenzi e prova a incastrarli con quelli degli altri.
Orion è quasi tentato di mandarlo via, di lasciare la sedia vuota così da permettere alla propria mente di elaborare un sogno, l’ultimo, quello di un addio diverso:  tra un padre amato e un figlio addolorato.
Ma sa benissimo di non meritarlo e allora, deglutendo la frustrazione, chiamando a raccolta quella forza che non ha mai usato, in tutta la sua vita, cerca di ripagare Regulus e quel primogenito fantasma, che lo ha perseguitato da quando è andato via, condensando nelle sue ultime parole tutto il tempo che non ha saputo condividere.
«Sogno…» mormora, con quella voce fioca, quasi andata a male per il disuso, che costringe Regulus a chinarsi in avanti.  «Sogno un mondo in cui essere felici… assieme.»
Lo spera con tutto il cuore, ma non sa se suo figlio riuscirà a cogliere quelle parole per ciò che sono.
Il tentativo postumo di un padre di coinvolgerli tutti in un medesimo sogno, un sogno in cui il rimpianto sappia farsi azione e rimediare agli errori commessi; un sogno cullato per anni, iniziato quel lontano giorno d’estate, nell’attimo in cui un ignaro Sirius aveva compiuto al suo posto il salto nel vuoto, oltre la soglia che non ha mai osato valicare tra sogno e realtà.
È quello il suo unico, ultimo atto d’amore paterno: tracciare con mani tremanti i contorni di quella casa che non ha mai saputo costruire e che i suoi figli avrebbero meritato.
Una casa di fumo eretta sul rimpianto e abitata da fantasmi.



Maybe we'd marry and we'd work it out fine,
In some other time, some other time
And we are happy when I'm walking that line,
It's all in my mind, all in my mind1



Gli stralci di brano in inglese, disseminati ai lati del testo, sono estrapolati dal testo di una canzone “Paint” (The Paper Kites); le parti nel testo, però, non sono inserite nell’ordine in cui compaiono nella canzone*.
 

Note:

Sono una persona davvero impaziente. Avrei dovuto, a rigore, pubblicare questa storia, ispirata a uno dei prompt del Writober, il 30, ma dal momento che ho già rinunciato a partecipare come si deve alla challenge, ecco qui questa storia che è stata per me un po' come un ritorno a casa dopo tanto tempo. L’interesse per i Black, in particolare il nucleo composto da Regulus e Sirius e i loro genitori, mi accompagna da un bel po’, ormai. Se ho avuto modo di scrivere dei due fratelli e qualcosina su Walburga (non tutto, nel suo caso, ci sono degli headcanon che ancora non ho potuto sviluppare), di Orion non ho davvero mai scritto. È stato l’ultimo a suscitare il mio interesse.
A questo proposito, ci tengo a citare la storia della carissima Traumerin_, (“Visibile e non visibile - perché non l'ha capito prima?”) dedicata a questo stesso personaggio, che credo mi abbia in parte ispirata (ad esempio, l’elemento dell’amicizia tra Orion e Alphard è presente già lì ed è da quando, stimolata da quella lettura, li ho immaginati coetanei che per me è diventato praticamente un elemento canonico) e che vale davvero la pena leggere, qualora vi interessi trovare qualcos’altro su Orion Black.
Per quanto riguarda il mio Orion, diciamo che mi diverto sempre a inserire piccoli collegamenti tra le storie che scrivo sui Black e, in particolare, stavolta, è l’elemento del mappamondo già citato altrove che ho deciso di riprendere per svilupparci attorno l'intera caratterizzazione del personaggio. Ci tengo, infine, a ringraziare la mitica Fede per il supporto (dopo tutto questo tempo <3).
A chiunque sia giunto fin qui: grazie! Spero davvero ne sia valsa la pena!
 
  
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