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Autore: afep    15/10/2021    1 recensioni
La vita dell'eroe professionista è costellata di sacrifici, e chiunque voglia puntare alla vetta deve essere pronto a rinunciare a tutto ciò che possa rallentare la sua scalata. Questo vale anche per il più grande di tutti, il simbolo della pace in persona.
Eppure, abbagliati dalla sua luce sfolgorante, nessuno si chiede a cosa abbia dovuto rinunciare. O a chi.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: All Might, Altri, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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At long last love has arrived
And I thank God I'm alive
You're just too good to be true
Can't take my eyes off of you

(Can't take my eyes off you – Frankie Valli)



Due mesi dopo


«Reiko?».
«Ho detto che sto arrivando!».
«Se facciamo di nuovo tardi per la cena tua sorella ci ucciderà».
Nel segreto della cucina, sul retro del locale, soffoco una risata premendomi le dita sulle labbra. La stanza è avvolta nella penombra, rischiarata a malapena dalla luce dei lampioni che filtra da dietro le tende, ma questo è il mio mondo e mi muovo con la stessa sicurezza che avrei in pieno giorno. D'istinto schivo il tavolo, sfioro i fornelli e mi assicuro un'ultima volta che la porta di servizio sia stata chiusa a chiave in vista della notte.
«Oh, ora non dirmi che hai paura di una barista» ribatto ad alta voce, voltandomi e sistemando sul tavolo i materiali che mi serviranno domattina «un Eroe con la tua fama!».
«E con un polmone solo» mi arriva la rimbeccata dalla sala principale della caffetteria, ma conosco questo tono e so che si sta sforzando per non ridere. «Ti ricordo che non sono nelle condizioni migliori per affrontare qualcuno che può manipolare l'aria».
«L'ossigeno».
«Oh, anche peggio. Ora sei pronta?».
«Eccomi, eccomi».
Sorridendo riemergo dalla cucina. Il mio sguardo spazia lungo i tavolini vuoti, con le sedie sollevate in attesa delle pulizie mattutine, si sposta sul bancone lustro e infine si posa sull'ingresso, là dove lui mi sta aspettando.
È così bello riaverlo con me. Sono ormai trascorsi due mesi da quando ha preso coraggio ed è entrato nel mio locale per parlarmi, e da allora non abbiamo più passato un solo giorno separati.
Ogni sera, adesso, ho la certezza di vederlo affacciarsi sulla soglia della mia caffetteria, di sentire la sua voce , di godere della sua presenza. Abbiamo preso l'abitudine di consumare i pasti insieme, come facevamo un tempo, e non potrei chiedere niente di meglio. Avevo quasi dimenticato quanto fosse facile parlargli, quanto fosse piacevole discutere e ridere insieme a lui. Solo ora capisco quanto mi era mancata la sua compagnia.
Ci sono momenti in cui sono così felice che devo smettere di parlare, di mangiare, di fare qualunque altra cosa che non sia guardarlo o toccarlo per accertarmi che sia davvero con me.
Anche adesso, mentre allungo la mano per prendere il cappotto, sento il mio cuore traboccare di gioia.
Non che sia tutto rose e fiori, ovviamente.
Le sue condizioni fisiche sono, per me, una costante fonte di apprensione. Non mi interessa del suo nuovo aspetto, a quello mi sono abituata sin dal primo istante – e come potrei non amarlo, non desiderarlo, una volta conosciuto il suo cuore? – ma temo per la sua salute. Lui mi assicura che non ho ragione di temere un peggioramento, che le sue condizioni sono stabili, eppure non posso fare a meno di preoccuparmi. Non potrei sopportare di perderlo di nuovo, non ora che è tornato da me.
Lo guardo, lì in piedi accanto alla porta d'ingresso, e devo premermi una mano sul petto per frenare l'emozione che provo. “Ti amo”, vorrei ripetergli ancora, come ho fatto fino allo sfinimento negli ultimi mesi; «Sono pronta», annuncio invece, mentre mi infilo la borsa al braccio e lo raggiungo con passo danzante.
Mi sento come una ragazzina, e la pioggia che ci attende fuori dal locale non fa che acuire questa sensazione. È stata proprio grazie a una giornata uggiosa come questa se ci siamo incontrati, quasi quarant'anni fa.
Gli passo accanto, accarezzandogli un braccio per indicargli che possiamo andare, e sento la sua mano posarsi rassicurante sulla mia schiena, là dove la colonna vertebrale compie quella piccola curva che sembra quasi fatta apposta per quello scopo. Vorrei baciarlo ma non mi arrischio a farlo in questo momento, quando chiunque potrebbe facilmente vederci davanti alla vetrina e con le luci della caffetteria accese.
Un bacio però arriva lo stesso, nel momento stesso in cui chiudo il locale e finisco di abbassare la serranda. Dietro l'ombrello aperto, calato perché ci nasconda dagli sguardi dei curiosi, lui mi attira gentilmente a sé e si china sulle mia labbra.
Quanto mi era mancato tutto questo.
Ci stringiamo l'uno all'altra come se fosse l'unico modo per non andare alla deriva, ma forse indugiamo un po' troppo. Siamo ancora abbracciati quando risolleva l'ombrello, e all'improvviso sento un coro di esclamazioni sorprese levarsi non molto distante da noi.
«Cosa?... Ma no, impossibile!... Professore?...».
Sono voci di ragazzini, inconfondibili. Lo avverto irrigidirsi per la sorpresa, seguo il suo sguardo e comprendo al volo il suo imbarazzo.
A qualche passo da noi, sotto la pioggia battente, è comparso un gruppetto di ragazzi che non avranno più di quindici o sedici anni, armati di sacchetti della spesa. I capelli delle ragazze grondano acqua, i giovanotti sembrano pulcini intirizziti, e tutti indossano quella divisa inconfondibile, che è cambiata ben poco nel corso di tre decenni: è la stessa che indossava lui quando ci siamo conosciuti. Questi devono essere alcuni dei suoi studenti.
«Ah, ragazzi...» comincia imbarazzato «noi non... lei è...», lo sento fare un piccolo movimento goffo, come se avesse voluto rivolgere loro un cenno di qualche tipo, ma con una mano è impegnato a reggere l'ombrello mentre l'altro braccio è ancora attorno alla mia vita. A quanto pare dovrà essere la barista a salvare l'Eroe, questa volta.
«Così voi siete gli alunni di cui ho tanto sentito parlare!» esclamo, sorridendo in quel modo disarmante che ho imparato lavorando al bancone della caffetteria. «Finalmente posso conoscervi. Siete mai stati nel mio locale?», indico la serranda, sopra cui fa bella mostra di sé la nostra inconfondibile insegna. Il cambio di discorso è abbastanza repentino da sviare per un attimo l'attenzione dei ragazzi – un paio scuotono la testa, alcuni annuiscono, gli altri si limitano a fissarmi attraverso la pioggia con aria sorpresa – e così posso concludere il mio gioco. «Bene, allora direi che è il momento giusto per visitarlo».
Se sto riaprendo la serranda e la porta del locale non è certo perché sono impazzita. Questi ragazzi sono stati di certo sorpresi dal temporale, e nel mio locale ho diversi ombrelli abbandonati dai clienti distratti; voglio dar loro un posto dove asciugarsi e un modo per tornare a casa senza buscarsi un malanno, mi dico, ma sotto sotto so che questo non è il vero motivo.
La verità è che, tra questi giovanotti, ce n'è uno che sono curiosa di conoscere.
Lui me ne ha parlato spesso in questi due mesi. Non me lo ha mai descritto, ma anche così sono stata in grado di riconoscerlo tra tutti.
Ed eccolo qui, dunque, il ragazzino che lui ha designato come suo successore.
Non posso sbagliarmi al riguardo. Questo giovanotto con i capelli arruffati e l'aria fiduciosa, i grandi occhi spalancati sul mondo con la meraviglia un po' ritrosa degli adolescenti, somiglia terribilmente a lui quando aveva la stessa età.
Mi presento loro per nome – è così che mi chiamano tutti i clienti, in fondo – e li invito a entrare. Una delle ragazzine mi guarda con profonda curiosità, e mi chiedo se per caso ha visto qualcosa in più dei suoi compagni, o se ha forse notato l'anello che porto sulla mano sinistra – lo stesso che io ho abbandonato oltre vent'anni fa, e che da due mesi lui mi ha infilato nuovamente al dito. Quello che è certo, è che da domani ci sarà un nuovo pettegolezzo tra le mura del loro liceo.
I ragazzi entrano nel locale con aria riconoscente, facendo scricchiolare le suole delle scarpe sui miei pavimenti lustri. Domattina mi toccherà venire qualche minuto prima per pulire, ma al momento non mi importa.
«Reiko», il suo sussurro mi raggiunge, vicinissimo, mentre si china sul mio orecchio approfittando di un momento di distrazione dei ragazzi, «non abbiamo tempo per questo».
«Ci vorranno solo due minuti» lo rassicuro, stringendogli fugacemente le dita tra le mie «tu chiama Seika e dille che faremo un po' di ritardo» aggiungo, lasciandogli la mano per allungargli il mio cellulare.
«Ma siamo già in ritardo...».
«Allora non dobbiamo preoccuparci. Su, prendilo. Sta già squillando».
«Cos...» lo vedo spalancare gli occhi, sorpreso, ma ormai gli ho già spinto il telefono tra le dita e poco dopo la voce di mia sorella riecheggia dal microfono. «Ah... Seika? Sì, sono io... no, Reiko è impegnata...».
Lascio che se la sbrighi da solo con Seika – avevano un buon rapporto una volta, in un certo senso sto solo aiutandoli a riallacciarlo – e mi dedico completamente ai ragazzi, che si sono riuniti in un gruppetto nei pressi del bancone.
«Allora», esordisco con un sorriso, infilandomi dietro al banco, «è un po' tardi per essere ancora in giro. Non ditemi che siete stati trattenuti dalle lezioni». Non è raro che i liceali si fermino a scuola fino a tardi, lo facevo anche io, ma solitamente i corsi per Eroi hanno orari più regolari, più simili a quelli delle scuole occidentali. O almeno, questo è quello che ricordo.
«No, signora» mi risponde computa una delle ragazzine, lisciandosi il caschetto di umidi capelli castani. «Siamo stati a comprare degli snack da tenere nel dormitorio...».
«... ma all'uscita del negozio siamo stati sorpresi dalla pioggia» conclude una seconda ragazzina, emettendo un piccolo verso gracchiante che ricorda quello di una raganella.
«Cielo, una vera sfortuna
» ribatto con una sorriso solidale, scaldando rapidamente l'acqua nel bollitore e pescando sei tazze dal ripiano sotto al banco. «È un bene che vi abbia incontrati, allora. Su, sedetevi: mentre bevete il vostro tè vi asciugherò gli abiti e cercherò degli ombrelli, per farvi tornare al dormitorio sani e salvi».
Alla mia offerta segue un attimo di imbarazzo, durante il quale i ragazzi sembrano indecisi se accettare la mia offerta o meno. Poi uno dei giovanotti decide di rompere gli indugi, e dopo aver posato in terra la sua busta della spesa si arrampica senza fatica su uno degli eleganti sgabelli imbottiti che sono accostati al banco.
«Grazie», mormora solamente in tono piatto, inchinandosi più profondamente che può, fin quasi a sfiorare il ripiano di legno lucidato con la fronte, «lei è molto gentile».
«E tu sei molto ben educato» replico con calore, posandogli davanti una tazza di tè fumante «qual è il tuo nome, caro? Tosh... All Might», mi correggo al volo, lanciando un'occhiata alla figura allampanata che gira nei pressi della vetrina, ancora con il mio telefono all'orecchio «mi parla spesso di voi, e non vedevo l'ora di conoscervi».
«Shoto» risponde quieto il ragazzo, e improvvisamente vengo travolta dalle presentazioni dei suoi compagni, che si uniscono a lui presso il bancone.
«Io sono Tsuyu... Midoriya Izuku, signora... Akane! E lei è Ochaco... tanto piacere!... Iida...». Le loro voci si accavallano, e non posso fare a meno di ridere mentre servo loro il tè. Aggiungo un dolcetto sul piattino di ciascuno, e mentre aspettano che le bustine vadano in infusione aggiro il banco, imponendo le mani su di loro per usare il mio Quirk.
Posso manipolare le molecole di ossigeno a mio piacimento, e questo mi concede una certa libertà anche con i liquidi. Eliminare completamente l'acqua dai loro vestiti e dai loro capelli è troppo per me, ma posso comunque rendere questi abiti bagnati appena umidi.
Lo spiego anche ai ragazzi, incuriositi dalla manifestazione del mio potere, e subito la caffetteria si riempie delle loro esclamazioni sorprese.
«Somiglia al Quirk della professoressa Mouri» dichiara una delle ragazze, sbocconcellando il suo pasticcino. «Anche lei può manipolare l'ossigeno».
Questo sì che è curioso. Ero certa che un potere simile esistesse solo nella famiglia di mio padre, perché è da lui che l'ho ereditato, ma evidentemente mi ero sbagliata. Stasera ne parlerò con Seika; sono sicura che anche lei sarà divertita da questa coincidenza.
«Cerca di non esagerare» mi avverte lui in un mormorio premuroso, tornando da me «sai che quando ti sforzi poi ti viene l'emicrania... Seika vuole parlarti», aggiunge, tendendomi il telefono.
Abbasso le mani che avevo teso verso le spalle di uno dei ragazzini, recuperando il cellulare. La chiamata è ancora in corso, e immagino che mia sorella voglia lamentarsi personalmente del nostro ritardo.
«Non c'è pericolo» lo rassicuro. «Mentre sono al telefono vai nello sgabuzzino e prendi degli ombrelli per questi ragazzi, così non faranno la strada di ritorno sotto la pioggia», gli chiedo, dandogli un colpetto sulla spalla.
Mi allontano di qualche passo dal banco, ignorando le occhiate incuriosite dei giovani studenti, e mi porto prontamente il telefono all'orecchio «Pronto, Seika?».
«Ti prego, dimmi che non avete scelto proprio questa sera per consumare il fidanzamento più lungo della storia», esordisce immediatamente la voce di mia sorella, strappandomi una risata. «Non ridere! Masao e le ragazze stanno cominciando a darmi il tormento perché non vi vedono arrivare».
Sorrido, felice di sentire che questa sera ci sarà anche mio cognato. Ultimamente sta facendo parecchi straordinari, e lo vedo raramente.
«Siamo solo stati trattenuti in negozio, ti spiegherò non appena arriveremo», le dico, passando distrattamente le dita sul bordo rotondeggiante di un tavolino, «quanto al resto, non puoi credere davvero che abbiamo atteso così a lungo», insinuo, mordendomi un labbro per non ridere di nuovo davanti al silenzio incredulo di mia sorella.
«E non mi hai detto niente?», protesta infatti, strappandomi uno sbuffo divertito, «vedete di sbrigarvi, appena arrivi voglio sapere tutto!».
Nel momento in cui riesco a chiudere la chiamata scopro che i ragazzini hanno ormai abbandonato la loro timidezza, e che ora stanno chiacchierando con voci sempre più alte ed entusiaste. Vicino a ciascuno è ora posato un ombrello, pronto per essere usato, e le loro divise non sembrano più così gocciolanti.
Lascio cadere il telefono nella borsa e li raggiungo, unendomi alle loro chiacchiere. Sembrano a loro agio a parlare con il loro professore, e io ne approfitto per fare finalmente la loro conoscenza.
Scopro così che la ragazzina coi lunghi capelli scuri, che ogni tanto gracida come una piccola rana, è golosa di quei pasticcini che ho offerto loro con il tè, mentre la sua compagna con il caschetto bruno ci diverte facendo fluttuare i cucchiaini. La terza ragazza ha un carattere esuberante che mi ricorda le mie nipoti, mentre il giovanotto che per primo ha accettato di sedersi al mio banco è il suo diretto contraltare, e continua a scrutarsi intorno in quieto silenzio. C'è poi il ragazzo alto con gli occhiali, che parla a voce troppo alta e vuole con ogni evidenza fare buona impressione, dal momento che mi ha appena conosciuta.
In ultimo, il ragazzino che desideravo conoscere più di tutti. È lui ad attrarre maggiormente la mia attenzione, e il suo entusiasmo a tratti somiglia così tanto a quello del suo predecessore, che ho quasi l'impressione di rivedere in lui il giovanotto biondo che quarant'anni fa mi ha strappato il cuore.
«Sono deliziosi», gli confido in un soffio dopo aver chiuso per la seconda volta il negozio, mentre, abbracciati sotto un unico ombrello, li osserviamo correre via in direzione della scuola.
«Sono dei bravi ragazzi», acconsente lui, stringendomi a sé. «Diverranno dei grandi Eroi».
«Mi piace il tuo successore», continuo, sorridendo nel vedere i ragazzi svoltare in fondo alla via, «ti somiglia moltissimo».
«Non sei la prima a dirmelo», ridacchia, chinandosi per premermi le labbra sulla fronte.
Chiudo gli occhi, godendomi quel tenero contatto e stringendomi a lui con più forza. Dovremmo andare, perché mia sorella ci sta aspettando, ma non riesco a muovere un passo. Sono annientata dall'amore che provo, annientata dalla dolcezza di saperlo di nuovo con me e dalla gioia che mi provoca la sua vicinanza.
«Ti amo», sussurro, guardandolo da sotto in su con aria rapita e incontrando uno sguardo adorante quanto il mio. In una simile occasione mi sentirei sciocca con qualunque altro uomo, ma non con lui; mai con lui, che mi conosce più di chiunque altro. «Ti amo», ripeto, e rovescio indietro il capo giusto in tempo per ricevere il suo bacio, per sentirlo sussurrarmi quelle stesse parole mentre mi stringe sotto la labile protezione dell'ombrello.
Il mio cuore trabocca, e ancora una volta mi sento dilaniare da una gioia struggente.
Mi era mancato così tanto!






 
E questa è la conclusione del mio primo, brevissimo racconto su queto fandom. Akane Oda è un personaggio di Ulvinne, di cui potete leggere la storia al momento in pubblicazione. La professoressa Mouri citata dai ragazzini è invece Aino Mouri, un mio nuovo personaggio la cui storia è in arrivo.
Ringrazio tutti i lettori per l'attenzione. A presto <3

 
  
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