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Autore: JSGilmore    24/10/2021    0 recensioni
Rachele ha sedici anni e due fratelli, Elia e Filippo, che non potrebbero essere più diversi tra loro. Elia è avventuroso, indipendente, un viaggiatore con l'ossessione per il mare, e dopo la morte del padre gli hanno affibbiato il ruolo scomodo di capofamiglia, forse è per questo che ha sempre quel fastidioso atteggiamento paternalistico. Filippo, d'altro canto, è legato visceralmente alla terra ferma, alla sua casa, alla famiglia. Entrambi hanno una passione in comune: Rachele, la sorella, che di sorella sembra aver ben poco. Tutto comincia quando Elia torna a casa dopo tre anni passati in mare a girare il mondo in barca a vela, le cose a casa sono cambiate, Rachele è cresciuta e Filippo è diventato più possessivo nei suoi confronti...Quasi quanto lui.
Qual è il mistero che si cela dietro la loro famiglia? Di quali segreti Rachele sembra essere all'oscuro?
Un'avventura, un segreto, un mistero, un amore impossibile. Sullo sfondo una meravigliosa Isola d’Elba.
"E ricordati di non avere paura del vento, perché muove il mare e lo preserva dal diventare melma".
Escape vi aspetta in questa versione "inedita" con contenuti extra non presenti su Wattpad.
(Crediti: storia Liberamente ispirata a Georgie e Outer Banks)
Genere: Avventura, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Incest | Contesto: Contesto generale/vago
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Elia suonò il campanello e la mamma ci venne ad aprire. Aveva ancora il grembiule legato stretto in vita, quello con i pomodori cuciti da Filippo durante le scuole elementari e con una grossa scritta in corsivo ricamata sulla tasca: Mamma ti voglio bene.

Gli si buttò addosso e pianse, con i guanti di gomma gocciolanti ancora tra le mani. Gli accarezzò i capelli, gli baciò il petto, tremava convulsamente. Elia aveva gli occhi chiusi e il mento sulla testa di mamma, che mi guardò con la sua solita posa trascurata, senza sorriso, sospettosa. «Chi te le ha comprate quelle scarpe?»

Un paio di stivaletti con la suola spessa e qualche centimetro di tacco. Erano della bancarella e in saldo, le avevamo prese insieme la domenica precedente, al mercato, ma lei se n’era già dimenticata. «Sei stata tu, mamma, ti ricordi quella volta…»

«Mamma», Elia la prese per mano, «ti dispiace tirare fuori la torta al cocco? Voglio assolutamente assaggiarne una fetta prima di cena!»

Quando lasciò il corridoio, chinai la testa e corsi in bagno. I capelli erano fitti, una selva scura, scombinati e mossi come se il vento ci soffiasse sempre in mezzo, neri come il peccato. Mia madre diceva che erano la cosa più bella che avessi e io ne avevo dedotto che non ero poi così bella nell’insieme. Quand’ero piccola li tenevo fermi con pacchiane mollette rosa, ma ora rubavo le forcine dai cassetti.

Mi sciacquai per bene la faccia. Sopra il lavandino, nel mobiletto di legno dall’anta eternamente socchiusa, c’erano l’ovatta e i flaconcini che la profumeria regalava a mamma. Mi passai un po’ di crema idratante al cedro norvegese sulle gambe. Le avevo depilate il giorno prima con la lametta da barba di Filippo e la radice spessa dei peli era già rispuntata fuori.

Quelle gambe e quelle scarpe erano una contraddizione, ma gli stivaletti erano così ben serrati ai piedi che sembrava che ci fossi nata. Scarpe con il tacco: chissà perché mia madre mi permetteva di indossarle. Inorridiva persino per un po’ di lucidalabbra, delle volte. Quelle scarpe, da sole, mi trasformavano tutta, mi rendevano adulta e libera, nonostante i miei appena sedici anni. Mi sembrava di poterci fare i chilometri senza consumarle mai.

Fuori dalla porta c’era ancora qualcuno e misi a fuoco la scena sul corridoio attraverso uno spiffero. Mio fratello regalava a Filippo un’edizione di poesie di Frank O’Hara introvabile, presa a Berlino, o almeno così disse. «Grazie per esserti preso cura di lei.»

Filippo si rigirò il libro tra le mani. «Non l’ho fatto per te.»

Per qualche ragione, però, Elia gli diede lo stesso una pacca sulla spalla e un muscolo teso gli corse lungo tutta la mandibola. «Sei in gamba.»

Filippo non sembrava perfettamente conscio su cosa fosse giusto dire e fissava il cerchietto d’oro appeso all’orecchio di Elia. «Ci sei mancato. La mamma non ha fatto altro che parlare di te, Elia di qua Elia di là.»

Elia sorrise, quella sua smorfia inconfondibile di ironica solennità. «Dev’essere stata una vera rottura di scatole.»

«Francamente, un po’ sì.» Ora stavano ridendo, Elia spalmato contro la parete e con le mani nelle tasche, Filippo che fissava la costa rovinata del libro con le orecchie color peperone.

«Mi dispiace sul serio per la mamma, non se la sarà passata benissimo», disse Elia, ma, in un certo senso, sembrava triste anche per sé stesso. Si guardò i mocassini. Non si sbottonava mai. Viveva nel suo silenzio insondabile e nello sforzo costante di apparire distaccato.

Facevo fatica a credere che fossimo stati generati dagli stessi genitori: il mio volto era anonimo, esprimeva tutto quanto contemporaneamente, il che equivaleva a non esprimere niente. Invece, lui era caratteristico. La punta del suo naso era tonda, il mento pronunciato e la disposizione strategica degli spigoli sul suo viso gli davano sempre quell’aria sardonica, anche quando in realtà era serio, o avvilito.

Era diventato ancora più bello in questi anni.

Elia era mio fratello ma non mi apparteneva. Non era mio. La simbiosi con cui eravamo cresciuti era finita quando mi aveva annunciato che sarebbe partito.

Era pomeriggio, eravamo immobili nel prato aperto, sopra spighe che bruciavano al sole, nella campagna di zio Rodolfo. Una manciata di parole ben assestate, vaghe considerazioni sul richiamo del mare che si sentiva dentro ormai da anni, e qualche “stammi bene” di troppo.

Fino a quel momento mi aveva evitata, era chiaro. Era diventato sempre più difficile fingere di non averlo capito. Non era freddo né scostante: semplicemente non c’era. Appariva e scompariva e a tavola sembrava sempre troppo preso, anche solo per alzare gli occhi su di me.

Avevo pianto finché il cielo non ci era crollato addosso. Pioveva col sole. Elia mi aveva avvolta e poi buttata nell’oro. Il suo corpo che aderiva completamente al mio mi teneva stretta come se potessi scivolare via come l’acqua, senza sapere che il suo petto era l’unico posto al mondo in cui mi sentivo al sicuro, in cui non scivolavo. La stoffa della sua maglietta era zuppa di pioggia, tuttavia la sua pelle non era mai stata così bollente. I suoi abbracci scottavano, i suoi respiri caldi non avevano mai soffiato così vicini alle mie guance e un nodo dolorosissimo di lacrime lo avevo mandato giù solo perché c’era la punta del suo naso che mi sfiorava il collo. La sua testa sul mio petto e il profumo di grano: poteva anche annegarmi quel diluvio. Elia mi aveva preso la mano, mi ero ritrovata le dita intrecciate alle sue senza essermene accorta nemmeno.

Il calore così intenso e insopportabile di quell’abbraccio ce l’avevo ancora addosso. Mi mancavano le sue braccia forti, mi mancava il modo in cui la sua voce bassa vibrava ruvida, dolce, dolcissima, mentre sussurrava “Restiamo ancora un altro po’ così per favore” e ora avevo tutto questo davanti ma era un’onda altissima, soffocante.

Disse che doveva assolutamente farsi una doccia.

La festa di bentornato a casa fu quanto di più noioso e deprimente avessimo organizzato fino a quel momento, esclusi i compleanni di Dumbo nei locali karaoke: una carrellata di zii e di prediche sul senso della vita.

Filippo giocò per tutto il tempo con la targhetta del vino fino a scollarla. I capelli di Elia avevano preso una piega scalata e fluente; indossava una canottiera e una camicia floreale slacciata, i pantaloni larghi da bohemien. Rodolfo aveva la testa lucida e pelata come l’anguria. Franco ed Elisabetta avevano il raffreddore in piena estate. Massimo, nostro cugino, si presentò con un maglioncino di cachemire, un pantalone blu a zampa di elefante e l’entusiasmo fino alle stelle: «Hai ancora la tua bella faccia da culo, Branda!»

Alice, nostra cugina, regalò a Elia una guida turistica per viaggiatori. «Un po’ tardi», le disse Elia.

Elisabetta salvò sua figlia. «Lo facciamo un rapido brindisi per celebrare il nostro eroe?»

Maddalena prese i calici e fece notare con aria addolorata e stupita quanto suo nipote fosse cresciuto prima del tempo. Franco stringeva lo champagne saldamente tra le mani, la condensa che scorreva sul vetro come goccioline di sudore, le guance flosce tenute su da un sorriso smagliante. «Lo stappo io, l’Isola Imperiale?»

Massimo suggerì di rompere il collo della bottiglia con un coltello da macellaio, proveniente dal set di attrezzi per la brace che avevano regalato a Filippo per Natale. «Non voglio bere granelli di vetro», replicò Alice. Massimo si passò la mano sulla fronte. «La pressione esercitata dalla bottiglia sarà come un’esplosione. Nessun vetro tra i denti, tranquilla, al massimo ti arriverebbero negli occhi.» I miei fratelli e io iniziammo a ridere e sulle labbra di Massimo affiorò un sorriso compiaciuto, forse credeva che stessimo ridendo per la sua arguzia. Per poco, Franco non colpì il lampadario.

Maddalena fece un discorso commuovente, il tono affabile ricordava quello tipico della moglie di un diplomatico. «La scomparsa in mare di vostro padre, quello sciagurato di vostro padre, ha causato molti problemi a voi tre. Ve lo si legge negli occhi. Sono felice però di poter dire che siete venuti su bene, più o meno, nonostante tutto. Elia, in quanto tua zia preferita, nonché insindacabile punto di riferimento della famiglia, non mi resta che farti una raccomandazione: per favore, non fare la stessa fine del babbo! Cin cin

Ci sciroppammo un’altra lunga serie di sciocchezze umilianti, che costarono una certa dose di sforzo più ad Elia che a me, e poi finalmente paccheri ai frutti di mare fumanti.

Franco posizionò il tovagliolo tra la camicia e la cravatta, dopodiché domandò ad Elia, con tono petulante, dov’era stato e tutto quello che aveva fatto: il vero argomento che, prima o poi, qualcuno doveva pur tirare fuori ed affrontare.

Mio fratello corrugò la fronte, in un consapevole sforzo di apparire riflessivo. «Qualche capitale europea e poi ho deviato, verso mete meno politicizzate. Sai, le Hawaii, il Brasile, cose così…»

«Viaggiare…», brontolò Elisabetta con la schiena rabbiosamente dritta e gli orecchini di perla che scintillavano fiochi, «Non si farebbe prima a dire “sono andato in vacanza per tre anni”? Voglio dire, in fondo è lo stesso…E comunque sembri un marocchino!»

Alice posò la forchetta nel piatto. «Mamma! Non essere razzista!»

«Cos’ho detto di razzista? Io amo quella carnagione, venderei un rene al mercato nero, pur di abbronzarmi…»

Massimo non riuscì a trattenersi. «Mercato nero…»

«E quel taglio lì?», chiese Dumbo, gli occhi sottili e l’indice puntato all’altezza dello zigomo di mio fratello. In realtà si chiamava Valeria, ma per via delle sue comiche orecchie a sventola, per noi, era sempre stata Dumbo.

Elia alzò le spalle e aprì una lattina di coca cola. «Una rissa, niente di che.»

Elisabetta si passò un dito sulla palpebra, in meditazione, come per raccogliere un granello di polvere o sabbia. Nostra madre si alzò di scatto, il tovagliolo di Maddalena cadde a terra, sulla moquette.

«Scusatemi», un fremito di rabbia scosse le labbra di Elia e si diresse in cucina dietro la mamma, come un gatto pigro.

Maddalena setacciò la tovaglia. «Rachele, ci pensi tu a rimediarmi un altro tovagliolo?»

Andai di là, obbediente.

«Posso essere sincera?», sussurrò la mamma, quel tono brusco di sempre, mentre chiudeva il pensile sopra il lavandino. Elia teneva le mani serrate in un pugno, le nocche poggiate sul mobile color panna della cucina. «Quando mai ti trattieni dal dire qualcosa.»

«Secondo me, tu potresti essere uno splendido uomo, dico sul serio», nei suoi occhi neri brillava una scintilla di commozione, «Anzi, un uomo addirittura eccezionale. Somigli così tanto a tuo padre, che a volte, quando ti guardo penso di essere vittima di un’allucinazione. Però penso anche che tu non ci sia minimamente vicino all’uomo che potresti diventare. Insomma, guardati, sei ubriaco. Pensavi davvero che non me ne sarei accorta? Sei tornato per cosa? Ancora quella storia? Levatela dalla testa.»

«Sai che non succederà mai.»

Poi si voltarono di scatto verso di me.


*


Il cielo blu sembrava di velluto. Eravamo seduti su un muretto da cui sporgevano balconiere in terracotta, nell’ombra di torreggianti pini. Sotto di noi le rocce, gli strapiombi, le insenature dell’isola, Marina di Campo piena di luci. I grandi si erano coricati, noi eravamo rimasti lì, svegli fino a tardi a pendere dalle labbra di mio fratello, che ci raccontava i particolari del suo viaggio.

Filippo mi cinse le spalle e mi sfregò la pelle del braccio, per scaldarmi. Sotto le sue dita era come prendere consistenza. Elia seguiva il fumo della propria sigaretta, che si diradava spugnoso nella notte estiva. «Il tempo è stato quasi sempre bellissimo», disse, «per quanto riguarda il mangiare, mi sono adattato. C’è stato un periodo in cui non sono riuscito a pescare nemmeno un’alice e ho digiunato per giorni. Dopo i primi mesi in mare, ho attraccato in Olanda. Sono arrivato lì in pieno inverno e, merda, mi si sono congelate le palle, così ho virato verso le Hawaii. Credetemi, ho visto spiagge dorate, rosse, nere e persino verdi, ho assistito ai tramonti più belli della mia vita, mi sono sporto da scogliere e cascate vertiginose. Ho scoperto anche di non essere l’unico pazzo che viaggia in barca a vela. Parecchia gente lo fa. Ci siamo dati anche una mano a vicenda con il carenaggio delle barche. Attraccavamo lungo la banchina quando c’era bassa marea e scrostavamo dallo scafo le alghe e le conchiglie, poi passavamo una mano di antivegetativa, e voilà. Sguazzavamo nella melma ma ci siamo divertiti come matti.»

«Le lezioni di vela di papà ti sono state utili», disse Filippo, «Se il vecchio ti vedesse ora, sarebbe orgoglioso.»

Elia rise e, per la prima volta dopo anni, mi sembrò che la mia vita stesse accadendo proprio lì, in quel luogo, e non da qualche altra parte lontano, chissà dove. Avere accanto Elia era come avere accanto papà.

Del vecchio ricordavo l’essenziale: mappe arrotolate sulla scrivania e bussole arrugginite, clessidre impolverate e manuali di navigazione piuttosto datati. Ricordavo l’odore sgradevole dell’inchiostro mescolato ad un vago profumo d’incenso, il tetto basso, come se stesse sempre per crollare, la luce calda e soffusa di una lampadina scarica, gli occhiali sempre ricoperti da una patina di grasso, le camicie sbottonate e un petto villoso, le ascelle pezzate, una barba incolta. Quando non era al porto, si rintanava nel suo studio: io e i miei fratelli gli bussavamo a turno, lui metteva le scartoffie da parte e ci raccontava di leggende e tesori nascosti, oppure ci leggeva La storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare.

Una volta mio padre mi aveva confessato un segreto che, parole sue, non avrei dovuto condividere con nessuno. «Sei una pirata» mi aveva sussurrato, non abbastanza piano da evitare che la mamma ci sentisse. Mi aveva preso le manine e aveva unito le dita una per una, lasciando liberi i pollici, come le zampe di un’aragosta, «Lo sai perché ti chiami Rachele? Perché sei una ragazza con le chele, un esserino alquanto pungente e letale.» Avevo riso talmente forte da sentire dolore nella pancia, e la mamma era intervenuta. «Federico, per favore, non incoraggiarla

Poi la Ragazza con le Chele era cresciuta. Avevo assistito al cambiamento del mio corpo come se fosse stato qualcosa di estraneo; l’eccessiva e ingrata magrezza della mia infanzia si era presto trasformata in qualcos’altro, di meno spirituale, di più grezzo. Non era più mio, quel corpo, era di un’altra, a disposizione degli sguardi rimbalzanti di sconosciuti per strada. Quelle forme morbide, quei seni che sembravano panetti di farina, quella carne bianca e duttile, sempre sul punto di deformarsi, erano ciò che mi rendevano diversa dai miei fratelli.

Il loro corpo maschile si irrobustiva, diventava compatto e arido, possedeva forme che non si sciupavano, forme immortali, eterne. Forme che vivevano in un continuo presente radioso, propulsivo. Li invidiavo. Volevo essere nata maschio anche io, volevo avere la loro resistenza fisica, massacrarmi di lavoro senza stancarmi, volevo poter viaggiare in barca, per il mondo, senza portarmi dietro gli assorbenti, volevo poter essere me stessa senza subire la rivalità di nostra madre.

Era come se non potesse fisicamente esistere vicino a me, lei viveva lontana da me, tracciava animosi confini di spazio che non potevo oltrepassare, l’avvertimento glielo leggevo nei suoi soffocanti occhi scuri, nelle rughe che le fendevano la fronte, nell’ostilità delle sue espressioni cadenti. Una volta era bella, ma quella bellezza era stata demolita dalla sua abitudine al pudore. Mi guardava come se spiasse l’imminenza di un avvenimento che non percepivo. Mi guardava e nei suoi occhi c’erano residui di morte. Non potevo essere libera accanto a lei.

Alice estrasse un pacchetto di sigarette dalla borsa. «Dovremmo fare qualcosa, più tardi.»

Elia ridacchiò. «Tipo un bagno a mezzanotte?»

Filippo si schiarì la gola: «Non vedi l’ora di sfoggiare il tuo costume adamitico?», la sua mano elegante, penzoloni oltre la mia spalla, indicò il pacchetto di Alice. «Posso rubarti una di quelle?» Nostra cugina gli allungò una sigaretta. Filippo inspirò, e la brace tonda gli illuminò la pelle del viso che, dallo zigomo in giù, era splendente e ripida come il fianco innevato di una montagna.

Il polso magro, le unghie ovali e arrotondate, le nocche prominenti, un aspetto nell’insieme ossuto ma che sprigionava forza e morbidezza. Anche Elia fissava la mano di Filippo. Sotto la luce fredda dei lampioni, i suoi occhi erano esegetici. Le ciglia nere, che proseguivano fino alle estremità leggermente all’ingiù, gli ammorbidivano quello sguardo spettrale. Le sopracciglia preannunciavano i piani inclinati degli zigomi.

«Ne vuoi una anche tu, Lele?» Alice agitò una sigaretta e allungai il braccio per afferrarla, ma qualcosa di pesante me lo impedì: la mano di Elia mi aveva marchiato l’avambraccio e la ritrasse subito, con aria scioccata. «Lasciala perdere quella roba, è spazzatura.»

Alice la rimise nel pacchetto e Filippo continuò a dare boccate di fumo, in tralice. «Guarda che non è la prima volta che fuma», si sentì in dovere di fargli notare dopo un po’, «su, forza Rachele, diglielo.»

Elia era immobile, l’espressione spossata e la schiena curva, come se tutti quegli anni senza di noi gli fossero ripiombati addosso in un attimo. Aveva lo sguardo su di me, ma in realtà quello sguardo era approssimativo. Non riuscii a emettere fiato. In fondo, quel ragazzo era come se non lo conoscessi. «Sì, non è la prima volta», sussurrai.

«Ora abbiamo anche i suggeritori», Elia spostò pigramente l’attenzione su Filippo, con una certa flemma nel movimento delle labbra.

«Forse dovresti prestarle più attenzione, Elia», Filippo non mi aveva mai tenuta così stretta a sé come in quell’istante, «rispetto a quando te ne sei andato è un po’ più grandicella.»

Aveva ragione, non trovavo che Elia mi avesse testimoniato una particolare considerazione, ma era anche vero che quando parlavo mi ascoltava sempre, una cortesia che ad altri gli capitava di non riservare.

«Che uomo di casa che sei diventato» sibilò Elia, lo sguardo offuscato da una collera inconfessabile.

«Dai, su, ragazzi», intervenne Massimo alzando i palmi, «niente bagno a mezzanotte e abbiamo risolto.»

«Infatti, io me ne torno a casa. Sono distrutto», disse mio fratello e mi lanciò un’occhiata bruciante.

L’andatura con la quale risalì la strada aveva un che di grottesco, ma la sua figura era come una linea lunga ed elegante tracciata con il pennello. Filippo accostò le labbra al mio orecchio. «Sta solo cercando attenzioni, sai com’è fatto, no? Lascialo perdere.» Tuttavia, Elia era così totalmente incurante di quello che pensavano gli altri di lui, talmente sicuro della propria percezione di sé, che mi risultava difficile immaginarmelo desideroso di attenzioni. Certo era che, quando voleva, riusciva ad apparire incredibilmente noioso e ostile, con quella sua aria annoiata, apparentemente incapace di provare conflitti. Neanche io avevo più tanta voglia di restare lì.

Quando tornammo a casa, Elia era accasciato sul divano a sbadigliare e guardare la tivù, avvolto nella luce fioca delle lampadine a risparmio energetico. Le tapparelle abbassate creavano un’atmosfera cupa. Le ombre si gettavano prepotenti e giganti verso la parete bianca. Sorseggiava una lattina di birra e ci ignorò.

Prima di andare a dormire, lo vidi intrufolarsi nello studio di nostro padre. Si guardò intorno nel buio, e poi si chiuse furtivamente la porta alle spalle. Nessuno era più entrato in quella stanza dopo la sua scomparsa. Nessuno, tranne Elia.


Note.
Fatemi sapere se vi va cosa ne pensate con una recensione, mi farebbe davvero piacere. Noi ci vediamo con il prossimo capitolo,
con tantissimo affetto,
JSGilmore
   
 
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