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Autore: JSGilmore    15/11/2021    0 recensioni
Rachele ha sedici anni e due fratelli, Elia e Filippo, che non potrebbero essere più diversi tra loro. Elia è avventuroso, indipendente, un viaggiatore con l'ossessione per il mare, e dopo la morte del padre gli hanno affibbiato il ruolo scomodo di capofamiglia, forse è per questo che ha sempre quel fastidioso atteggiamento paternalistico. Filippo, d'altro canto, è legato visceralmente alla terra ferma, alla sua casa, alla famiglia. Entrambi hanno una passione in comune: Rachele, la sorella, che di sorella sembra aver ben poco. Tutto comincia quando Elia torna a casa dopo tre anni passati in mare a girare il mondo in barca a vela, le cose a casa sono cambiate, Rachele è cresciuta e Filippo è diventato più possessivo nei suoi confronti...Quasi quanto lui.
Qual è il mistero che si cela dietro la loro famiglia? Di quali segreti Rachele sembra essere all'oscuro?
Un'avventura, un segreto, un mistero, un amore impossibile. Sullo sfondo una meravigliosa Isola d’Elba.
"E ricordati di non avere paura del vento, perché muove il mare e lo preserva dal diventare melma".
Escape vi aspetta in questa versione "inedita" con contenuti extra non presenti su Wattpad.
(Crediti: storia Liberamente ispirata a Georgie e Outer Banks)
Genere: Avventura, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Incest | Contesto: Contesto generale/vago
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Elia era in giardino a lucidare la sua moto, una storica Kawasaki, in ginocchio sulle mattonelle di ceramica cotta. Posai la cesta piena di panni sul tavolo. Il sudore gli scorreva tra i solchi della schiena come le diramazioni di un fiume. Indossava un paio di bermuda di tela.

Mezza mattinata sulla spiaggia e si era già abbronzato. Non avevo mai conosciuto qualcuno che attirasse il sole come lui: chili di crema solare, densa come stucco, non avevano impedito alle sue spalle di diventare rosso peperoncino. La sua schiena era lucida e grondante di sudore.

«Non affaticarti troppo», dissi, «altrimenti stasera dovremo dare buca alla tua ragazza perché ti sei preso un’insolazione.»

Elia si strofinò la fronte e trattenne una risata. Continuò a sgrassare la marmitta e disse laconico: «Angelica non è la mia ragazza, e stasera niente festa.»

Spalancai lo stendino. Elia l’aveva camuffata come una vecchia conoscenza del liceo, disgraziatamente degenerata in una sveltina, ma io e Filippo sapevamo che c’era qualcosa di più, sotto. «Non avevo mai preso in considerazione l’idea che volessi sul serio una ragazza. Perché niente festa?»

«Lei non è la mia ragazza, come devo dirlo…»

«Oggi ti stava addosso come una cozza e ti faceva gli occhi dolci: ho collegato, non ho più tredici anni. Perché non vuoi andare al Garden Beach?»

Mi ignorò e armeggiò con il cavalletto.

Qualche ora prima, eravamo stiracchiati sui lettini. L’azzurro vibrante del cielo si inabissava nel blu profondo del mare. Dalla riva era apparsa una ragazza dai capelli rossi. Fissava Elia. «Ei, Ferro, allora avevo visto bene, sei proprio tu», con la scusa di salutarlo, gli aveva tastato il bicipite. Continuava ad accarezzargli la pelle, scossa dalle tensioni virili che emanavano i suoi muscoli.

Elia, per gli amici, era Ferro, diminutivo del nostro cognome Ferrazza. Invece, Filippo per gli amici era Filippo. Questo pensiero mi aveva procurato un’intensa risata e lei mi aveva incenerita. «Ci sono problemi?»

«Angelica, ti presento mia sorella», aveva detto Elia. Gli occhi verdi, contrassegnati da un eyeliner marcato, erano di una bellezza avara, mortale, come la sua bocca sottile.

«Ah, tua sorella», era rincuorata, «Non ti somiglia per niente.»

Angelica aveva rapito mio fratello per una passeggiata, dalla quale lui non osò sottrarsi. Davanti a me il mare: l’immensità che si accavallava, si disperdeva e ritornava.

Incastrai una molletta sulla stoffa delle sue mutande Calvin Klein. Una volta Filippo gli aveva fatto notare, tutto tronfio: «Non capirò mai cosa ci trovi di bello la gente, nell’avere il nome di un tizio sulle mutande.»

Elia gettò a terra lo straccio, vicino a un vecchio borsone della palestra ricoperto di sabbia che ora conteneva i nostri teli da mare. I suoi occhi marroni, caldi, erano dello stesso colore della terra, delle coste frastagliate dell’isola e avevano in sé l’estenuante inseguirsi delle onde. «Non ti porterò a bere alcolici in un covo di assatanati.»

Angelica aveva parlato di un evento esclusivo e irripetibile, a Marina di Campo: non stavo più nella pelle, e volevo fare una buona impressione con la sua nuova fidanzata, sebbene non fossi mai stata una tipa festaiola. «A che ora andiamo, stasera, allora? Devo pensare a cosa mettere…» Come se avessi chissà quali vestiti.

Elia era tra lo scioccato e il divertito. Aveva un sorriso arrogante, un’aria di scherno. Con quel cappello di paglia voleva dare l’impressione trasandata di un giovane vagabondo: si piaceva così, con l’aria da povero, ma era tutt’altro che goffo, solo apparentemente trascurato. Un piccolo cerchio d’oro appeso al suo orecchio sinistro scintillava. «Ora fumi, vai alle feste… E ci manca solo che bevi. Che ne hai fatto di lei, la ragazza che amava le piante?»

La terra: genuina, semplice, potente, meravigliosa. Era stato Elia a indottrinarmi al giardinaggio. La passione per i fiori era nata perché trovavo affascinante guardare qualcosa di così puro e sincero crescere, sbocciare. Qualche anno prima, in autunno, avevamo coltivato un cespuglio di rose rosse. Quando lui era partito avevo smesso di prendermene cura. «La vecchia Rachele è stata rasa al suolo. Ora sono un deserto.»

Elia mi guardò con un sorriso alterato, intrappolato. «I fiori crescono anche nel deserto.»

Filippo scostò la tenda a zanzariera e ci raggiunse in giardino. Masticava un tramezzino prosciutto e formaggio. Calpestò uno zampirone consumato e imprecò. Ultimamente, era così eclettico. «Cosa complottate, voi due?»

Elia indurì la mascella. «Stavo dicendo a Rachele che stasera ce ne restiamo a casa.»

Stesi il vestito che mia madre metteva ogni santo giorno, pietoso e deforme, rammendato sugli orli troppe volte per poterle contare. «La tua ragazza ce l’avrà a morte con te», dissi a Elia.

Filippo fece scivolare una mano sulla mia spalla e quel gesto istintivo, quella carezza assistenziale, mi turbò: era come se mi stesse suggerendo che c’era qualcosa in Elia che avrebbe dovuto farmi sentire turbata, ma io non lo ero, non lo ero affatto. Il palmo di Filippo mi surriscaldò la carne. «Se Rachele vuole andare a quel locale, io ce la porto. Ricordi cosa ti ho detto ieri sera? Da quando te ne sei…»

«Sì, sì, da quando me ne sono andato è un po’ più grandicella», si tastò i bermuda e lanciò un mazzo di chiavi a Filippo, «Voi due andrete con la Panda di papà, io arriverò più tardi con la mia moto.»

Il Garden Beach era sul mare. Varcata la soglia, l’interno era poco illuminato, cavernoso, vagamente viola, con lunghi banconi in cui servivano da bere e un chiosco affollato, sotto un tetto di palme. C’erano un odore di alcol rancido e un tintinnio metallico di cubetti di ghiaccio che si scontravano con il vetro dei bicchieri da cocktail. Le persone sorseggiavano superalcolici accatastati in amache di paglia. Filippo socchiuse le labbra carnose: lingue di fumo si sciolsero nell'aria chiusa e viziata. Si arrotolò le maniche della camicia a quadri. Le vene blu in risalto sugli avambracci bianchi. Non avevo una gran carriera in fatto di feste, ma c’era la musica: avrebbe dovuto invitarmi a ballare, anziché rimanere abbacchiato in mezzo alla gente a farsi prendere a spallate. Angelica si fece largo verso di noi.

«Rachele, ti sei messa in tiro, vedo», disse, e sulle prime non colsi se fosse seria o ironica. Indossavo un vestito azzurro, dalle spalline gonfie e una stoffa spessa, che ora mi sembrava prelevato direttamente dall’unione sovietica nel secondo dopoguerra. In realtà, non sapevo perché alla fine l’avevo messo, quel coso. Si guardò attorno, angosciata. «Dov’è tuo fratello?»

La analizzai, cercando di non far trapelare tutto il mio sconforto per non riuscire a trovarle un difetto: solo lei poteva permettersi quel tipo di frangetta che non andava più di moda dagli anni Novanta. Indossava un tubino nero e dei sandali di sughero. I suoi occhi erano irrequieti e le braccia erano conserte. Il buttafuori le stava fissando il seno, ma lei faceva finta di non accorgersene. Il piccolo taglio sul labbro rendeva Angelica identica ai vecchi poster di Lara Croft appesi nella stanza dei miei fratelli.

«Elia sta arrivando, tranquilla, questione di minuti», sfiorai il velluto di uno scialle che le ricadeva sulla schiena, «Molto carino. Sembra fatto a mano… Dove lo hai preso?»

«L’ho commissionato a una sarta», mi strizzò l’occhio e non ebbi alcun dubbio che parlasse proprio di mia madre, «Sandra è una vera professionista. Era così contenta di conoscermi. Mi ha detto di non aver mai incontrato un’amica di suo figlio.»

Di solito mia madre non era così accomodante né con le sue clienti né con il genere femminile, specie se pretendenti dei suoi adorati figli maschi, e soprattutto nessuna si era mai permessa di chiamarla per nome. Angelica doveva piacerle, così avvenente e sicura di sé, che non si sforzava di esserlo, ma le veniva naturale.

Sandra cuciva a mano come non si faceva da secoli, con gli aghi fini come i capelli. Le piaceva cucirmi i vestiti, e vedermeli addosso: sacchi fuori moda, da indossare sotto il sole brumoso, che coprivano un fisico incompiuto, che poteva scandalizzare, uno di quei corpi che al massimo durava un’estate.

Mia madre credeva che non avrei retto lo shock del mondo reale. Vivi in una bolla adesso, aveva detto una volta mentre faceva i piatti, ma quando andrai a lavorare non so proprio come farai a cavartela. Vedremo, le avevo risposto. Che pensi di inventarti, in futuro? La vita non è l’ambiente protetto di casa, non è quello che pensi, dovrai darti da fare, dovrai lavorare, non potrai startene a ciondolare tutto il giorno. Le avevo risposto che volevo vendere fiori. Solo quello, nient’altro. Un'idea puerile, aveva replicato.

Ogni tanto le rubavo il rossetto color ciliegia che le era costato una fortuna. Comprava senza badare a spese. Vivevamo in una casa che non si era potuta permettere e ora eravamo indebitati fino al midollo. L’aveva comprata perché, secondo lei, saremmo diventati presto ricchi, e poi papà era scomparso. Mia madre lo odiava per averla lasciata.

Angelica si rivolse a Filippo. «Ti dispiace se Rachele viene un po’ con me?»

Filippo se ne infischiò di analizzare la mia riluttanza e scrollò le spalle in segno di assenso. Se fosse stato una ragazza, non mi avrebbe fatta andare via: avrebbe supplicato o piagnucolato di più, per non rimanere solo. I ragazzi non si facevano quel tipo di problemi: vai, resta, fa’ come ti pare, è uguale, io sto bene così.

Angelica mi portò in mezzo alla folla. I ragazzi indossavano camicie sfolgoranti e delle scarpe lucide da cerimonia. Erano tutti più che ventenni. Le ragazze avevano un aspetto ricercato e sfavillante, corredato da borsette sgargianti e orecchini di bigiotteria. Le vibrazioni dei bassi mi penetrarono nelle scarpe e su per le gambe. Angelica mi passò un drink. «Assaggia, è Sazerac: vedrai che ti piace.» Mi presentò velocemente alle sue amiche, Nicole e Alessia, due stangone con cui non valeva neanche la pena di competere. Ricambiarono la stretta di mano con la testa china su un lato e le labbra tese in una smorfia caritatevole. Angelica le studiava con un sorriso indulgente e non troppo confidenziale. «Oh, Angelica, quello sbarbatello con cui parlavi non era mica…», disse Alessia con voce stridula e flautante.

«Ma no, sciocca, lui deve ancora arrivare.»

Alessia: «E se, invece, ti avesse dato buca?»

In quell’occasione, lo vidi per la prima volta. Una chioma riccia e bionda spiccava in lontananza. Quel ragazzo era un bizzarro incrocio tra uno spaventapasseri e un norreno. Un paio di occhi verdi si voltarono nella mia direzione, si posarono su di me di sfuggita, in fretta. Era un vichingo senza la scintilla di fame nello sguardo, un re annoiato dai lineamenti delicati e un portamento nobile. Non era atletico, il modo in cui era seduto suggeriva una certa stanchezza esistenziale, una gracilità d'animo di cui prendersi cura. Parlava con altri biondi pallidi. I miei fratelli, a confronto, erano sani come denti da latte. C’era qualcosa di freddo, di nordico, di incolore, nei suoi occhi.

Nicole: «Voglio proprio vedere se è davvero il figo mastodontico di cui ci hai parlato. Sai, alle volte millanti…» Angelica alzò malvagiamente un sopracciglio. «Guardate pure con i vostri occhi.» Indicò un ragazzo che si muoveva lentamente all’ingresso, come un paziente che si riprendeva dopo un’operazione. Indossava una camicia a righe scollata, i bicipiti gonfi scoperti uscivano dalle maniche arrotolate. Non ballava, ma si guardava intorno con desolazione.

«Ha dei braccialettini da truzzo», osservò Alessia, «Ma è bello da sentirsi male. Come hai detto che si chiama?»

«Elia Ferrazza, fratello della nostra qui presente Rachele. È appena tornato a casa dopo anni, in cui ha viaggiato per il mondo, ed è diventato un figo spropositato. Lo era anche prima, certo, ma adesso ammiratelo: enorme, per nulla imbarazzato dalla propria mascolinità, che ordina un bourbon con ghiaccio. Sì, d’accordo, forse quei braccialetti…»

Alessia e Nicole lo fissarono con adorazione. «Oh, sì, è un figo spropositato.»

Nicole rinsavì: «Aspetta, è tuo fratello?», era sconvolta, «Ma non vi somigliate affatto! Cioè, tu non hai tutto quello charme! Senza offesa.»

Un po’ offesa, in effetti, lo ero ma non potevo darle torto. Sbirciai nella direzione del biondino. Anche lui si era accorto di me, della mia esistenza, e ora mi sorrideva con aria gentile.

«Non darle retta», mi pregò Angelica, e poi mi passò un gin tonic, «Questa sera Nicole non è in sé.»

Entrambi i miei fratelli si unirono a noi e ordinammo al tavolo; cercai di stabilire un ulteriore contatto visivo con la chioma bionda, due metri più in là, che lui non consentiva: era nel vivo di un’accesa conversazione con un cinquantenne da una camicia arancione sbottonata sul prominente addome. Elia si scusò per il ritardo. Filippo parlava di una sua vecchia ambizione, una di quelle che non aveva mai avuto il coraggio di manifestare: suonare la chitarra. Strumento che rispolverava ogni tanto, a tempo perso, “giusto per strimpellare quattro accordi”. La parte del musicista fallito gli permetteva occasionalmente di dare il via a stravaganti relazioni a singhiozzo. Angelica era colpita.

Poggiai la testa sulla spalla di Elia e odorai il suo buon profumo, forse One Million. Non muoveva un muscolo, sembrava concentrato nell’atto di conservarsi nel tempo. Ero assolutamente in dovere di scomporlo. «Hai visto, che sta andando tutto alla grande?»

Si irrigidì. «Alla grandissima, come no.»

Filippo accolse sul suo grembo Alessia, che giocava con il suo ciuffo, mentre lui cercava di scacciarle le dita come fossero mosche fastidiose. Una risata feroce mi partì d’istinto dal petto e non riuscii a trattenerla. «Filippo ti sta rubando la scena.»

«Che se la tenesse pure.»

Non era necessario essere sobri per comprendere quel suo exploit comunicativo: la serata era un totale fiasco. Era isolato, stravaccato su un divanetto di pelle con la noiosa sorella piccola, ad ammirare passivamente Filippo: più di un metro e ottanta di muscoli e settantacinque chili di peso, che non compensavano quel suo aspetto dinoccolato; gli arti sproporzionati, vistosamente lunghi e il ciuffo vaporoso davano all’insieme quel tocco d’imperfezione, di tenera goffaggine, che lo rendeva ancora più interessante, persino agli occhi della sua ragazza. Il mutismo di Elia mi istigava a bere. Si asciugò la fronte e mi guardò scolare un Margarita con uno sguardo eloquente, tanto da convogliare le attenzioni di tutti su di me. Sembrava scoraggiato, consapevole di quello che stavo facendo, probabilmente cercare attenzioni. Oppure, era soltanto incazzato. «Finirai per tirare le cuoia, se continui così…»

L’alcol mi bruciò in gola e nello stomaco: ero alticcia. Ma perché gli stavo continuamente addosso in quel modo, incalzandolo con comportamenti poco virtuosi, per ottenere cosa, poi? Era un atteggiamento infantile, da sradicare.

«Hai una sorella molto divertente», disse Angelica, «Rachele, vuoi ballare?»

Filippo mormorò qualcosa all’orecchio di Elia, che serrò le labbra. Angelica mi prese per mano e i suoi occhi non erano più due, ma quattro, sei, otto, che fluttuavano nel locale in una danza esotica come gli orecchini di una danzatrice indiana. Accostai il bacino al suo, la musica mi pulsava dentro e i movimenti divennero molli e spontanei. Lei mi accarezzò la guancia, mi poggiò un braccio sulla spalla, allungò il drink verso un ragazzo apparso a ballare accanto a noi, che ci contemplava intontito. Gli amici attorno ballavano e ridevano in pose di circostanza.

Angelica mi sussurrò all’orecchio, con il suo braccio sensuale che posava sulla mia spalla: «Ti sta fissando da ore, perché non vai a parlarci?»

«Non guarda me, ma te.»

Nel suo alito colsi il sapore di vino rosso. «Non sottovalutarti.»

Non era alto, mi superava di poco. Era sudato come un animale e sembrava il prototipo di maschio con la tendenza a sottoporsi a lampade con regolarità. I pantaloni così stretti, skinny, erano da burino, come l’orologio in titanio e il crocifisso sul petto. Forse credeva di trovarsi in uno di quei gangster movie con Al Pacino.

«Vacci a parlare, dai», disse Angelica, «Coraggio, non essere timida.»

Mi sentivo ubriaca e mi girai per setacciare il locale alla ricerca di Elia. Lui si limitava a guardarmi in lontananza senza dire niente. Però sotto il suo sguardo percepivo i miei movimenti come ingigantiti, scandalosi, immorali, attraenti, e mi passai una mano tra i capelli, mostrando il collo. «Anzi, aspetta qui, lo chiamo io.»

Avrei voluto fermarla, ma lei era già andata via, e quel tipo mi aveva braccata: raggiunsi la temperatura di ebollizione del piombo. «Mi hanno detto che vuoi ballare», disse. Il suo avambraccio sfiorò il mio. La terra tremava, mi sballottolava, e temei di scivolare lungo le pareti. Cercai di fare in modo che la mia faccia non dicesse niente.

«Come ti chiami?», domandò. Era una domanda semplice, e tutto a un tratto scoprii di non ricordare la risposta. Le sue mani iniziarono a massaggiarmi le spalle.

«Ti offro un giro?», chiese, «Cosa prendi?»

«Niente, grazie.»

Mi riservò un’attenzione che sulle prime mi lasciò indifferente. Beveva e fumava in modo strafottente. Abbassò gli occhi e commentò: «Che scollatura notevole.»

Rimasi imbambolata a fissarlo, non del tutto certa che sarei stata capace di rimanere in piedi. il chiacchiericcio degli altri era talmente sommesso, come se provenisse da remote bocche incorporee.

«Che fai più tardi?»

La pressione allucinante nella testa l'avrei potuta alleviare o gridando, o piangendo. Ormai avevo perso di vista il mio tavolo e Angelica era sparita. Il suo tono divenne più aggressivo. «Ti hanno tagliato la lingua?», con un solo e brusco gesto mi prese il braccio e mi avvicinò a lui, i suoi pantaloni strusciarono contro il mio vestito. Mi lasciò il braccio e mi massaggiò la schiena, e contro quel petto soffocavo. Il mio stomaco si strinse e si rivoltò. Avvertivo dolore nel punto in cui mi aveva afferrata.

Gli vomitai addosso.

«Che troia, mi hai sporcato i pantaloni!»

Tutti intorno a noi ridevano, li sentivo: suoni ovattati e camuffati da versi di stupore. Angelica e le sue amiche ridevano, Elia non c’era, Filippo mi portò via, in un bagno angusto, con le locandine di spiagge sulle pareti. Mi toccò la mano e mi disse di sciacquarmi il viso. Il braccio mi faceva male.

Qualcuno tirò lo sciacquone.

«Cosa ti è successo?», chiese Filippo. Aveva un’aria triste e i suoi occhi azzurri si incrinarono come succede allo zucchero quando si ghiaccia.

Il rumore dell’acqua che scorreva dal rubinetto mi calmava. «Colpa mia, penso di aver bevuto troppo.»

I suoi occhi limpidi esitarono. «Vuoi che ce ne andiamo?»

«No, vado fuori a prendere una boccata d’aria.»



Note.
Grazie per aver letto fino a qui. Se la storia vi piace lasciate una recensione, mi farebbe davvero tanto piacere!
Con tantissimo affetto,
JSGilmore.
   
 
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