Anime & Manga > Haikyu!!
Segui la storia  |       
Autore: time_wings    25/10/2021    1 recensioni
[AtsuHina]
In una città schiacciata dal silenzio e dal suo grigio, basta una sola nota per accendere un colore. Casualità e forza di volontà si scontrano e forse, se si presta attenzione, si riescono a udire le crepe nel muro.
Una storia in cui, alla fine, il silenzio conta tanto quanto la musica.
Nel mezzo si incontrano frigoriferi quasi-parlanti, errori di numerazione, consegne noiosissime, fotografie, cactus, muraglie cinesi, saggi in incognito, soglie da spazzare e spuma di mare.
Hinata suona il violino e Atsumu fotografa solo quello che gli piace.
Genere: Commedia, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Osamu Miya, Shouyou Hinata, Yachi Hitoka
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

TW: Suicidio. Nessuno fa pensieri suicidi, si parla solo super superficialmente di una persona che non verrà mai più nominata nella storia e che i protagonisti non conoscono.
 





Fase 2 - rabbia



Quello era il regno delle bolle.
Era su una barca. No, su un ciocco di legno che galleggiava. La testa seguiva le maree e le correnti, ciondolando sul collo come un souvenir triste parcheggiato sul cruscotto. Non si vedevano pesci, appena sotto la superficie, né ombre più in basso. Il cielo era terso, vuoto di nuvole e uccelli. Il mare non lasciava spazio alla terra se non nelle profondità oscure a cui nessuno aveva accesso.
Sbatté le palpebre e ondeggiò con la testa, seguendo il vento. Quando riaprì gli occhi, indossava uno smoking ed era a un concerto di violino. Lo strumento, solo, spandeva la sua musica nella sala come farcitura per torte: densa e ariosa allo stesso tempo. La melodia era solo suono e nessun colore.
Prima che potesse incrociare lo sguardo concentrato del violinista, Atsumu si svegliò da quel sogno.
Schiuse un occhio e contò le verità davanti a cui la realtà l’aveva messo: era nel suo appartamento, l’unico mare all’orizzonte era la striscia di bava in cui aveva immerso la faccia, la testa gli girava davvero, ma per la sbornia della sera precedente, e il vicino stava suonando il violino. La notte prima doveva aver mangiato un topo morto, perché il sapore che aveva in bocca era quello, suppergiù. Non che avesse mai assaggiato un topo morto. Almeno fino a ieri, presumibilmente.
Lanciò un’occhiata alla sveglia sulla pila di libri accanto al letto. I suoi numeri quadrati verdi gli comunicarono che erano le sei del mattino. Di venerdì. Atsumu si sdraiò supino e allacciò le mani dietro la testa, fissando il soffitto come se gli avesse potuto parlare. Da qualche parte, l’archetto del violinista fendette l’aria, una lingua verde scuro rapida come l
attacco di un bambino su un gelato. Le note sullo spartito dovevano essere impazzite, macchie d’inchiostro gettate alla rinfusa come se vi ci fosse caduto il bicchiere sporco di un pittore imbranato. Un contrasto di su, giù, su e giù contemporaneamente, accordi che per un solo musicista, un solo violino, un solo archetto e solo quattro corde non dovevano essere possibili.
Atsumu pensò, wow!
Poi si spiaccicò le mani in faccia e gridò contro la sua stessa ostruzione.
Atsumu pensò, Oh, mio dio! E ad alta voce aggiunse: “Sono le fottute sei del mattino!”
Contemplò l’idea di alzarsi, uscire di casa in pantofole, bussare trenta volte alla porta accanto e dire al vicino che quello che stava facendo era fuori di testa, ignorando quella voglia bruciante di sapere chi c’era dall’altro lato del muro e offrirgli un pasticcino, una candela e una cena con l’uomo migliore sulla faccia del pianeta, ma non lo fece. Non che avesse paura, eh, non aveva nulla di cui avere paura. Atsumu aveva fascino, umorismo scoppiettante, delle belle labbra e arguzia da vendere. E fu proprio l’arguzia a convincerlo a sporgersi verso la pila di libri, afferrare il cellulare e chiedere all’assistente di riconoscere il brano riprodotto.
Venuto a conoscenza che quella era la sonata a Kreutzer di Beethoven, appuntò il titolo su uno strappo di carta abbandonato sui libri e tornò a dormire.
Due ore dopo, l’altoparlante lo svegliò di nuovo.
Questo è l’ufficio del quartiere di Chuo. Siete pregati di rimanere in casa e astenervi dall’uscire.

***
 
Shouyou Hinata viveva la vita una passione bruciante alla volta. Il mondo era diviso tra quello che gli faceva spalancare gli occhi e gli entrava nel cuore e quello che si rifletteva nelle sue pupille giusto il tempo in cui lo guardava. Non aveva senso affannarsi per qualcosa che in fondo non si voleva afferrare con ogni fibra del proprio corpo, qualcosa per cui non valesse la pena squarciarsi e poi ricomporsi.
Questo rendeva Hinata una persona particolarmente e inaspettatamente selettiva. Avrebbe potuto parlare per sette ore di un match di pallavolo. Non sarebbe riuscito a reggere quindici secondi di conversazione sull’economia giapponese. Avrebbe potuto tenere una conferenza approfondita sulla sola corda del mi del suo violino. Non avrebbe superato i quindici secondi di reel su Instagram se gli avessero chiesto di parlare di giardinaggio. Avrebbe potuto passare quarantasei ore di ininterrotta condivisione di ossigeno con Yachi o Kageyama. Avrebbe accarezzato l’idea di uccidersi per un pugno di attimi di contatto visivo con Ushijima Wakatoshi.
Alla sua lista di antipatie totalizzanti e immanenti, quella notte, si aggiunse il suo vicino di appartamento. Uno che non aveva mai visto e che aveva comunque deciso di mostrarsi per quello che era: uno stronzo.
Il pezzo si diffuse attraverso il muro come se l’avesse sognato. Hinata si alzò a sedere di scatto, nel mare agitato e ondeggiante delle sue coperte e, com’era ovvio, andò a sbattere con la testa contro il soffitto. L’appartamento di Hinata era stato pensato come ufficio, evidentemente, perché l’unico posto in cui si poteva pensare di mettere un futon era su un soppalco alto un metro, centimetro più centimetro meno. All’inizio aveva pensato che fosse figo, in quel momento pensò di voler uccidere qualcuno. Il vicino magari.
Ancora dolorante, si passò il retro della mano sugli occhi, spazzando via il sonno che stava per conquistare.
Lanciò un’occhiata all’orologio sul comodino (nel caso in cui qualcuno se lo stesse chiedendo, era un comodino molto basso). In quell’istante preciso, le 11:59 cedettero il posto a una mezzanotte tonda e derisoria.
Dall’altra parte del muro, la sonata a Kreutzer di Beethoven gli parve uno scherzo. E in effetti lo era. Il pezzo era eseguito bene, benissimo in realtà, così bene che doveva essere il video su youtube che aveva visto anche lui per prendere ispirazione, quando aveva iniziato a impararla.
L’ultima cosa che voleva era riascoltare i pezzi che aveva imparato per l’esame che aveva sostenuto quel giorno. La sua esercitazione di quella mattina doveva aver indisposto il vicino, che adesso si stava vendicando. Molto maturo, soprattutto molto comprensivo.
Si schiacciò una mano sulla fronte quando il ritmo della sonata si fece più sostenuto e violino e pianoforte si scontrarono come una coppia di sposi capricciosa. Poi Shouyou si lasciò cadere nuovamente sul letto e chiuse gli occhi, la linea delle labbra un nervoso percorso a zig-zag.
 
 
***

 
Poiché pare che oggi si parli solo di gente che si sveglia, concentriamoci su un’altra Bella Addormentata.
Kiyoomi Sakusa aveva raggiunto il nirvana.
La sveglia trillò alla sua sinistra, quel venerdì mattina alle sei, mentre, da qualche parte, lontano (lontanissimo) da lì, un violinista svegliava un fotografo con la sua musica. Sakusa aprì gli occhi sul suo soffitto bianco, alzò un braccio e, con un movimento strano del polso, spense la sveglia.
Poi si alzò.
Il silenzio era spezzato solo dal canto imprevedibile degli uccelli e un mondo che ancora russava.
La casa era pulita e lo erano anche tutti gli altri.
Al contrario di quanto si potrebbe pensare, infatti, l’arrivo di una pandemia non era affatto l’incubo di tutti quelli che avevano qualche declinazione di problema con lo sporco, le malattie o entrambi. Era tutto l’opposto. L’intera popolazione mondiale faceva adesso quello che Sakusa aveva fatto per tutta una vita.
Se vuoi parlare con me devi alzare una mascherina, se mi vuoi toccare devi igienizzare la mano, anzi magari evitare del tutto. Se vuoi fare le cose bene, devi pulire, spendere in prodotti che funzionino e uscire solo per comprare lo stretto necessario, mantenendoti a un metro (o più, facciamo più) dagli altri.
A quel punto il mondo lo capiva ed era impossibile che un occhio critico si posasse su di lui, bollandolo come pazzo.
Perché adesso erano pazzi tutti, perché adesso lui si mischiava nella folla.
Dunque Kiyoomi Sakusa aveva raggiunto il nirvana e, contagi a parte, forse per lui si stavano finalmente aprendo nuove porte e scorciatoie entusiasmanti.
A volte, per quanto fosse doloroso, bisognava liberarsi di tutto quello che aveva una tendenza anche solo involontaria di tenere ancorati al terreno, per volare più in alto.

***
 
Quando si viveva tutta la vita tranquillamente, le magie diventavano storie sensazionali raccontate per passa-parola.
Atsumu aveva avuto una vita normale, che aveva fatto di lui una persona normale. La normalità viene spesso vista come assenza di cambiamento, ma non è così che stanno le cose. La normalità sta nella gradualità di quel cambiamento e Atsumu era sempre scivolato da una fase all’altra della sua vita, diluendola.
Era andato a scuola, era diventato quello antipatico che un giorno prendeva il massimo dei voti in matematica, il giorno dopo faceva dignitosamente schifo. Si era innamorato un pochino, aveva baciato una ragazza intelligentissima, ci aveva fatto sesso. Aveva baciato un ragazzo stupidissimo, ci aveva fatto sesso lo stesso. Aveva rotto con un’altra ragazza, aveva preso una storta cadendo da un muretto mentre scappava dal proprietario di una pasticceria per aver rubato un anpan. Suo zio era morto, era andato al funerale anche se l’aveva visto due volte in croce. Aveva giocato a pallavolo, poi aveva smesso, poi aveva iniziato a lavorare con Osamu. Aveva contemplato l’idea di mettersi a studiare, l’aveva abbandonata, si era appassionato alla fotografia e aveva iniziato a bruciare foglie e innaffiare rametti.
Poi da qualche giorno la sera beveva.
Grandi e piccoli eventi della sua vita si erano susseguiti in una lista che poteva diventare sensazionale solo se accadeva a ritmo serrato. E non era successo. Ascoltava storie strepitose di persone che avevano perso il bus e avevano incontrato l’amore, avevano sbagliato strada e si erano involontariamente salvate la vita. Aveva sentito parlare di incontri fortuiti, annodamenti di fili di vita sconcertanti per la casualità annichilente di cui erano imbevuti e si era sempre ricordato: ‘Non a te’.
Non a te, perché non ti succede mai niente.
E non ne aveva bisogno, comunque.
Aveva una vita fantastica, cucita su misura di un corpo fantastico, un viso fantastico, una personalità fantastica. Era una persona fantastica a cui le cose venivano fantasticamente semplici.
Era facile flirtare, era facile gioire, era facile mangiare e non ingrassare, era facile sognare, era facile allungare una mano e subito ottenere. Era facile parlare, era facile chiamare la pizza senza pregare che lo facesse qualcuno per lui, era facile dormire, era facile scopare. Era facile sbagliare, era facile ubriacarsi e prenderci la mano, era facile sentire quel silenzio immanente e incolore, era facile chiamare Osamu e dire che semplicemente quel giorno non ce la faceva e sentirsi dire che doveva muovere il culo e anche subito.
Era tutto facile e andava benissimo così.
Le cose non succedevano a lui, lui era quello a cui le cose venivano raccontate, era quello che dopo diceva: ‘ma davvero? È successo davvero?’ e rideva incredulo mentre quelli a cui le cose succedevano rispondevano: ‘Sì, bello, credici o no è successo davvero’.
Le persone a cui non succede mai niente non lo sanno, ma arrivano a ottant’anni, si guardano indietro e capiscono che erano sempre stati immersi in queste fantomatiche ‘cose’. Scoprivano che avevano avuto una vita piena zeppa di cose e che, semplicemente, non avevano prestato attenzione nell’attimo in cui queste si erano trasformate in un’occasione da cogliere.
Ma Atsumu non aveva ottant’anni. Non in quel momento, in ogni caso, e quindi sospirò e schiacciò con una nocca il pulsante dell’ascensore che l’avrebbe portato al pian terreno.
Si era vestito sulle note di Smoke on the water, sparata al massimo volume sia perché decomprimeva quel silenzio e lo colorava di un azzurro tenue, sia perché così, se qualcuno negli appartamenti vicini avesse sentito che ascoltava buona musica, l’avrebbe preso per un intenditore. Intenditore che non era, per inciso, ma gli altri non l’avrebbero mai saputo.
Nel caso in cui moriste dalla voglia di sapere chi diavolo fossero questi altri, non temete, la risposta è tale e quale a quella che vi fa smettere di scatenarvi davanti a uno specchio:
gli altri.
I famosi altri.
Quel gruppo di occhi senza volto che non facevano che fissare, attendere di vedere il marcio e la debolezza. Quel gruppo di entità pronte a giudicare sempre e comunque, come se non ci fosse alcuna differenza tra un riflesso e una folla, un obiettivo di una macchina fotografica e il soggetto da fotografare.
L’ascensore iniziò a chiudere le porte per portarlo di sotto. Era rimasta solo una fessura quando Atsumu udì il rumore di una porta di un appartamento che sbatteva, sul pianerottolo.
Le porte si chiusero prima che potesse identificarne il proprietario. Atsumu avrebbe potuto infilare una mano nella fessura, rischiare di procurarsi una frattura, fare un piacere a un vicino in difficoltà e aspettarlo. Avrebbe potuto, ma fondamentalmente era uno stronzo egoista, e quindi non lo fece.
Si diresse all’esterno dell’edificio e respirò aria inquinata e rancida. Meravigliose fragranze cittadine. Poi si avviò al parcheggio e si preparò alla favolosa passeggiata in motorino che l’avrebbe portato al ristorante di Osamu. Il suo motorino, però, aveva la strada sbarrata da una bicicletta rossa. Un catorcio di bicicletta rossa.
“Ehi!” gridò uno alle sue spalle. Non era un saluto, aveva lo stesso suono di un insulto. Atsumu si voltò in tempo per notare un ragazzo col fiatone che veniva verso di lui. Le chiazze rosse sulle tempie e sotto gli occhi svelavano le guance chiazzate di rosso che doveva nascondere sotto la mascherina. Riconobbe con un attimo di ritardo che era il mandarino.
Il motivo per cui lo riconobbe in ritardo era che era stato troppo distratto dal colore della sua voce.
Rimase a guardarlo mentre lui abbandonava una mano sul ginocchio destro, per riprendere fiato, e utilizzava la sinistra per puntargli un dito contro. “Ti serve aiuto?” domandò beffardo Atsumu, nel tempo in cui lui cercò di riprendersi. Aveva l’aria di uno che avesse corso dalla cima dell’edificio al piano terra in un tempo record che nessuno aveva cronometrato. 
“Quella è la mia bicicletta” gli fece notare il ragazzo – Shouyou? – un’osservazione del tutto superflua, secondo il parere di Atsumu. Ora, a proposito del parere di Atsumu, lui aveva un problema. Non era neanche una cosa che sfociava nel sadismo, più un gioco a cui era fortissimo. Se le persone si irritavano a causa sua, e Atsumu riteneva che fosse il caso, adorava punzecchiarle, vederle sputacchiare dal nervoso per le sue risposte insolenti.
Quindi Atsumu ritenne sì che il proprietario della bicicletta fosse carino, con i ciuffi spettinati e le guance rosse per la corsa, ma che fosse ancora più interessante infastidirlo.
Avete presente quando vi dicono: ‘la gente non si sveglia certo la mattina per dare fastidio a te’? Ecco, Atsumu Miya si svegliava la mattina esattamente per fare quello, invece, era una specie di istinto, di rituale: c’era chi meditava, lui importunava.
“Be’, visto che stiamo elencando le proprietà... Questo” ribatté Atsumu, ruotando una mano e alludendo allo spazio attorno a loro, “è un parcheggio. Ed è condominiale,” poi allargò un braccio a comprendere il mondo intero e proseguì: “mentre quella che c’è là fuori è una strada. Ed è pubblica. Quello è un gatto, è della signora...”
“Stavi cercando di rubarmi la bicicletta?” domandò Shouyou, come se Atsumu non avesse detto niente. La risposta fu così fuori contesto da spiazzare anche uno come lui, che di risposte era il re.
“Come scusa?”
“Stavi cercando di rubare la mia bicicletta?”
Atsumu guardò il ragazzo come se gli fosse spuntato un cartello sulla testa che leggeva ‘sono stupido’. Chiunque avesse affisso il cartello aveva buon occhio, pensò. “Questa è una bicicletta? Mi sembra più ferraglia.”
Il ragazzo gonfiò le guance. Adorabile, davvero, sembrava volesse fare a pugni. “Be’, se non vuoi rubarla io me la…” aggunatò la bici per il manubrio e se la tirò addosso con una rapidità sconcertante e, di nuovo, completamente superflua, “me la riprendo” concluse.
Se non vuoi rubarla. Ad Atsumu sembrava di essere in presenza di una mosca.
“Sei un fotografo?” gli domandò Shouyou all’improvviso, accennando col capo alla sua borsa. Spinse la bicicletta un po’ più avanti, portò una gamba dall’altro lato per mettersi in sella e si voltò a guardarlo, ma non prima che Atsumu potesse abbassare lo sguardo sul suo sedere. Aveva degli occhi, tanto valeva usarli.
“Solo quando vedo qualcosa che mi piace” ribatté, allacciando lo sguardo al suo.
Il ragazzo assottigliò gli occhi e scosse la testa. Poi alzò la mano in segno di saluto e partì. “Non provare a rubarmi più la bicicletta!” gridò nel vento che si era lasciato dietro.
Ad Atsumu venne voglia di distruggerlo.

***
 
Quando si viveva tutta la vita a mille, le magie si posizionavano sullo sfondo, in una routine che faceva di loro eventi ordinari.
Shouyou aveva avuto una vita normale, ma l’aveva vissuta in maniera eccentrica, alternando periodi di cambiamenti radicali a periodi di assestamento. Questa era una cosa che mandava qualunque forma di gradualità a farsi benedire.
Era andato a scuola. Non aveva mai preso un buon voto in matematica finché Yachi non gli aveva fatto prendere un ultimo voto altissimo, inimmaginabile. Ma ha copiato? In tutta onestà, se l’era chiesto anche lui.
Si era innamorato un sacco, non aveva baciato il ragazzo di cui si era innamorato. Aveva deciso che era un idiota. Era entrato in un club, aveva bevuto, aveva fatto sesso, se n’era dimenticato. Nessuno era mai morto, finché non l’avevano fatto i vicini. Tutti insieme, dall’oggi al domani, in un incidente stradale. Non era andato al loro funerale, in compenso era andato al funerale di uno sconosciuto: una donna l’aveva visto per strada e l’aveva scambiato per un amico di vecchia data del morto. Si chiamava Satou, aveva diciott
anni e si era suicidato. Il ragazzo, non la mamma. Guardando la fotografia, aveva scoperto che era il tizio nel club con cui aveva fatto sesso. Alla donna non l’aveva detto, perché la ragazza di Satou piangeva in un angolo e tutti si chiedevano cosa l’avesse spinto a compiere un gesto tanto estremo, visto che era felice. Hinata aveva a stento sfiorato la vita del morto, ma era l’unico che potesse immaginare perché. Pensò che avrebbe almeno voluto chiedergli come stava.
Aveva giocato a pallavolo, poi aveva smesso per qualche mese a causa di una distorsione al polso. Nell’ufficio del fisioterapista, aveva visto una foto di un violino, forse lì per supporto morale, come a dire: ‘i tuoi polsi riprenderanno a funzionare!’ Aveva iniziato a studiare musica, non l’aveva più abbandonata, aveva continuato a catalogare le persone in base al ruolo che avrebbero potuto ricoprire nella pallavolo, ma non l’aveva mai fatto con gli strumenti musicali che più si addicevano loro.
Poi da qualche sera riempiva cruciverba.
Andava tutto a meraviglia, in effetti, perché se lo concedeva. Shouyou aveva scelto di non tornare a casa durante l’emergenza perché sua madre avrebbe dovuto lavorare da casa ed esercitarsi, studiare e sostenere esami a distanza, per lui, sarebbe stato semplicemente impossibile. Yachi gli aveva parlato dell’appartamento che aveva trovato, del fatto che ce ne fossero vari disponibili nello stesso complesso di edifici e puf, la soluzione era davanti a lui, facile e indolore se solo decideva di mostrarsi mentalmente elastico.
Alle sue condizioni, sicuro, ma elastico.
Le cose semplicemente gli succedevano. Qualcuno diceva che era perché se le andava a cercare, perché più vai in giro e scopri il mondo, più questo suonerà una musica familiare. Perché se ti fai un amico in Brasile, c’è una possibilità su un milione di incontrarlo per caso in una strada giapponese, ma il primo passo è uscire di casa.
E Hinata si lasciava sorprendere.
Alle sue condizioni, sicuro, ma si lasciava sorprendere.
Non fu una sorpresa, invece, la fila al minimarket. Poiché nessuno poteva entrare e vagare per tempi indefinibili per le corsie del negozio, i clienti comunicavano uno alla volta la spesa ai commessi fermi all’entrata. Qualcuno, dall’interno, collezionava i prodotti e i cassieri comunicavano il totale.
Tutta questa manfrina per dire che c’era una fila che partiva qui e ricalcava il percorso della muraglia cinese. C’era un marziano, in vacanza su Saturno, che vedeva quel serpente di umani che attendevano di fare la spesa. Era una fila luuuuunghissima che contava più o meno una ventina di persone, ma quando eri Hinata Shouyou non c’erano altri numeri tra uno e cinquecento miliardi, quindi si parlava per iperboli.
Hinata, durante quello strazio, ebbe quindi tempo per pensare. Pensò ai due vicini che aveva conosciuto: quello che voleva rubargli la bicicletta e lo sconosciuto al di là della porta, per cui aveva una sorpresa. Oh, chi aveva detto che Shouyou era un ragazzo tenero e dal cuore d’oro? Bastava sottintendere una sfida, per accendere la sua miccia.
Vivere così forte era stancante.

***
 
Atsumu aveva fatto proprio una bella foto, due giorni prima.
La primavera era arrivata in punta di piedi, poi aveva iniziato a camminare a passo sostenuto e ora correva accelerando verso l’estate. Atsumu aveva scattato la fotografia all’ombra di un acero giapponese. Mostrava il fiume Sumida, sporcato dalle foglie rosse che si insinuavano nell’inquadratura dall’albero alle sue spalle. Silhouette di grattacieli senza nome torreggiavano sullo sfondo come guardiani dormienti. La luce tenue degli attimi successivi al tramonto dava alla scena un’aria apparentemente nostalgica. Sotto tutta quella staticità, però, la fotografia era cruda e ruvida, sembrava la pelle sotto una bruciatura, un vulcano quiescente, ma ancora per poco. Se uno spirito si fosse attardato all’orecchio di Atsumu mentre la scattava (e sono mentre, non un attimo prima, non un attimo dopo) e gli avesse chiesto: ‘come ti senti?’, lui avrebbe tenuto l’occhio aperto lì dov’era, il dito che si abbassava sul pulsante, e avrebbe detto: ‘arrabbiato’.
Ma nessuno spirito si era attardato al suo orecchio.
“Uhm…” mormorò Atsumu, portandosi una nocca alle labbra e inclinando il viso su un lato. Giocò con la saturazione e i contrasti finché le foglie d’acero non scapparono al buio e si mostrarono in una cascata di rosso scuro che incorniciava il paesaggio.
Poi incrociò le braccia al petto, si abbandonò sullo schienale della sedia e la guardò. Vista così, quella fotografia pareva uno scorcio di mondo circondato da un appartamento bianco, piccolo e silenzioso. Si rese conto che il ticchettio del mouse, fino a qualche attimo prima, sembrava l’unico suono per chilometri.
Ruotò la fotografia quattro volte in senso orario, facendola tornare nella posizione iniziale, solo per strangolare quel silenzio.
Poi si alzò per andare al frigorifero. Un frigo che piangeva meno del giorno prima e meno anche del giorno dopo. Stava per prendere una birra, quando del rosa si stagliò contro il vuoto.
Atsumu si voltò verso la parete del letto così in fretta che credette di averlo fatto prima che arrivasse il suono. Pensò di averne percepito la vibrazione.
Qualche secondo dopo, riconobbe Smoke on the water, che fatta al violino sembrava una premonizione infausta o l’inizio di una saga epica.
Gli scappò un sorriso prima che potesse darsi del completo coglione – chi diamine sorrideva a un muro?
Poi gli scappò una risata e questa volta riuscì a darsi del completo coglione in tempo, ma con le attenuanti. Le attenuanti erano che quella non poteva essere una vera risata, perché erano più malfunzionamenti d’aria, bolle che erano risalite per qualche strana questione di gravità su per la gola e che era stato costretto a espellere con una risata.
Le risate non funzionavano così, no? Le risate non erano bolle, erano più simili a starnuti.
Faccio una battuta esilarante, dunque rido.
Osamu si rende ridicolo, dunque rido.
Voglio assolutamente farmi questa persona che non conosco e ha fatto una battuta che non fa ridere, dunque rido.
Il cliente sta per darmi una mancia generosa e ha fatto una battuta che non fa ridere, dunque rido.
L’unica persona che abbia mai significato qualcosa per me mi sta dicendo che siamo incompatibili e che non abbiamo futuro. Devo difendermi, dunque rido.
E avrebbe potuto continuare.
La risata di Atsumu si trasformò in un ghigno. Aveva il tempo di darsi del completo coglione anche sette volte, ma era troppo fiero della sua idea, per mettersi a litigare con se stesso o con la versione ibrida di se stesso che condivideva con suo fratello nella sua testa.
Il vicino voleva la guerra? Atsumu non gliel’avrebbe data. I suoi giochi mentali non si basavano sull’ostilità, ma sul negare agli altri quello che volevano più ardentemente. Se il violinista voleva odio, Atsumu gli avrebbe dato una battuta.
Richiuse il frigorifero sbattendo l’anta e si lanciò al computer. Aprì youtube, maledicendo per la millesima volta la velocità di quel catorcio e riuscì, in un tempo che per il suo pezzo di antiquariato tecnologico era record, a rendere disponibile la barra di ricerca.
Alzò il volume al massimo e lasciò che We are the champions gli sfondasse i timpani. La fece suonare per trenta secondi che sembrarono trentamila, poi mise in pausa il video.
Attese in silenzio per qualche attimo, poi un violino riprese la canzone laddove la performance su youtube aveva smesso. Si mise a ridere, schiacciando la faccia nel gomito, e si riempì d’orgoglio al pensiero che quell’assenza di silenzio, per una volta, non fosse uno spezzone di conversazione altrui che passava per caso davanti alla sua porta, ma era tutta sua.
Il violinista dall’altra parte del muro si acquietò, ma il silenzio non era più assoluto, non era più permeante. Invece era attesa, raggomitolato negli istanti di sorriso anticipato in cui Atsumu digitò ‘Macarena’ nella barra di ricerca e costrinse il povero violinista a suonare come un gatto sofferente. Non gestì bene il cambio di tono che si trovava a Eeee, macarena e da gatto passò a film horror nel momento più splatter.
Atsumu non perse un attimo e YMCA fu il risultato a cui portarono i sicuri anni di studio del vicino.
Poteva avere vent’anni come settanta, Atsumu sentì il bisogno di conoscerlo e, in base all’età, offrirgli una birra o un té. O un té e una birra. E
fanculo coronavirus, stato d’emergenza e compagnia bella.
Nel momento esatto in cui concepì quella simpatia, Atsumu si detestò, poi si ricordò di essere perfetto e diresse la sua rabbia verso il vicino.
Fottuto stronzo presuntuoso che si dava arie perché sapeva strimpellare uno strumento alto mezzo metro e un cazzo e con quattro corde in croce.
Atsumu era così arrabbiato, ma così arrabbiato, che quella sera non toccò neanche una birra.






 
Note di ElCiaoo a tuuutti! Smoke on the water, se credete di non conoscerla, sappiate che la conoscete. Quella che suonano tutti quelli con una chitarra elettrica e che fa sdeon sdeon sdeeon sdeon sdeon sdedeon sdeon sdeon sdeon sden-deon, capito? Vabbè, comunque sì, questa storia è molto lenta e sembra che non faccia progressi, ma purtroppo o è così o non ha senso, gente, si basa tutta sull'anonimato :(
Grazie per aver letto anche questo capitolo e aver inserito la storia dove sapete voi (INTENDO NELLE LISTE!) ci vediamo tra due settimane, ma è l'ultima volta che passa così tanto tempo tra due aggiornamenti!
Aaaaddio.
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Haikyu!! / Vai alla pagina dell'autore: time_wings