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Autore: Sweet Pink    27/10/2021    4 recensioni
Impero Britannico, 1730.
Saffie Lynwood e Arthur Worthington non si potrebbero dire più diversi di così: freddo quanto implacabile giovane Ammiraglio della Royal Navy lui, allegra e irriverente ragazza aristocratica lei. Dire che fra i due non scorre buon sangue è dire poco, soprattutto da quando sono stati costretti a diventare marito e moglie contro la loro stessa volontà e inclinazione!
Entrambi si giurano infatti odio reciproco, in barba non solo al fatto di essere i discendenti di due delle più ricche e antiche famiglie dell'Impero, ma pure alla vita che sono sfortunatamente costretti a condividere.
Eppure, il destino non è un giocatore tanto prevedibile quanto ci si potrebbe aspettare, poiché sono innumerevoli i segreti che li tengono incatenati l'uno all'altra; segreti, che risalgono il passato dei Worthington e dei Lynwood.
E se, con il tempo, i due nemici si scoprissero più simili di quanto avrebbero mai immaginato, quale tremendo desiderio ne potrebbe mai derivare?
Genere: Romantico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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Avvertenza: Il seguente capitolo affronta tematiche sensibili quindi, per favore, procedete nella lettura con cautela.

Io sarò ad aspettarvi nel mio Angolino, a fine lettura.

Grazie mille.




CAPITOLO SETTIMO

PREDE E PREDATORI




Non c’era più alcun dubbio: il puntino sfocato che solcava le acque scure stava avanzando dritto nella loro direzione, diventando di minuto in minuto più grande e definito. Un nero vascello dalle dimensioni piuttosto imponenti correva infine verso l’Atlantic Stinger, e sembrava avere tutte le intenzioni di piombare loro addosso.

Senza lasciar trasparire alcun tipo di emozione, Arthur Worthington accettò l’elaborato cannocchiale che il capitano Henry Irving gli porse e vi scrutò dentro in pensoso silenzio. Attraverso la lente dell’apparecchio, il suo sguardo poté però cogliere alla perfezione non solo il brulicante viavai galvanizzato di marinai male in arnese, ma pure una bandiera che veniva issata tra risate e urla di guerra.

E si trattava di una bandiera nera.

Un disgusto nauseabondo gli risalì bruciante nella gola, seppure gli angoli delle sue labbra sottili si piegarono all’insù impercettibilmente.

“Hanno issato la Jolly Roger” disse dopo poco, ancora senza alcuna particolare inflessione di tono.

Dietro di lui, si fece sentire la voce entusiasta e ammirata del giovane tenente James Chapman: “È andata proprio come pensavate, Ammiraglio!” esclamò il ragazzo, con grande soddisfazione “Eravamo realmente inseguiti dalla Mad Veteran!”

“Sconsiderato da parte loro attaccare una nave da guerra, contando la nostra potenza di fuoco.”

“Il loro capitano deve essere un vero folle: non battiamo alcuna bandiera che indichi la presenza di un Alto Ufficiale, ma è pur vero che l’Atlantic Stinger non assomiglia per nulla ad un vascello mercantile.”

Arthur Worthington ignorò i commenti perplessi dei sottoposti riuniti sul ponte di comando, poiché non erano di certo informazioni né nuove, né importanti per lui. Difatti, una smorfia di crudele aspettativa sembrò profanargli il volto attraente all’improvviso; ed era quel genere di espressione che solo chi aveva combattuto al suo fianco poteva dire di aver imparato a riconoscere.

Perfetto” sussurrò l’ammiraglio, senza riuscire a trattenere un sorriso di famelica malvagità. “Preparate gli uomini, capitano: aspettiamo visite.”

Come a voler confermare la sua tesi, il coro di urla fanatiche e belluine che prima poteva solo udirsi in maniera impercettibile si fece più vicino e chiaro, mentre la nave pirata si approssimava alla loro.

Il tenente Chapman alzò un sottile sopracciglio chiaro, gli occhi grigi specchio di ironia e ilarità. “Sentite come sono carichi!” commentò, incrociando le braccia al petto con eleganza. “Quella feccia pensa veramente di poter aver ragione su di noi?!”

Henry Irving fece un lieve cenno silenzioso con la testa imparruccata a due tesi sottotenenti che, senza perdere un attimo, girarono i tacchi e sparirono di corsa nei ponti inferiori; i suoi occhi sempre ridenti comunicavano ora una serietà inflessibile mentre, corrugando la fronte, si voltava in direzione dell’imponente figura di Arthur. “Siete sicuro di voler combattere, Ammiraglio?” chiese, in tono piatto e apparentemente casuale “L’Atlantic Stinger è un vascello molto veloce, pensato per azioni di mobilità agile. Possiamo ancora affondare quella nave o, nel caso, seminarla.”

Di tutta risposta, l’uomo preso in causa chiuse il cannocchiale con un gesto secco e si girò a sua volta, piantando due limpidi fanali verdi sul viso del capitano che, inconsapevolmente, si irrigidì di colpo. Non aveva sprecato alcuna parola, eppure l’ammiraglio era riuscito a comunicargli tutta la sua glaciale determinazione solo con un’unica ferma occhiata.

Dietro le ampie spalle di Worthington, James Chapman guardò Inrving come se quest’ultimo fosse impazzito di botto e avesse cominciato a sragionare.

“La Mad Veteran è il vascello da guerra appartenuto al defunto Seymour Porter, l’uomo che l’anno scorso si è ammutinato contro di noi, rinnegando così i suoi doveri di corsaro della Corona” spiegò infine Arthur con calma granitica, porgendo il cannocchiale ad un onoratissimo tenente Chapman. “Ora che hanno commesso il grave errore di mostrarsi, non perderò di certo questa opportunità. Quella nave è veloce quasi quanto questa e io la voglio.”

“Dite di volerla…per l’Impero, o per voi?”

“Entrambe le cose. C’è altro?”

Gli occhi seri di Arthur erano pervasi da un’emozione costituita di puro e irrefrenabile desiderio, adamantina forza di volontà; ed Henry Irving ebbe modo di comprendere che ogni opposizione sarebbe stata vana contro l’inamovibile ambizione dell’ammiraglio: un leggero brivido di soggezione corse lungo la spina dorsale del capitano, mentre a quest’ultimo venne da pensare – quasi a tradimento – che sul fondo di quelle iridi verdi si nascondeva ben più di quanto Worthington lasciasse intendere.

“Era questo dunque il vostro intento?” osò quindi chiedere, deglutendo a fatica. “Ieri avete dato ordine di rallentare la velocità di navigazione…è a questo che miravate?”

Un ghigno disumano, di beffarda intelligenza, si palesò sul volto dell’uomo di fronte a lui che commentò, in maniera vaga: “L’Atlantic Stinger è un vascello costruito per inseguire, non essere inseguito”.

Senza aspettare risposta alcuna, cominciò poi ad avviarsi verso le scalinate che conducevano ai ponti inferiori, raggiungendole in pochi grandi passi. Sotto di loro, un viavai di soldati in divisa provvedeva a mettersi in posizione lungo la linea di fuoco, imbracciando con tesa solerzia i lunghi moschetti, pronti a dare il benvenuto agli schifosi criminali in arrivo; mentre, dei restanti marinai, la maggior parte stringeva tra le mani spade o coltelli dalla fattura rozza e in muto silenzio si preparava alla battaglia imminente, a malapena smossi dalla potente voce di un Shaoul Brown più carico che mai.

Arthur si fermò in cima alle scale, voltandosi per l’ultima volta indietro. La sua chioma scura e ribelle si agitava sul viso trasformato in una maschera di letale brutalità, ed egli parve proprio la rappresentazione di un terribile diavolo. “Che non sia sparato un solo colpo di cannone. Farò mia la Mad Veteran senza che ne venga danneggiata una sola parte.”

È questa mia sfrenata ambizione ciò che più amo, questo mio dovere incorruttibile, che inghiotte tutto il resto.

“Bene” rispose infine Henry Irving, stiracchiando le labbra in un sorriso tanto storto quanto teso. Gli pareva quasi di star parlando con la notte stessa e fu forse per questo motivo che un sudore ghiacciato si impossessò di lui: il combattimento era questione di minuti ed era chiaro che il famoso Generale Implacabile non avrebbe perdonato nessun errore.

“Bene” ripeté ancora, mentre decideva di accostarsi all’elaborato timone della sua nave, dove un pietrificato signor McCavoy osservava la scena pallido come un cadavere vivente. Il capitano agitò appena una mano nella sua direzione e il fido timoniere si fece subito da parte, lasciandogli il posto con un rigido inchino deferente. “Se dobbiamo farlo, allora che sia un lavoro coi fiocchi” disse, afferrando i pomelli con tranquillità, sebbene l’occhiata che lanciò in direzione di Arthur comunicò più che altro livida concentrazione. “Prenderò io stesso il comando.”

Il ghigno stampato sul viso di Arthur sembrò allargarsi in maniera indecente.

“Era ciò che pensavo, capitano” commentò, prima di girarsi e scendere velocemente i gradini, seguito a ruota da un improvvisamente ansioso James Chapman. Il giovane tenente se ne stette in silenzio fino a metà scalinata ma, incapace di trattenersi oltre, osò chiedere: “Farete parte della prima linea, signore?”

Un silenzio strano fece seguito alla domanda del ragazzo che, perplesso, alzò timoroso gli occhi grigi sull’alta figura al suo fianco: non era una novità che l’ammiraglio non gli rispondesse – ormai ci aveva fatto l’abitudine – quanto piuttosto il fatto che si fosse fermato di botto, come se si fosse ricordato di qualcosa all’improvviso.

“Signore?”

Gli occhi glaciali dell’uomo erano però fissi in avanti, inchiodati con evidente rabbia su un punto imprecisato a prua dell’Atlantic Stinger.

“Quella maledetta ragazzina.”

Si era trattato di un sibilo da serpente a sonagli, schietto e velenoso, ma ebbe l’effetto di far tremare persino il cuore del fedele James che voltò nervosamente il viso, non senza una buona dose di improvvisa agitazione. Non gli ci volle effettivamente molto per inquadrare la piccola sagoma della testarda signora Worthington: ignorando del tutto gli ordini del marito, la ragazza era un puntino celeste sperduto nella caotica organizzazione dei preparativi, ma la vera disgrazia stava nel fatto che si fosse trasformata in un bersaglio fin troppo visibile, una preda inaspettata e ambita.

“E se decidessi che non è così? Se non volessi sottostare ai tuoi ordini?”

L’ira contenuta nelle iridi chiare di Arthur sembrò mutare in genuino disprezzo mentre, a labbra serrate, osservava Saffie girarsi atterrita in direzione del ragazzo di bordo e sussurrargli parole misteriose; gli occhi dell’uomo saettarono poi sulla Mad Veteran: la nave era talmente vicina da essere a tiro dei cannoni dormienti. Non c’è tempo.

In fondo, che ti importa di lei?

È il potere che conta davvero.

Per l’ennesima volta, si trovò a considerare l’ammiraglio, sua moglie rappresentava l’elemento al di fuori della cornice, l’oggetto estraneo posto sopra una scrivania perfettamente ordinata. Ancora, la dannata Duchessina di Lynwood era colei che portava disastro nella sua perfetta visione delle cose, scombinandogli i piani proprio come aveva fatto fin dal primo momento in cui si erano incontrati.

“Parli proprio tu, grande Ammiraglio…per te Amandine rappresentava solo l’ennesimo trofeo da appendere alla parete.”

Una fastidiosa crepa sulla superficie liscia dello specchio, di quelle che ne deformano il riflesso, e restituiscono un’immagine diversa da ciò che ci si aspetta di vedere.

Poiché credevo di averla seppellita, la persona che ero un tempo.

La collera cieca si contorceva orribile e incontrollata dentro di lui, chiedendogli a gran voce di lasciare la piccola strega al suo destino e così non solo liberarsi di lei ma, sopra ogni cosa, punirla per la vergognosa colpa di cui la riteneva responsabile.

Che perfetta occasione, no?

Arthur la vide chinarsi sul bambino impaurito e prenderlo per mano con dolcezza, cercando di rassicurarlo e contemporaneamente provare ad avviarsi in direzione degli alloggi, quasi come se l’inferno non stesse per abbattersi su di loro. Eppure, lo sguardo attento dell’uomo colse subito l’espressione di muto terrore stampata sul viso grazioso di Saffie; malgrado questo, lei cercava in tutti i modi di sorridere pacata, di non tradirsi di fronte allo sperduto ragazzo di bordo.

“Ma tu verresti a salvarmi, come hai fatto oggi.”

“Maledizione!” sbottò seccato, non sapendo se essere più disgustato di sé stesso o arrabbiato nei confronti della ragazza castana. Con un balzo agile, Worthington saltò gli ultimi gradini della scalinata e – senza far caso ad uno sbalordito tenente Chapman che provava a tenergli dietro – cominciò a correre lungo il ponte sopracoperta, un terribile sguardo inciso nelle iridi smeraldine.

A metà strada, voltò appena la testa scura per sbraitare, in direzione del ragazzo alle sue spalle: “Rimanete qui, per Dio! Non ho bisogno di una balia!” e, dopo aver incontrato lo sguardo colpito di James, aggiunse “Sapete bene ciò che dovete fare”.

Il tenente Chapman fermò i suoi passi e uno strano sorrisetto freddo stirò le sue belle labbra da insolente. “Certo” commentò sottovoce, portando la mano pallida sull’elsa elaborata della sua amata spada; perché, in effetti, pochi sapevano che lui stesso aveva già combattuto diverse volte al fianco dell’ammiraglio, in quegli anni. “Devo ucciderne più che posso.”



§



All’approssimarsi della misteriosa nave e alle grida indistinte che cominciavano ad udirsi provenire da essa, un infimo sudore ghiacciato strisciò sotto la pelle della Duchessina di Lynwood, permeandone i vestiti eleganti e lasciandola preda di un sentimento nuovo, molto simile al terrore cieco.

Incapace di muovere un solo muscolo, la ragazza non poteva fare altro che osservare l’oscuro vascello farsi di secondo in secondo più vicino, tagliando silenziosamente l’acqua come se fosse stata burro fuso, senza effettivamente incontrare alcuna resistenza da parte dell’oceano agitato: a Saffie parve quasi che il mare stesso si preparasse ad essere il perfetto campo di una battaglia imminente, creando un contesto identico a quello dei romanzi d’avventura che piacevano tanto a lei e ad Amandine.

Solo che, questa volta, sta accadendo per davvero.

“No, non ci sarà alcun combattimento” pensò subito la ragazza, serrando con forza le mani tremanti attorno alla balaustra di legno del parapetto, poiché sentiva di avere le ginocchia in procinto di cedere da un momento all’altro. “Siamo ancora in tempo per poterli seminare, non è vero?”

Il cuore martellava forte contro i suoi timpani mentre, stupidamente, Saffie cercava di convincersi che il capitano Inrving e i suoi Ufficiali avrebbero optato per l’attuazione di una strategia difensiva, atta a preservare sia gli uomini che l’incolumità dell’Atlantic Stinger. Eppure, dentro di sé, sapeva già di starsi solamente ingannando.

Perché era solo una, la persona che comandava sul serio.

“… è un rischio che sono disposto a correre volentieri, se ciò significa assicurare una caduta sorda a quei disgraziati.”

Seminarli? Come aveva potuto anche solo pensare un’eventualità del genere?

Ingenua. Arthur Worthington non ha alcuna pietà.

Una stretta micidiale agguantò lo stomaco della ragazza castana, facendole venire un improvviso e nauseabondo senso di vomito imminente: l’ansia penetrava a fondo tra le pieghe della sua anima sperduta, mentre lei continuava a fissare ad occhi spalancati la nave davanti a loro issare una bandiera tragicamente nera.

Il rumore provocato dai battiti del suo cuore impazzito era insopportabile, ma mai quanto il sottofondo incessante dei suoi pensieri spaventati, che rimbalzavano senza alcun ordine da una parte all’altra della sua mente. Si trattava di un indistinto lavorio furioso, tanto tremendo che a Saffie quasi venne da coprirsi le orecchie con le dita, proprio come faceva quando era una bambina piccola e non voleva ascoltare i rimproveri della onnipresente Kitty.

“Hanno issato la Jolly Roger!”

“Maledetti schifosi! Pensano di spaventarci?”

“Che vengano allora!”

Un coro di urla rabbiose esplose dietro le sue esili spalle tremanti, facendola sussultare sul posto con violenza. Il sentimento orribile di cui era preda parve allora ingigantirsi come un’onda fatta di tenebre, da cui non poteva esserci via di fuga. Ci si affogava dentro…morendo sul fondale.

Che devo fare? Non riesco a muovermi. Ci sono tante urla. Devi scappare. Non riesco a muovermi! Moriremo! Voglio tornare a casa. Nasconditi! Perché non riesco a muovermi? Voglio vedere mio padre. Sciocca, sciocca, sciocca! È colpa di Worthington! No, tu meriti questo!

Saffie serrò le palpebre di scatto, deglutendo a fatica. Cercava di nascondersi, ma tutto sembrava essere inefficace contro l’essere orribile partorito dal vortice ininterrotto dei suoi stessi pensieri: immersa nell’oscurità accecante del suo animo, la paura di morire se ne stava a fissarla con due crudeli occhi di fuoco.

Il tremore delle sue piccole mani si fece più intenso, e fu un movimento violento che prese a scuoterla tutta, andando a pari passo con le urla attorno a sé, l’odore nauseabondo di polvere da sparo e la sensazione angosciante di imminente pericolo. Che devo fare?

Non voglio morire!

Una pallida manina si poggiò con delicatezza sulle sue dita fredde e Saffie Worthington aprì gli occhi sul vuoto. La ragazza castana si voltò lentamente in direzione della persona che l’aveva toccata, stampata sul viso grazioso l’espressione stravolta di un animale in punto di morte: il giovane ragazzo di bordo era ancora in piedi al suo fianco e, non solo non era scappato a gambe levate, ma i suoi occhi turchese la guardavano con ansia crescente, come se si aspettasse da lei una illuminazione divina.

“Che facciamo?” pigolò infine, stringendo le sue piccole dita attorno a quelle di Saffie.

Come se fosse stata una pazza, l’immagine fugace delle labbra nervose di Amandine le galleggiò davanti per un secondo.

“Saffie! Oddio, che agitazione! Come farò?”

Il bambino aveva lo stesso incredibile sguardo di sua sorella minore e le stava chiedendo aiuto. Era indifeso, impaurito, e aveva bisogno di lei perché – in mezzo a tutti quegli adulti che si erano scordati della sua esistenza – lui non sapeva proprio cosa fare.

Sapeva solo di avere paura e di non voler morire.

Fu tutto ciò che volle a Saffie per riacquistare una manciata di autocontrollo perduto mentre, forzando un sorriso gentile, ricambiava la stretta del piccolo con tenerezza. “Non ti preoccupare” cercò di rassicurarlo, ignorando il tremolio incerto della sua stessa bocca. “Dobbiamo solo…”

“Guardate!” la interruppe il grido esaltato di un marinaio ignoto “L’Ammiraglio Worthington combatterà in prima linea!”

Un tuffo al cuore si fece sentire a tradimento nel petto della Duchessina di Lynwood che, senza poterci fare nulla, voltò in automatico la testa castana in direzione dell’alto ponte di comando dove svettava controluce l’imponente figura del suo tanto detestato marito: l’uomo si era fermato in cima alla scalinata e Saffie lo intravide girarsi parzialmente indietro, per poi iniziare a parlare con qualcuno che lei ovviamente non poteva vedere. Una massa ribelle di capelli scuri si agitava sul volto virile di Arthur, nascondendo la sua espressione a chi lo stava osservando dal basso, mentre il cappotto dalle eleganti rifiniture dorate gli si muoveva addosso con una strana grazia ipnotica, inseguendo la violenta brezza marina.

Non poteva vederlo in viso ma, per un attimo, a Saffie parve di comprendere il motivo dell’ammirazione cieca che l’equipaggio nutriva nei suoi confronti: dall’alto della sua orgogliosa ambizione, il Generale Implacabile le parve uguale al tremendo demone che li avrebbe condotti tutti alla vittoria schiacciante, senza sé e senza ma. Nessuna gloria sembrava essere irraggiungibile, nessuna battaglia vana, se l’uomo più temuto dell’Impero ora combatteva insieme a loro.

E quell’uomo era proprio suo marito.

Saffie sentì le gote ghiacciate scaldarsi leggermente nel medesimo istante in cui Arthur voltò bruscamente la testa e cominciò a scendere i gradini della scalinata, seguito a ruota da un ansioso James Chapman.

Con un piccolo sussulto agitato, la ragazza si chinò di scatto sul bambino al suo fianco, nuovamente pronta a intraprendere la sua missione di salvataggio e apparentemente dimentica dei secondi appena trascorsi: rifiutava categoricamente di aver formulato quel pensiero ma, sopra ogni cosa, non era di certo il momento più adatto per perdersi in assurde fantasie!

Poiché c’era in effetti qualcosa che lei sola poteva fare: condurre sé stessa e il piccolo ragazzo di bordo al sicuro, nascondersi insieme a lui in un luogo difficile da raggiungere e aspettare la fine dell’assalto cercando – per quanto possibile – di non perdere né la testa, né la calma. Saffie era difatti dolorosamente consapevole di essere diventata quello che si poteva definire un bersaglio facile: sia lei che il suo brillante abito celeste risaltavano in maniera fin troppo nitida in mezzo una massa di colori scuri e sguardi di rabbia ferale, selvaggia. Il fatto che fosse la nobile moglie di Arthur Worthington, poi, non poteva che essere l’elemento peggiore dell’intera faccenda, perché nemmeno voleva immaginare cosa avrebbero potuto farle, se fossero riusciti a catturarla.

Fu a seguito di questi ragionamenti che la Duchessina di Lynwood si decise ad afferrare saldamente la mano del bambino silenzioso e sussurrargli, in tono pacato: “Non lasciare la presa per niente al mondo, d’accordo?”. L’interpellato fece un unico muto cenno d’assenso di cui la ragazza si ritenne più che soddisfatta e, senza perdere altro tempo, i due cominciarono ad avviarsi in direzione degli alloggi dedicati agli Ufficiali e alla signora Worthington con passo spedito.

Saffie si stupì di fendere la calca costituita di marinai male armati e soldati della Corona impegnati a formare una rossa fila di fuoco senza che nessuno si degnasse di prestare loro attenzione, come se il richiamo della morte fosse un canto ammaliatore e contemporaneamente orrendo, di quelli a cui non si poteva non prestare l’orecchio.

Il nero vascello pirata era ormai visibile in ogni suo dettaglio e Saffie vi gettò sopra una fugace occhiata costituita di spavento, poiché sapeva di essere ancora parecchio lontana dalla poppa della nave; fu grata, in quell’istante, di non doversi preoccupare pure della sicurezza di Keeran: era quasi passata mezz’ora da quando l’irlandese era sparita nelle camere della Duchessina, visto che quest’ultima le aveva chiesto di portarle il libro. La ragazza castana riponeva parecchia fiducia nei solerti Ufficiali di Guardia, ed era propensa a pensare che essi avessero impedito alla sua domestica di uscire sopracoperta, una volta avvistata la minaccia di un conflitto all’orizzonte.

Almeno, si disse, sia lei che l’unico ricordo rimasto di Amandine sarebbero stati al sicuro.

Ma lo sarebbero stati veramente?

Saffie fu scossa da un violento brivido ghiacciato e cercò di accelerare il passo senza strattonare troppo il braccio del ragazzino dietro alle sue spalle che, in ogni caso, riusciva a tenerle dietro senza spiccicare né un lamento o una parola. Considerandolo in un certo qual modo più coraggioso di lei, la Duchessina voltò appena il capo nella sua direzione e commentò, con una leggera ironia riesumata chissà dove: “Sei un ometto valoroso, signorino. Qual è il tuo nome?”.

Il ragazzo di bordo – che era stato tutto il tempo con lo sguardo fisso sull’esile schiena di Saffie – spostò gli occhi turchese sul suo viso e venne sorpreso da un’espressione di gentilezza materna a cui non era comunque abituato. Di fronte a quel sorriso rassicurante e sereno, il bambino non poté impedirsi di arrossire leggermente, di strano imbarazzo. “Io…”cominciò a borbottare, monocorde “Io mi chiamo…”.

Ma il piccolo non ebbe modo di finire la sua frase, poiché un’alta ombra oscurò il volto suo e della ragazza castana che, voltatasi di scatto, si trovò faccia a faccia con un Arthur Worthington fuori di sé dalla rabbia. Una tremenda espressione di furia glaciale faceva mostra sul volto sempre severo dell’uomo, anche se furono i suoi occhi verde scuro a turbarla per davvero: due luminose pozze di disprezzo si aprivano omicide su di lei, immobili e oscure. Crudeli.

“Non desidero alcun pietoso ringraziamento da parte tua. Sono stato costretto ad aiutarti.”

“Eccoti qui, dannata strega” fece infine la voce profonda e velenosa di un Arthur più simile ad un serpente inferocito che ad un impeccabile ammiraglio. La mano destra dell’uomo si protese fulminea in direzione del polso della sua tanto odiata moglie e, come il giorno in cui Amandine era morta e loro avevano perso la ragione, le sue dita lunghe catturarono Saffie con fin troppa facilità. “Adesso mi obbedirai, che tu lo voglia oppure no.”

Senza aspettare alcuna risposta o obiezione, Worthington li guidò di nuovo verso la prua dell’Atlantic Stinger, trascinandosi dietro Saffie e il ragazzo di bordo quasi fossero stati due cuscini fatti di piume. Come era accaduto neanche due ore prima, egli non sembrava essere intenzionato a dedicare alla Duchessina di Lynwood né uno sguardo, né una parola in più del necessario e quest’ultima si ritrovò a incespicare sui suoi passi, impotente di fronte al suo atteggiamento e alla sua presa d’acciaio.

“…dannata strega.”

Saffie aggrottò le sopracciglia e fulminò con rabbia la chioma scura di Arthur, cercando di ignorare il sentimento di dolorosa indignazione che si era affacciato alle porte del suo animo a seguito delle parole da lui pronunciate. Di certo, se fossero stati in una situazione di normalità, gliele avrebbe volentieri fatte rimangiare una per una ma, fra le altre cose, la ragazza poteva ben intuire il motivo della collera cieca dell’ammiraglio: con il senno di poi, era chiaro che l’uomo le avesse ordinato di chiudersi in camera insieme a Keeran proprio per tutelare entrambe dalla battaglia in arrivo; pure se, si ritrovò a pensare lei con amarezza, come avrebbe potuto immaginarlo, se lui si ostinava a non comunicare in maniera decente?

O per meglio dire, se non le parlava affatto?

Come se voi due aveste dei validi motivi per volervi parlare.

“Avevo…avevo pensato di nascondermi nella mia stanza” tentò quindi di dire Saffie, lottando ferocemente contro il rospo che le si era incastrato in gola. “Ho creduto fosse la soluzione più sicura.”

“Lo sarebbe stata se tu mi avessi ubbidito fin dall’inizio” arrivò subito la risposta piccata di un Arthur ancora ben intenzionato a non guardarla negli occhi e che, anzi, decise di rincarare la dose, aggiungendo: “Sei troppo lontana dagli alloggi e quei criminali sono quasi su di noi. Mi stupisce che la testolina di cui tanto ti vanti non ci sia arrivata prima”.

“Devi crederti così superiore agli altri, signorina Lynwood.”

Se mai uno sguardo avesse posseduto la capacità di uccidere, allora il famoso Ammiraglio Worthington avrebbe concluso la sua sfolgorante carriera stramazzato contro le assi di legno dell’Atlantic Stinger, tanto l’occhiata che la Duchessina gli lanciò fu di rancore a malapena represso. “Come io sono ugualmente sorpresa del fatto che il grande Generale Implacabile abbia dato per scontato indovinassi magicamente le sue intenzioni” commentò quindi Saffie con forza, incapace di trattenersi oltre; sentiva addosso lo sguardo sbalordito del piccolo ragazzo di bordo, ma non ci fece minimamente caso. “Se mi avessi detto dell’attacco, allora probabilmente ti avrei dato ascolto, proprio perché non sono la strega che mi accusi di essere!”

“Al di là di tutto, penso davvero che voi possiate rendere felice mia sorella.”

Un secondo di pesante silenzio calò fra i tre, che finalmente raggiunsero il castello della nave dove – senza emettere un solo fiato – stavano appostati diversi militari pronti ad aprire il fuoco. Arthur Worthington fermò i suoi passi di fronte al boccaporto di prua che conduceva direttamente alle cucine deserte ma, per un motivo a lui ignoto, non accennò a lasciare la presa sul piccolo polso di Saffie; un disagio strano e confuso si fece infatti sentire di nuovo dentro la sua anima a pezzi, ed era lo stesso sgradevole sentimento provato la sera prima.

“Io ho pensato di doverti ringraziare per ciò che hai fatto oggi.”

Lo odiava. Odiava che lei si comportasse in modi a lui impossibili da comprendere.

“Non ho bisogno di spiegarti un bel niente” sibilò infine, girandosi poi a guardarla con evidente fastidio. “Tu devi solo imparare qual è il tuo posto.”

Un paio di occhi grandi e innocenti si aprirono su di lui sorpresi, eppure l’uomo lesse immediatamente la sofferenza che in effetti vi era contenuta: Saffie lo guardava ancora una volta con stampata sul grazioso viso un’espressione costituita non di disgusto, ma di un incertezza dolorosa e angosciante che – comprese Arthur – non provocava in lui la malvagia soddisfazione che si sarebbe aspettato.

Perché continui a guardarmi con quegli occhi, se mi detesti quanto lo faccio io?

Dimentica anche questo, Arthur.

Non lasciare che qualcun altro prenda il controllo, rendendoti vulnerabile.

La Duchessina di Lynwood sentì la stretta dell’uomo allentarsi e lo vide abbassare il capo bruno in direzione del boccaporto, facendole un cenno vago e sbrigativo con la testa. “Scendete e vedete di non emettere un solo suono” ordinò in tono piatto a lei e al ragazzo di bordo, ancora impegnato a fissare la ragazza castana come se fosse uscita da qualche bizzarra favola. “Quando tutto sarà finito, verrà un Ufficiale a prendervi.”

Con una dolorosa stretta allo stomaco, Saffie intuì su due piedi che Arthur nuovamente aveva preso ad evadere il suo sguardo, ad evitare la scocciatura di avere a che fare con lei, la donna che riteneva colpevole di aver distrutto la sua felicità.

In fondo, non aveva fatto altro se non trattarla con disprezzo, no?

Ma continui a venire a salvarmi, pure se hai detto di odiarmi con tutto il tuo animo.

E, per la prima volta, alla ragazza parve che l’orgoglioso e implacabile Arthur Worthington non si voltasse nella sua direzione a causa non del loro reciproco rancore, ma bensì di una paura che lei non riusciva a comprendere. Per un momento, pensò che lui stesse in realtà cercando di nascondersi.

L’ammiraglio non aspettò di vedere i due scendere nelle cucine e, al contrario, diede loro le ampie spalle, con l’intenzione di avviarsi verso il parapetto e raggiungere la nutrita linea di fuoco che – di lì a secondi – avrebbe cominciato a sparare contro la vergognosa ciurma di una Mad Veteran pronta all’arrembaggio.

“E se non tornasse, Saffie? Se gli accadesse qualcosa?”

La ragazza osservò l’alta figura del marito cominciare ad allontanarsi e, guidata da uno strano impulso inconscio, alzò timidamente un braccio nella sua direzione. Le sue piccole dita si strinsero appena sulla morbida manica blu della divisa di Arthur senza che lei quasi se ne accorgesse: dentro di sé, sapeva di dover portare il bambino subito al sicuro, ma la sua mano si era mossa in automatico, come se avesse voluto trattenere l’ammiraglio.

Come se non volesse farlo andare via.

Saffie sapeva di stare sbagliando, perché a lei non era concesso toccare Arthur in quel modo. Sapeva, nel profondo, di stare attraversando l’inesistente confine che loro stessi avevano costruito, innalzando invisibili muri di disperato odio. E, in ultimo, lo seppe con assoluta certezza quando l’uomo voltò il busto nella sua direzione di scatto, sottraendosi alla sua presa con uno strattone violento e improvviso.

Toglimi le mani di dosso.”

Se la sua voce era stata un ringhio tagliente e altrettanto glaciale, furono gli occhi verdi di Worthington ad ucciderla sul posto. Uno sguardo costituito di oscura e inossidabile determinazione la attraversava da parte a parte, cristallino e spietato come quello di un essere uscito direttamente dall’inferno.

Era dunque questa, l’incarnazione della crudele ambizione che l’aveva imprigionata.

L’inamovibile forza che aveva ucciso Amandine.

Reagendo d’istinto, Saffie chiuse le mani tremanti sul petto e si allontanò di un passo da Arthur, terrorizzata.

Senza bisogno di aggiungere nemmeno una parola, l’uomo interruppe il contatto visivo con gli occhi lucidi della ragazza e si allontanò a larghi passi spediti, sguainando l’elaborata spada con un unico e fluido gesto elegante.

“Dobbiamo scendere” fece la provvidenziale vocina del piccolo ragazzo di bordo che, si disse la Duchessina, aveva dimostrato di possedere sicuramente molto più sale in zucca di lei. Il bambino l’attirò debolmente lungo la scalinata e aggiunse, in tono piatto: “Andiamo”.

“Sì-sì, certo” acconsentì Saffie, balbettando appena. Cominciò quindi a scendere velocemente i gradini scricchiolanti del boccaporto, a malapena consapevole dei luoghi angusti e sporchi in cui lei e il ragazzino si stavano andando a infilare: una sensazione orribile e fredda strisciava malvagia sotto le pieghe del suo abito, lasciandola preda di un pensiero che la sua mente non riusciva ad ignorare.

Aveva appena scrutato dentro ad un immenso abisso di tenebra, dove non penetrava alcuna luce.



§



I rumori provenienti dall’esterno si facevano di minuto in minuto sempre più insopportabili da ascoltare.

Saffie e il ragazzo di bordo avevano trovato rifugio nell’angolo più remoto delle anguste cucine dell’Atlantic Stinger e, da almeno mezz’ora a quella parte, se ne stavano accucciati uno accanto all’altra, dietro ad una consistente pila di calderoni abbandonati. Come suggerito dall’ammiraglio Worthington, i due non avevano effettivamente scambiato una parola in croce e, in qualche maniera, riuscivano a comunicare tramite qualche ansiosa occhiata e sporadici sorrisetti di nervoso incoraggiamento.

La ragazza trovava incredibile anche solo il fatto di essere riuscita ad affrontare quei lunghi trenta minuti senza cedere terreno alla paura angosciante che teneva in ostaggio il suo cuore, quasi volesse impedirle di respirare decentemente. Se non altro, si disse, doveva tenere duro per l’incolumità del bambino al suo fianco che, con grande coraggio, si aggrappava saldamente alle sue dita fredde e non emetteva nemmeno un lamento, né si lasciava sfuggire alcuna lacrima.

Tutto questo era di per sé un piccolo miracolo, visto l’Inferno che si stava scatenando sopra di loro: un pungente odore di sangue permeava l’aria immobile della stanza, mentre Saffie non contava nemmeno più le urla di agonia che – indistinte – arrivavano alle sue orecchie e rafforzavano così la sua impressione di trovarsi in un girone Dantesco. Spari e tonfi sordi si susseguivano l’uno dopo l’altro, accompagnati raramente da folli risate o, più spesso, da terribili imprecazioni che una figlia dell’Alta Aristocrazia come lei poteva dire di non aver mai udito. C’era stato un momento in cui aveva creduto di sentire la voce roboante di Shaoul Brown, persino.

In generale, un opprimente presentimento di morte era calato sulle loro teste e sembrava osservarli beffardo, aspettando un istante che prima o poi sarebbe arrivato.

No, questo non assomiglia per niente alle storie tanto amate da Amandine.

“Voi non sapete un bel niente, signorina Lynwood.”

Un bruciante sentimento di consapevolezza si fece sentire, inopportuno e sgradito, dentro al suo animo terrorizzato. La ragazza si portò allora le ginocchia al petto e vi affondò la testa castana nervosamente, mentre ingaggiava una lotta contro le sue stesse lacrime: era tragicamente vero, lei non aveva mai saputo un bel niente del mondo a cui appartenevano Douglas Jackson o Henry Inrving, dell’esistenza condotta per tutti quegli anni da Arthur Worthington.

Tutto questo è disumano.

Là fuori, continuava a ruggire il suono metallico provocato da duelli mortali e scontri di spade, stridendo nella mente di Saffie in maniera dolorosa. Delle fastidiose unghie che raschiavano su una lavagna.

Fin da bambina…io ho sempre e solo desiderato essere libera.

“Tu sei mia, adesso.”

Le dita tremanti di Saffie si strinsero con forza sul tessuto leggero della gonna ormai sporca di polvere poiché, come un fulmine a ciel sereno, non furono più le odiate iridi verdi di Arthur a bruciarle addosso, ma uno sguardo nero pece emerse dall’oscurità dei suoi ricordi. Vide due occhi di una gentilezza impossibile, che lei credeva di esser riuscita a dimenticare.

“Vieni via con me, Saffie. Solo allora sarò un uomo veramente felice.”

Era dannatamente vero: non conosceva affatto la Marina Britannica e le sue assurde leggi, né riusciva a comprendere il carattere del detestabile uomo che suo padre le aveva imposto di sposare e, a questo punto, era sempre più convinta che Amandine non avrebbe trovato altro se non sofferenza in una vita al fianco di Worthington, pure se trattata alla stregua di un trofeo tanto ambito quanto prezioso.

L’aveva visto dentro all’abisso…un uomo che sapeva portare solo dolore e disgrazia intorno a sé.

No, l’Ammiraglio non le avrebbe dato modo di farsi comprendere, ma la verità stava nel fatto che non avrebbe mai dovuto esserci lei lì, a combattere disgustosi sentimenti e sensi di colpa aberranti.

Aveva solo desiderato di poter volare libera, di amare chi voleva.

“…la mia primogenita. Per quanto credevate di riuscire a sfuggirmi, tu e quella nullità che affermi di amare?”

Proprio nel momento in cui sentiva di star per cadere dinnanzi al soffocante odio che viveva in pianta stabile dentro al suo cuore, un rumore di legno spezzato esplose violento e assordante nei suoi timpani, facendole alzare la testa di scatto. Un’espressione di ansioso allarme trasformò il suo viso smorto in un attimo e, altrettanto velocemente, essa mutò in puro orrore: un uomo che palesemente non era parte dell’equipaggio dell’Atlantic Stinger era entrato nelle cucine, scardinando con fin troppa facilità la porta chiusa a chiave.

La piccola manina del ragazzo di bordo si strinse subito attorno alle dita di Saffie, stritolandole con improvviso e nervoso terrore. La ragazza, dal canto suo, voltò appena la chioma nella sua direzione e si portò l’indice alle labbra tremanti, livide come quelle di un cadavere: doveva essere coraggiosa, poiché gli occhi azzurri del bambino al suo fianco la fissavano con un tremendo sguardo perduto e, ancora, lei pensò alla morte.

I due si appiattirono contro le grandi pentole, cercando di farsi il più piccoli possibile, di scomparire fra le fitte ombre di una cucina non più così deserta. La Duchessina portò lentamente un braccio attorno alla vita del ragazzo di bordo come se, con quel patetico gesto, potesse farlo sentire protetto e al sicuro; poiché sembrava quasi stessero scampando alla ricerca di uno squalo silenzioso, che si aggirava famelico per tutta la stanza.

“Dannata Marina Britannica!” lo sentirono sbottare, con la voce roca di un animale braccato. “Se solo avessimo saputo prima che proprio l’Implacabile è imbarcato su questa piccola nave!”

Sgranando tanto d’occhi, Saffie lanciò una fugace occhiata sopra il muro di calderoni alle sue spalle e, nel medesimo istante, intravide con chiarezza un malandato uomo di mezza età a nemmeno cinque metri da loro. Era la prima volta che la ragazza vedeva un pirata in carne ed ossa; ovviamente, non aveva niente in comune con i fantastici e attraenti personaggi di cui tanto si parlava nelle storie d’avventura: oltre allo strato di evidente sporcizia incrostato sulla pelle e tra i radi capelli grigi, il ghigno stampato sul suo volto consumato dal sole contava all’appello ben pochi denti rimasti in piedi.

“Demoni dell’inferno, ognuno di loro.”

“Troppo grande questa cucina. Conviene fare in fretta e tagliare la corda” sillabò in maniera confusa il criminale, e a Saffie parve come se avesse difficoltà a mettere in fila due frasi di senso compiuto. La Duchessina lo osservò calciare con ferocia un piccolo baule di provviste che, con un tonfo sordo, si rovesciò all’indietro, rivelando il suo carico di brillanti mele verdi; lo sguardo itterico dell’uomo parve illuminarsi di una gioia primitiva e infantile, confermando così i sospetti della ragazza castana.

“L’Atlantic Stinger non è caduta e ora loro ripiegano sull’unica cosa di cui hanno disperatamente bisogno” concluse Saffie, con le iridi scure ancora inchiodate sul pirata impegnato a riempirsi mani e tasche di frutta. “Stanno morendo di fame.”

Ma perché c’è solo lui?

“Maledetto Worthington” imprecò nuovamente l’uomo, sputando vero veleno. “Muoia all’inferno, se ha dimenticato chi è l’uomo che l’ha cresciuto!”

“E all’inferno devono essere rispediti, senza alcuna eccezione.”

Una sferzata di fredda sorpresa si abbatté sulla ragazza castana che, in automatico, raddrizzò la schiena di botto; il suo piccolo piede scivolò così in avanti e strisciò in maniera perfettamente udibile contro la ruvida superficie del pavimento polveroso.

Il pirata girò il viso rugoso immediatamente, nella direzione in cui lei e il ragazzo di bordo erano nascosti mentre, con una fitta di panico, Saffie si accucciava nuovamente a ridosso delle pesanti pentole, maledicendosi per essere stata una stupida incauta.

No. Sei stata una stupida e basta, perché ti sei tradita a causa di ciò che provi per lui.

I passi pesanti e strascicati dell’uomo si facevano sempre più vicini al loro nascondiglio e Saffie si accorse di aver preso a tremare con violenza, malgrado la sua ferma volontà di rassicurare il bambino che era con lei. Alzò lo sguardo castano sul suo volto spaventato nel medesimo istante in cui quest’ultimo vide una testa grigiastra sbucare dietro alla schiena della ragazza: una faccia deformata da un’espressione di trionfante mostruosità, resa palese da un sorriso largo che non era altro se non una fessura nera e orribile.

“Ma tu verresti a salvarmi, come hai fatto oggi.”

Desideri che Worthington arrivi a proteggerti, malgrado il confine d’odio tracciato fra voi.

“Dietro!” urlò il ragazzino con vera e propria isteria, puntando l’indice sopra la testa castana della Duchessina di Lynwood. “Dietro di voi!”

“Troppo tardi, per giocare a fare i topini.”

Sempre ad illuderti, Saffie Lynwood.

A pochi centimetri dal suo orecchio sinistro, una voce dall’alito nauseante aveva soffiato quella crudele presa in giro tra le ciocche dei suoi capelli disordinati, che si mossero appena sulle sue guance ghiacciate e bianche.

Ancora non hai imparato la lezione?

La ragazza non ebbe nemmeno il tempo di provare un qualsivoglia spavento, visto che le mani ruvide dell’uomo si aggrapparono brutalmente alle sue esili braccia, trascinandola indietro con uno strappo violento e separandola nel contempo dall’abbraccio in cui lei e il bambino si erano stretti; in meno di un secondo, il pirata l'aveva fatta alzare in piedi e Saffie stessa si accorse in maniera vaga di essersi lasciata scappare un lamento di dolore, nel sentire la sua schiena sbattere contro una rozza dispensa di legno scricchiolante.

Lui non verrà. Nessuno verrà per te, che sei responsabile della morte di tua sorella.

Che, più di ogni altra cosa, desideravi essere una principessa come lei.

Delle dita sporche apparvero dal nulla e la inchiodarono al mobile alle sue spalle, premendo senza alcuna pietà sulla pelle morbida del suo collo indifeso.

Fu il momento in cui Saffie colse l’arrivo della morte e cominciò così a boccheggiare, dimenarsi, scalciare in maniera caotica e incoerente, improvvisamente pazza di un terrore che rendeva incapace qualsiasi ragionamento. Faceva male e, contemporaneamente, non riusciva a provare nulla: le pareva di venire inghiottita in un’oscurità ovattata e definitiva.

Un abisso senza alcuna luce.

“Bello spreco” udì l’eco di quelle parole lontane, sputate a poca distanza dal suo viso con crudele ironia. La ragazza sentì la mano libera dell’uomo cercare di infilarsi sotto le sue vesti con impaziente eccitazione e un orrore agghiacciante si impossessò di lei, mentre il tocco sudato del suo aggressore era viscido come quello di una biscia che tentava di risalire all’interno delle sue cosce.

L’uomo lanciò poi un’occhiata da fanatico sulla figura tremante del ragazzino di bordo, pietrificato dalla paura qualche metro da loro. “Chissà, se dopo toccherà a te?”

Gli occhi scuri di Saffie si spalancarono quasi oltre al loro limite, le iridi terrorizzate diventate ora due puntini minuscoli in mezzo ai bulbi bianchi. No, Worthington non sarebbe arrivato a salvarla, e lei non era stata nemmeno capace di proteggere un bambino indifeso. Di mantenere la promessa fatta ad Amandine.

“Giuramelo. Giurami che andrai avanti e sarai libera.”

Era stata solo capace di nutrirsi di risentimento e poi morire.

Al contrario di ciò che si potrebbe immaginare, il momento precedente alla morte non è caratterizzato dal vedere il riassunto della propria vita scorrere davanti agli occhi come una fulminea messa in scena teatrale, ma bensì dalla cristallizzazione di un singolo ricordo dell’esistenza trascorsa. Quello che Saffie vide – al posto del pazzo davanti a lei – fu l’immagine di suo padre: Alastair Lynwood sedeva con la sua solita pigrizia elegante su una delle panchine del loro lussureggiante parco secolare e la fissava con sofferente accondiscendenza.

Ricordò di avergli chiesto: “Come fate a dire di essere orgoglioso di me?”

Lui allora aveva sorriso con fare misterioso e, alzando appena le spalle, aveva commentato: “Perché sei stata intelligente, scegliendo di tornare”. Il luccichio inquietante di un affilato coltello da cucina abbandonato attirò l’attenzione della ragazza nel medesimo istante in cui i suoi occhi poterono cogliere solo le labbra sottili di suo padre articolare l’unica frase che mai avrebbe dovuto dimenticare. “Hai capito che, quando si nuota in mezzo agli squali, il più forte è colui che vuole sopravvivere a tutti i costi.”

Le sue piccole dita si strinsero lentamente attorno al manico del coltello, senza che il suo aggressore se ne accorgesse. In fondo, era solo uno squalo arrogante, che aveva commesso l’errore di pensare lei fosse una preda facile.

Non è chi ha niente da perdere, ma chi vuole sopravvivere, che vince sempre.

“Lasciami!”

Un gesto improvviso e Saffie pugnalò l’uomo con violenza cieca e terrore vero, affondando la lama più e più volte nel suo collo: del sangue scuro e grumoso ne zampillò subito fuori, abbondante come il getto di una fontana, mentre il criminale spalancava gli occhietti itterici con spaventato stupore. “Toglimi le mani di dosso!” urlò la ragazza senza smettere di colpirlo, ignara del liquido scarlatto di cui le sue mani erano ormai zuppe; sapeva solo di non dover mollare la presa sul manico del coltello, perché altrimenti la persona che aveva davanti avrebbe ucciso sia lei che il bambino. “Lasciami!” gridò ancora, piena di folle paura. “Lasciaci in pace!”

Non avrebbe visto un altro innocente morire per colpa della sua noncuranza.

Infine, la Duchessina di Lynwood si fermò con il braccio sospeso per aria e, stravolta da un aberrante sentimento impossibile da metabolizzare, osservò ad occhi spalancati il pirata barcollare all’indietro e ricambiare il suo sguardo pieno di lacrime: Saffie non poté fare a meno di specchiarsi in due iridi in fondo molto simili alle sue, che la guardavano agonizzanti e spaventate, come se lei stessa fosse l’incarnazione della morte.

“Tu…” biascicò solo l’attempato uomo, facendo il gesto di protendere una mano nella sua direzione, prima di roteare gli occhi spiritati all’indietro e stramazzare al suolo con un unico tonfo sordo.

Un’oscura pozza di sangue cominciò ad allargarsi sulle assi del pavimento, riempiendo il campo visivo della Duchessina di Lynwood di un insopportabile ed accecante colore rosso. Non un suono fendeva l’aria e, per il resto, le sembrò di non riuscire a cogliere nient’altro che quel colore, mentre un pensiero vorticava sempre più insistente nella sua mente anestetizzata.

Ho ucciso una persona.

Le gambe della ragazza cedettero di botto e lei cadde in ginocchio, di fronte al cadavere supino del pirata che – davvero assurdo – le sembrò un pupazzo intento a fissare il soffitto di legno sopra le loro teste, la bocca schiusa da una muta e infinita sorpresa.

“Te l’avevo detto, sei tremenda: mi sembrava di avere davanti papà!”

Infine, Saffie si accorse di aver mollato la presa sul coltello insanguinato e di stare fissando le sue stesse mani che, sporche del suo orribile peccato, ricominciarono a tremare con violenza incontrollabile. Dentro alla sua anima, il vuoto di poco prima lasciò spazio ad una sofferenza del tutto nuova, evocata insieme a quell’onnipresente pensiero.

Meschina e disposta a tutto, proprio come tuo padre.

Non avresti mai potuto essere neanche la metà di ciò che è stata Amandine.

Non si accorse delle piccole dita del ragazzo di bordo, permute sulla sua spalla in un silenzioso gesto di coraggiosa comprensione; come nemmeno si diede la pena di alzare la testa castana e guardare i due alti Ufficiali che, correndo, erano entrati nella stanza buia. Non li vide fermarsi all’istante sulla soglia, sbarrare gli occhi di fronte alla scena terribile che si palesò loro davanti.

Perché Saffie aveva finalmente realizzato.

“Sprofonderai nell’infelicità.”

No, entrambi si erano condannati volontariamente ad un abisso dove non penetrava alcuna luce.



§



Erano state delle prede fin troppo arrendevoli.

Con un elegante gesto preciso, Arthur Worthington sfilò la spada insanguinata dallo stomaco del malcapitato a cui era venuta la sfortunata idea di mettersi in mezzo alla sua strada e, senza degnare di uno sguardo il corpo del suddetto crollare a terra, voltò la disordinata chioma scura in direzione della Mad Veteran, il cui rimanente equipaggio era impegnato in disperate manovre di fulminea ritirata.

Gli occhi verdi dell’ammiraglio sembrarono allora risplendere di una voracità malvagia e ferma, nell’osservare come fossero rimasti ben pochi resti dell’esaltata ciurma che – fino a un’ora prima – sputava nei loro confronti urla di convinta vittoria: da quando il corsaro Seymour Porter si era ammutinato contro l’Impero Britannico, portando via con sé il famigerato Nero vascello di cui era capitano, un susseguirsi di imprese disastrose aveva segnato la storia della nave ed il culmine era stato proprio la morte violenta di colui che la comandava. Nel giro di un anno, la Mad Veteran si era trasformata – da temuta predatrice – ad agonizzante preda e, ovviamente, Arthur voleva aggiungerla alla sua già nutrita flotta da guerra.

È colpa della mia sfrenata ambizione questa fame insaziabile, che inghiotte tutto e mi consuma.

Gli sporadici marinai rimasti a bordo della nave pirata formavano un piccolo gruppo di uomini disorganizzati e stanchi, che a malapena potevano sperare di sopravvivere per più di due settimane di navigazione in mare aperto.

Worthington li osservò allontanarsi con un ghigno inquietante stampato sul viso virile. “Come se veramente potessero sfuggire a me” commentò fra sé e sé, rivolgendosi poi verso l’interno di un ponte sopracoperta letteralmente dipinto di rosso: un aspro odore di sangue, a cui lui comunque era abituato, risalì forte le sue narici, ricordandogli il massacro appena avvenuto senza che effettivamente vi fosse il bisogno di soffermarsi con lo sguardo sulle centinaia di corpi di cui il pontile era ricoperto. Inerti manichini ammassati l’uno sopra all’altro, a faccia in giù o occhi al cielo.

Un’immagine che poteva dire di avere visto decine e decine di volte.

Senza che la sua anima venisse mossa da una qualsivoglia emozione, Arthur portò una mano al bavero bianco della camicia e lo allentò con noncuranza, sfilandosi dal collo il costoso fazzoletto di seta.

In quei momenti, non provava niente.

L’uomo alzò la brillante lama scarlatta davanti al viso impassibile e procedette a pulirla lentamente, con calma quasi metodica, mentre attorno a lui innumerevoli lamenti di sofferenza e morte si susseguivano all’infinito, seppure si facessero di secondo in secondo sempre più deboli.

Aveva imparato a dimenticare, perché si trattava di sopravvivere oppure morire.

“La morte indiscriminata non è la soluzione!”

La saccente voce della piccola strega risuonò fastidiosa e inaspettata nelle sue orecchie; e Arthur alzò lo sguardo smeraldino dalla sua elaborata spada, chiedendosi come fosse possibile che le parole della ragazzina lo cogliessero di sorpresa pure in un frangente come quello. Di nuovo, una fastidiosa sensazione aggredì la bocca del suo stomaco e lui cercò di non prestarvi ascolto poiché, in qualunque caso, non era di certo il momento più adatto per inutili quanto impossibili pensieri.

Aveva giurato di odiarla.

Eppure, Saffie pareva essere presente nella sua mente più di quanto avrebbe mai creduto possibile.

“Signore!” esplose la voce carica di adrenalina di un James Chapman coperto di sangue, che gli si faceva incontro con calma, come se stesse partecipando ad uno spensierato Déjeuner. “Il capitano Inrving è sopravvissuto e si accinge ad inseguire gli schifosi, come da voi pianificato!”

Arthur Worthington si lasciò sfuggire un pesante sospiro seccato, mentre i suoi occhi chiari indagavano la figura del suo più fedele tenente: era sollevato nel vedere il giovane pressoché illeso, pure se da ogni combattimento egli ne doveva per forza uscire più insanguinato degli uomini a cui aveva tolto la vita con tanta letale solerzia. “Un impeccabile lavoro, come al solito” gli concesse in tono piatto, inarcando un sopracciglio scuro di fronte al sorrisetto di emozionata superbia che fece la comparsa sul volto del ragazzo. “Una nota di demerito va fatta al vostro vocabolario, temo. Dovrò degradarvi, se continuerete ad esprimervi così.”

Veloce come era venuta, l’espressione trionfante di James svanì di botto e quest’ultimo venne infine completamente ignorato da un Arthur ora intento a scrutare attentamente il viavai di gente che – sotto pressante insistenza di Benjamin Rochester – egli aveva accettato di assumere per dare man forte al dottore di bordo: erano marinai dotati di utili competenze mediche, quelli che ora si agitavano per tutto il ponte sopracoperta, pronti a prestare i primi soccorsi ai soldati e agli uomini di mare rimasti vivi.

In effetti, Worthington aveva faticato parecchio nel convincere l’Ammiragliato a concedergli la costosa forza lavoro richiesta dal medico ma, quando i suoi occhi verdi colsero in lontananza la figura esausta di Douglas Jackson farsi medicare la schiena insanguinata, Arthur si disse che ne era in fondo valsa la pena.

Io ho pensato di doverti ringraziare per ciò che hai fatto oggi.”

L’uomo abbassò lo sguardo serio sul suo stesso braccio e constatò senza troppo stupore di avere la ferita del giorno precedente nuovamente aperta.

“Questa lascerà un segno. Sembra voi non siate mai stanco di riempirvi di cicatrici.”

La fastidiosa sensazione di strisciante disagio ricominciò a contorcersi dentro di lui e Worthington decise di non prestarvi alcuna attenzione, rivolgendo così il suo interesse su un abbattuto James Chapman, ancora ritto in piedi a pochi metri di distanza. “Tenente, trovate al più presto il signor Rochester e conducetelo da me” ordinò in tono aspro, facendo per avviarsi in direzione del ponte di comando. “Finché ci manteniamo sulla scia della Mad Veteran, posso tracciare una rotta che non ci faccia allontanare troppo dalla nostra meta.”

L’interpellato stava per scattare sull’attenti e portarsi rigidamente una mano alla fronte coperta da un ridicolo parrucchino anch’esso incrostato di sangue, che proprio la figura dinoccolata di Benjamin Rochester arrivò correndo a passo sostenuto e ansioso.

Arthur!” gridò nervosamente il medico di bordo, raggiungendo i due e guardandoli ad occhi spalancati come se nemmeno li riconoscesse. “Non lo trovo da nessuna parte! Non riesco a trovare Ben!” continuò poi a straparlare, gesticolando in maniera affrettata, confusa. “E dire che gli avevo imposto di rimanere chiuso nel mio ufficio insieme al resto della servitù! Perché… perché quello sconsiderato non mi ascolta mai?!”

“Calmatevi, dottore” soffiò l’ammiraglio Worthington, lanciandogli una ferma e severa occhiata cristallina. “Il ragazzino è al sicuro insieme a…”

Ammiraglio!”

Ci fu qualcosa, nel tono atterrito con cui quella voce aveva pronunciato il suo onorifico, che fece salire un freddo brivido premonitore lungo la spina dorsale di Arthur. Il suo viso scattò immediatamente sull’Ufficiale di Guardia a cui aveva dato l’incarico di scortare l’insopportabile Duchessina fuori dalle cucine e lo vide camminare nella sua direzione, bruciando a grandi passi lo spazio che li divideva; il soldato lo fissò con sperduta ansia ed esclamò, quasi balbettando: “Vo-Vostra moglie, signore! Per favore, dovete venire subito!”

In fondo, che ti importa di lei?

Senza neanche un istante di esitazione, le gambe di Worthington si mossero in automatico e l’uomo raggiunse il boccaporto di prua in meno di due minuti, apparentemente ignaro della presenza del signor Rochester e di James alle sue spalle: una gelida paura era emersa infine dalle profondità del suo nero abisso e, con essa, uno schiacciante senso di colpa che lui ancora si rifiutava di riconoscere come tale, di cui detestava non avere il controllo.

“E se decidessi che non è così? Se non volessi sottostare ai tuoi ordini?”

Ti conviene averlo fatto, piccola sciocca.

Ignorando il doloroso rumore di fondo provocato dal suo stesso cuore, Arthur attraversò i corridoi angusti del ponte sottocoperta e fu sulla soglia delle cucine in un attimo. Davanti all’entrata, egli vide un'altra Guardia che, stringendosi nella sua divisa scarlatta, fissava l’interno della stanza con una faccia da pesce morto.

Sentendo la combriccola arrivare, il giovane voltò il viso pallido nella loro direzione e sussultò, nel vedere il tremendo Generale Implacabile venirgli incontro con due verdi occhi di fuoco.

“A-ammiraglio, le-lei è…”

“Fuori dai piedi!” ringhiò subito Worthington, mortale, spingendo il ragazzo di lato senza nemmeno fermarsi a guardarlo una volta sola. Non si curò nemmeno di aver buttato alle ortiche il solito contegno elegante perché, in quel momento, non esisteva assolutamente nulla che avrebbe potuto impedirgli di raggiungere Saffie Lynwood, la sua insopportabile crepa sulla superficie liscia dello specchio. La seccante sorella della ragazza che lui aveva amato e ucciso.

“…non lo sai, che tu sai solo fare del male?”

Ti prego, fa che non sia morta.

Dominato da questo unico pensiero, Arthur irruppe nella cucina e seppe immediatamente che, negli anni a venire, non avrebbe mai potuto dimenticare l’orribile terrore contenuto nelle iridi spalancate della ragazza inginocchiata all’altro capo della stanza. L’uomo si fermò di botto e i suoi occhi chiari si posarono sul sanguinolento percorso che, da un anonimo cadavere, si allungava liquido sul pavimento con una lentezza estenuante, quasi volesse arrivare fino a lui.

D’altronde, sei nato per portare disgrazia e morte a chi si avvicina a te.”

Saffie alzò la testa castana e lo inchiodò sul posto, lanciandogli uno sguardo spiritato che con lei non aveva niente a che vedere. Le sue mani piccole si sollevarono nella direzione dell’ammiraglio, tremanti e sporche di un sangue non suo, aberrante e osceno. “Io l’ho ucciso” sussurrò attonita, gli scuri che cominciavano a riempirsi di lacrime. “Ho ucciso un uomo.”

“Sprofonderai nell’infelicità.”

Era questo che volevi?

E fu il momento in cui l’uomo si sentì morire, inghiottito dall’abisso che per tanto tempo era riuscito a ignorare.

Arthur…quante persone dovrai rovinare, prima di sentirti soddisfatto?

Un fugace attimo, il tempo di vedere una lacrima solitaria scorrere sulla guancia di Saffie, che l’uomo già aveva portato la sua imponente figura su quella stravolta della ragazza: Arthur si chinò su di lei e le prese il viso ghiacciato fra le mani, indugiando con delicatezza sulla sua pelle, anch’essa deturpata da uno schizzo di sangue che non avrebbe dovuto esserci.

Ma tu verresti a salvarmi, come hai fatto oggi.”

“Sei ferita?” domandò a fatica, cercando di dominarsi, di parerle controllato e rassicurante; le sue dita lunghe scivolarono però lungo la linea del suo collo sottile, esplorandolo con tocchi lenti e minuziosi. “Ti ha fatto del male?” si trovò a chiederle ancora, lanciando un’occhiata sprezzante al corpo morto dietro di loro.

“N-no” balbettò di tutta risposta Saffie, specchiandosi per la prima volta in due iridi lucide di tormentata preoccupazione. “Ma-ma ha provato a farlo.”

Nessun suono uscì dalle labbra sottili di Worthington, strette nervosamente l’una contro l’altra. Arthur non accennò comunque ad allontanarsi da lei e la ragazza gli fu grata per questo: le mani grandi dell’uomo, ferme e gentili, emanavano un calore da cui non si sentiva ancora pronta a separarsi.

Alla fine, sei arrivato a salvarmi.

“Papà!”

Il silenzioso ragazzo di bordo era stato per tutto il tempo ritto in piedi alle spalle della Duchessina di Lynwood ma, non appena i suoi occhi turchesi intravidero l’alta figura di Benjamin Rochester entrare sconvolta nella stanza, egli scattò immediatamente in avanti e si precipitò sul medico di bordo, che già stava spalancando le braccia per accoglierlo.

“Mio Dio!” esclamò il dottore con stanco sollievo, premendo una mano bianca sui capelli castani del figlio; l’uomo si portò poi con il viso all’altezza di quello del bambino e i suoi occhialetti sottili sembrarono essere attraversati da uno scintillio di inquietante rabbia. “Sappi che sono furioso nei tuoi confronti, Ben” lo informò, il tono severo da genitore pronto ad una lunga ramanzina. Al contrario di ciò che si poté immaginare, il signor Rochester appoggiò entrambe le mani sulle piccole spalle del ragazzino e aggiunse, con più accondiscendenza: “Devi dirmi subito se hai subito qualche ferita, o se stai bene.”

“Io sto bene, papà!” rispose subito Ben, con incredibile tranquillità. Il ragazzino alzò quindi l’esile braccio in direzione di Arthur e Saffie, puntando l’indice sulla ragazza castana. “La signora Worthington mi ha protetto da quell’uomo spaventoso: aveva detto di volermi fare qualcosa e poi ha cercato di strangolarla!” spiegò tutto d’un fiato, impassibile come se stesse raccontando al padre una giornata di noiosi giochi. “È stata proprio coraggiosa!”

“Ne sono sicuro, figliolo” commentò solo Rochester, mentre i suoi occhi neri scivolavano sul cadavere del pirata con quello che alla Duchessina Lynwood parve vero e proprio odio. “Ma è tutto finito adesso.”

La ragazza non ebbe il tempo di notare altro, poiché la sua attenzione fu attirata dalla carezza leggera di due dita che, lente, inseguivano un misterioso tracciato sulla pelle esposta del suo collo. Con un piccolo sussultò sorpreso, spostò lo sguardo nuovamente su Arthur Worthington e gli lesse in volto un’espressione indecifrabile, le iridi verdi puntate sul segno livido lasciato dalle disgustose mani del suo aggressore. “Voleva ucciderti” le sussurrò infine. “Ma tu non gliel’hai permesso.”

No, io gli ho tolto la vita… ed è una cosa diversa.

Saffie gli rispose scuotendo la testa castana, come se volesse negare le parole dell’ammiraglio, e abbassò gli occhi sull’ampio torace di lui, trattenendosi dallo scoppiare in lacrime davanti a tutti: sarebbe stata una reazione naturale, ne era consapevole…eppure, le sembrava di sentire ancora la voce di suo padre dentro di sé.

…il più forte è colui che vuole sopravvivere a tutti i costi.”

Come se si fosse accorto solo in quell’istante dello stato pietoso in cui giaceva la Duchessina, Benjamin si raddrizzò di scatto e la fissò ad occhi spalancati, colto da un improvviso allarme. “Signora Worthington!” la chiamò, cominciando a incamminarsi nella sua direzione con urgenza. “Dovete assolutamente lasciare che vi dia almeno un’occhiata, pure se dite di essere illesa. Spostatevi, Ammiraglio.”

Decidendo di soprassedere sul tono autoritario usato dal dottore, Arthur fece per alzarsi in piedi, ma fu trattenuto dalla stretta nervosa delle piccole dita di Saffie che, fulminee, si aggrapparono al tessuto della sua giacca blu con forza.

“Ti prego…no.”

Era stato solo un basso pigolio pietoso, uscito di getto dalle labbra tremanti di una Saffie che, ugualmente, si detestò per il suo gesto impulsivo: di nuovo, era cosciente di stare attraversando un invisibile confine, del fatto che Worthington non poteva sopportare di essere toccato da lei; eppure, in quel disperato frangente, le sembrò di riconoscere solo il tanto odiato Arthur, in mezzo ad un contesto totalmente estraneo.

“Saffie Lynwood, voi non sarete mai nemmeno la metà di quello che è stata Amandine”.

Ancora non hai imparato a stare al tuo posto?

Ma, questa volta, l’ammiraglio non la respinse affatto. Senza una parola, Arthur allungò una mano verso la figura di Benjamin Rochester, fermandolo immediatamente sui suoi passi; e lo stupore della ragazza fu infine enorme, nel vedere gli occhi chiari di Worthington tornare a guardarla con quella che poteva essere scambiata per vera gentilezza. No, si disse Saffie, lui non l’aveva mai guardata in quel modo.

Non era mai stato per lei, quello sguardo dalla profondità incredibile.

“Qualsiasi cosa sentirai là fuori, non guardare.”

La Duchessina di Lynwood non comprese subito le parole dell’uomo, ma ebbe modo di farlo nell’istante in cui si sentì sollevare da terra con un unico gesto leggero: come se fosse stata fatta di piuma, Arthur l’aveva presa in braccio senza alcuno sforzo e l’uomo era tanto più imponente di lei, che a Saffie parve di essere una bambina indifesa al suo confronto. Malgrado la statura minacciosa di Worthington, la ragazza sentì nuovamente lo strano tepore rassicurante di poco prima e decise quindi di dare ascolto all’ammiraglio, girando il viso smunto e annuendo piano contro il tessuto della sua divisa dorata.

“Ripulite tutto” lo udì ordinare in tono monocorde, probabilmente rivolto alle guardie in muta attesa sulla soglia della stanza. “Tenente Chapman, assicuratevi che il capitano Inrving si mantenga sulla scia della mia nave.”

“Muoia all’inferno, se ha dimenticato chi è l’uomo che l’ha cresciuto!”

Un tuffo al cuore tradì Saffie, ma lei fu fin troppo brava a tenere gli occhi spaventati ben nascosti dietro alle palpebre, il volto seppellito nel petto ampio del marito. Perché sapeva cosa avrebbe udito, una volta arrivati sul ponte sopracoperta, e non voleva assistere ad altre scene di morte o essere preda dell’orribile senso di colpa che ora stava consumando il suo cuore…non voleva sentire più niente.

Una brezza fredda aggredì la sua pelle, facendole venire la pelle d’oca, e fu molto peggio di quanto aveva temuto: il nauseante odore di sangue era ovunque, forte e aspro, mentre i lamenti che fino a un’ora prima poteva dire di sentire in maniera confusa quanto ovattata, ora gridavano angoscianti a nelle sue orecchie.

Ringraziò il cielo per la camminata veloce di Arthur che, a grandi falcate, provvedeva a raggiungere gli alloggi degli Ufficiali senza guardarsi indietro; la Duchessina non desiderava infatti ascoltare i tremendi frammenti di discorso che – impietosi – sembravano arrivarle direttamente dal cielo.

“Dobbiamo amputare, se non…”

“…no, i corpi restanti buttateli direttamente in mare.”

Animali. A quanto pare, dovremo promuovere un nuovo nostromo.”

Al suono di quest’ultima parola, Saffie fu incapace di trattenersi e socchiuse gli occhi castani, pentendosi immediatamente di averlo fatto: le sue iridi caddero sul tozzo Shaoul Brown e vide che giaceva inerme a terra, lo sguardo sempre incollerito ora appannato da un velo grigio, definitivo; ma non si era trattato solo di questo, perché il corpo dell’uomo era stato fatto letteralmente a pezzi.

“Il si-signor Brown...” cominciò a balbettare, aggrappandosi alle spalle di Worthington senza rendersene nemmeno conto. “Il-il signor Brown è…”

L’ombra di cinque dita lunghe entrò nel suo campo visivo all’improvviso, oscurando del tutto i suoi occhi lucidi di terrore.

“Ti ho detto che non devi guardare” le sibilò Arthur, lasciandosi sfuggire una nota di malcelata rabbia nel tono di voce tinto di inossidabile indifferenza.

Per fortuna, a nessuno venne in mente di fermare l’ammiraglio e i due arrivarono finalmente all’alloggio della ragazza, dopo un tempo che ad entrambi era parso pressoché infinito. L’uomo entrò nella cabina senza curarsi di nessuna cerimonia o formalità e i suoi occhi verdi si incatenarono subito con quelli ansiosi di una Keeran Byrne in preda alle lacrime.

“Sia rin-ringraziato Idd-dio!” urlò la diciassettenne, alzandosi in piedi di scatto e attirando l’attenzione della Duchessina di Lynwood, che si voltò a guardarla come se l’irlandese fosse l’incarnazione di un angelo del Paradiso. “Signora Saffie! Si-siete salva!”

“Anche tu, Keeran” fece debolmente quest’ultima, forzando le sue labbra a piegarsi leggermente all’insù. “Ne sono felice.”

“Ma que-quel sangue!”

“Non è il suo” spiegò bruscamente Arthur Worthington, lasciando con delicatezza la presa sul corpo esile della moglie, aiutandola così a mettersi a sedere sul morbido letto a baldacchino. “Serva, vai a preparare un bagno caldo alla tua padrona. Subito.”

Gli occhi dell’interpellata fremettero di incertezza e la ragazza mora lanciò un silenzioso sguardo di smarrimento in direzione di Saffie che, dal canto suo, annuì appena con la testa. “Vai pure, Keeran” acconsentì la Duchessina, sommessamente. “Io sto bene.”

Meschina e bugiarda. Come puoi pronunciare queste parole dopo quello che hai fatto?

Dopo un nervoso e veloce inchino, Keeran si precipitò fuori dalla camera, lasciando soli un Arthur e una Saffie che, in effetti, non sapevano bene cosa potersi dire. Un silenzio strano cadde fra loro e sembrò come se l’esistenza del confine si facesse nuovamente visibile, palpabile persino: non era più solo il rancore e il senso di colpa a imprigionarli, ma bensì un groviglio di non detto difficile da sbrogliare.

“La mia serva ha un nome” buttò lì la ragazza, senza nemmeno sapere il perché, mentre il suo sguardo scuro precipitava verso il basso, alle sue dita intrecciate sulle ginocchia. “Si chiama Keeran Byrne.”

Uno sbuffo seccato provenne dall’alto, così come il commento piatto di Worthington: “Anche in un momento come questo, la tua lingua lunga non ti smentisce mai”.

Saffie non rispose e nemmeno alzò la testa per guardarlo, perdendosi in questo modo l’opportunità di scoprire che – ancora – gli occhi verdi dell’uomo erano puntati su di lei con pensoso interesse. Un doloroso sentimento si contorceva infatti tra le pieghe dell’animo di Arthur e non gli dava pace alcuna, perché egli lo sapeva già da un pezzo che era stata tutta colpa sua.

No, si disse l’uomo, non era solo questo.

“Sto per farti tanto di quel male che vorrai solo crepare, marmocchio.”

La piccola strega gli aveva rammentato un ragazzino gracile e spaventato, in attesa della morte. Un passato ormai dimenticato, dove lui aveva dovuto scegliere se essere preda o predatore.

E si era ricordato che quel bambino aveva infine scelto di sopravvivere, buttandosi ad occhi chiusi dentro all’abisso.

“Se la signorina Saffie Lynwood non sia più simile a te di quanto credi.”

Una mano grande si protese lenta verso Saffie, i polpastrelli tesi a sfiorarle il viso pallido e tremante.

“Ammiraglio!”

Arthur Worthington rinsavì di botto e ritrasse il braccio all’istante, voltandosi con il busto nella direzione della voce seria che l’aveva chiamato e lanciando contemporaneamente una delle sue migliori occhiate taglienti alla porta dove, improvvisamente pietrificato dalla soggezione, stava la figura di un giovanissimo sottotenente. “Perdonate l’intrusione” fece subito quest’ultimo, scattando sull’attenti “Ma il capitano chiede urgentemente di voi, afferma di non poter aspettare oltre”.

“Così sia, allora” sillabò Worthington, senza curarsi di nascondere il suo disappunto.

In questo scambio di battute, Saffie era rimasta a testa china e pensieri spenti, cercando di dominare sia il pianto imminente, sia la voce insistente che l’accusava di essere un’orribile assassina. Non si era accorta del tormento presente nel cuore del detestato Ammiraglio, ma non poté non accorgersi del cappotto blu che venne adagiato sulle sue piccole spalle scosse dai brividi: l’accecante simbolo di potere del Generale Implacabile la avvolse del tutto, come una coperta confortevole e rassicurante.

“Hai salvato una vita, oggi. Sei stata molto coraggiosa, Duchessina.”

Piena di sorpresa, la ragazza alzò lo sguardo luminoso su Arthur, giusto in tempo per vedere la sua ribelle chioma scura sparire dietro la porta. Un silenzio fatto di suoni ovattati e lontani si fece sentire attorno alla Duchessina, lasciata sola a fare i conti con sé stessa.

“Ti ha fatto del male?”

Le sue dita piccole sfiorarono le rifiniture dorate della giacca di Worthington, mentre Saffie si lasciava cadere di lato sul materasso pulito e profumato. Il suo viso affondò nel tessuto di quella stessa divisa che lei aveva sempre dichiarato di detestare – forse più dell’uomo che l’indossava – e un tepore gentile la accolse subito in un morbido abbraccio.

“…sei stata molto coraggiosa, Duchessina.”

Un rossore leggero invase le gote della ragazza, al pari passo con le lacrime che finalmente cominciarono a scendere copiose dai suoi occhi castani, inumidendo la pregiata stoffa della giacca di Arthur. “È così calda” commentò a bassa voce Saffie, stringendola a sé.

Non è mai esistita, né esisterà mai, una persona del genere.

“Io e voi siamo molto diversi, non è così?”

E pianse, pianse per ore intere, perché il suo cuore non era più sicuro di niente.





Angolo dell’Autrice:

Dunque, sembrerebbe giunto il primo punto di svolta della storia.

Intanto, buonasera! :D

Non sapete quanto sono felice di poter pubblicare questo capitolo e di essere riuscita a farlo entro il limite di tempo che mi ero prefissata! Urrà!

Per una scadenza rispettata, c’è un altro condizionamento che invece non sono riuscita a rispettare: il numero di pagine minimo in cui ho deciso di suddividere i vari capitoli. Di solito cerco di non superare mai le diciotto pagine, ma questo capitolo me ne ha prese una ventina! (-.-)’’

Ho provato a dividerlo in due, ma non avrebbe avuto alcun senso e credo sarebbe andato a perdersi molto dell’insieme di ciò che accade…oh, ma a proposito!

Che ne pensate di questa settima parte? Vi è piaciuta? :D

Io spero tanto di sì perché, per quanto mi riguarda, rappresenta un momento chiave del racconto: non credo che Saffie ed Arthur riusciranno a guardarsi come prima, no?

Oh, non vedevo letteralmente l’ora di arrivare a scrivere questo capitolo (sadismo?) che, in effetti, avevo bene in niente fin dal principio! Pure se, devo ammetterlo, spero di essere riuscita a trasmettervi qualcosa, ad emozionarvi ecco!

Detto ciò, vi ringrazio di tanto per aver dato una possibilità a questa storia, di avermi lasciato una recensione (mi si scalda il cuore, sul serio), di averla votata (per chi mi ha trovata, nascosta tra i misteriosi algoritmi di Wattpad) e di aspettare con pazienza un capitolo al mese. Io spero sempre ne valga la pena, davvero.

Quindi, se vi va, fatemi sapere le vostre impressioni!

Come sempre, farò il possibile per pubblicare entro fine Novembre!

Un abbraccio virtuale,

Sweet Pink


Post Scriptum: Ma quanto sono carini Saffie e Arthur nell’ultima parte del capitolo? (*w*)

Sì, sono un fangirl dei miei stessi personaggi, lo ammetto.

  
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