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Autore: Chiaroscura69    07/11/2021    0 recensioni
Riflessioni cupe, a volte affrante, altre volte apatiche, dettate dal mio malessere
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ho varcato la soglia del possibile fino a confondere quali impulsi mi manda il mio più profondo io e quali mi vengono inviati dall’esterno. Sentire troppe voci intorno dà alla testa e mi porta alla perdizione totale di ogni convinzione assunta. La mia esperienza mi ha insegnato che la mia esperienza è totalmente inutile. Ognuno ha una sua verità e la mia è irrimediabilmente confusa nel miasma delle sfumature che ho conosciuto e ho deciso di accettare nella loro oggettività, ma alcune sono paradossali, opposte. Mi sono guardata improvvisamente dentro e ho avuto ancora paura. Una sensazione che non avrei mai voluto provare di nuovo scrutandomi in profondità.

Eppure, non mi concedo nessuna pausa.

Nel cervello si trova una zona, chiamata amigdala, che custodisce tutte le esperienze provate. È utile, perché quando ci sentiamo in pericolo ci proietta immagini già viste, riproduce nel corpo sensazioni già provate, e ci mette in allarme. A quel punto si possono fare principalmente due cose: scappare o combattere. Personalmente non sono mai stata brava a combattere, ma ora non è questo ciò che mi confonde. È che non riesco più a valutare l’oggettività del pericolo che corro. È tutto nella mia testa? Sono io che sto impazzendo?

Mi sento così sola.

Mi sembra di procedere a tentoni, mentre cerco di comprendere questo mondo lui mi inghiotte così profondamente che ne divento un ingranaggio, una pedina per rendere ancora una volta tutte le dinamiche sociali, funzionali, antropologiche, realizzabili. Ma io non le condivido, non mi piacciono, non mi ci trovo. Mi sento sempre un pesce fuor d’acqua nelle dinamiche della vita. Non sono mai al momento giusto nel posto giusto, non dico mai ciò che è giusto dire in quel momento. Guardo le cose in direzione diagonale rispetto al prossimo, noto l’imperscrutabile e mi sfugge la sostanza di ogni cosa.

Mi sento così inadeguata.

Tutti mi guardano, ma non mi ascoltano e tutti mi parlano, ma non mi ascoltano. Sembra che io sia una dispensa dove abbandonare i pensieri scomodi, i problemi irrisolvibili, i traumi mai superati. A fine giornata la capienza è ridotta ad un angolino per il mio magone e nulla di più, ma non c’è nessuno che mi lascia un po’ di posto nella sua dispensa. Io archivio dati altrui e il mio corpo li smaltisce in mille lacrime e sorrisi mancati. E io sono stanca di non sorridere più per davvero. Quando la luce che emana il tuo sorriso illumina solo gli altri inizi a scoprirti più oscura, più celata, più sottesa, quasi trasparente. Semplicemente a volte mi chiedo se agli altri importerebbe di me se anche io non gli ascoltassi. Se li guardassi con quegli occhi spenti con i quali fingono di osservarmi, se anche io ai loro sfoghi d’animo rispondessi con singhiozzi di frasi mai nate, vorrebbero ancora avermi intorno?

Eppure, mi piace guarire.

Ho sempre pensato che ogni persona in questo mondo abbia una funzione ben definita, al termine della quale si estingue il suo compito e lascia la Vita nel giusto. La mia visione da agnostica meccanicistica non è priva di falle e punti interrogativi, ma credere in questo mi fa pensare che ciò che faccio, ciò che sono, non sia una mia colpa e quindi che non possa fare altrimenti. Io guarisco: ho le mani da guaritrice, ho gli occhi che abbracciano, parole gentili, sorrisi splendenti e il puro desiderio di far sbocciare risate. Questo è il lato di me che piace agli altri. Ed è, in effetti, la cosa che so fare meglio. Instaurare legami di fiducia mi vien facile come respirare: c’è qualcosa in me che induce all’apertura, c’è qualcosa in me che mi induce all’ascolto.

Eppure, non riesco più ad assorbire nulla.

Vorrei solo lasciarmi questa vita alle spalle e iniziarne una dove la mia funzione sia differente e riposante. I miei occhi stanchi nascondono il male da troppo tempo. Ma io non conosco un modo inoffensivo per smaltire questo dolore. Così lo lascio lì a sprofondarmi di occhiaie e sospiri. Non riesco più ad alzare la testa e guardare la volta del cielo con la speranza che si mi infila fra le ciglia, mi avviluppa i capelli, mi riscalda di gioia. Non vedo più la mia immagine lanciata sulla Vita, non mi vedo più a viverla fra dieci anni, come l’ho sempre immaginata. Forse è arrivato il momento di lasciar perdere desideri del passato, arrendersi al fatto che la realtà non l’ho plasmata io e in nessun modo posso cambiare ciò che il destino ha scelto per me.

Eppure, io rimango sempre nello stesso posto.

Il glorioso futuro a lungo pianificato e vagheggiato mi guarda da una realtà parallela e ride di me. Mi sbeffeggia continuamente. Mi mostra ciò che sarei voluta diventare a questo punto della mia vita. Tutti mi lasciano, il tempo scorre. Io sono la mia unica costante, sono l’unico essere vivente che non cambia. L’unico cambiamento che si produce in me è la crescita biologica. La mia mente rimanda costantemente al passato. Una volta una persona che conoscevo mi disse che la malinconia lo annoia, le persone che hanno ancora gli occhi nel passato lo intristiscono. Ma il passato è l’unica cosa che mi rende felice perché è l’unica cosa che posso plasmare a mio piacimento, fondendo la realtà con le mie sensazioni.

Eppure, è traumatico svegliarsi.

Un giorno, improvvisamente, smetti di vagheggiare il tuo futuro meraviglioso e smetti di dilatare all’infinito il tuo passato: sono realtà troppo distanti. E il presente si affaccia con la potenza di una bomba atomica, ti schiaffeggia con la sua ineluttabilità. Non posso fingere di essere morta, ma lo vorrei. Vorrei una pausa da questa vita che mi ha gettata qui senza gli strumenti atti a viverla. La mia forza si piega con l’infuriare del vento, non ho più molta resistenza. Forse perché, fondamentalmente, non credo più di potercela fare. Ogni volta che chiudo gli occhi un velo di dolore grigio come il cemento, pesante come il piombo, mi devasta.
   
 
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