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Autore: IndianaJones25    12/11/2021    2 recensioni
Gli anni sono trascorsi, lenti ma inesorabili. Anche per il professor Henry Jones, Jr. sembra essere giunto il momento di appendere la frusta al chiodo e di dire addio alla vita avventurosa. L’intrepido archeologo giramondo, ormai, è diventato un anziano signore che porta addosso i segni, i dolori e i ricordi dolceamari della sua spericolata vita passata.
Ma c’è ancora chi sembra avere bisogno di lui e Indiana Jones non è certo il tipo da tirarsi indietro dinanzi a una minaccia che potrebbe sconvolgere il mondo intero. Così, in compagnia di sua figlia Katy, di una giovane bibliotecaria e di un prete dal grilletto facile, Indy torna a impugnare la frusta e si getta a capofitto in un’ultima impresa, al cui termine potrebbe trovare la speranza di un nuovo inizio oppure una disastrosa rovina.
La lotta sarà difficile e insidiosa, perché l’ultimo vero nemico di Indiana Jones non saranno eserciti o folli invasati, ma proprio la sua irresistibile voglia di avventura…
Genere: Avventura, Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Henry Walton Jones Jr., Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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   16 - Tra presente e passato
 
    Vica, Bosnia ed Erzegovina, Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia

   Katy sedeva rigida, le mani raccolte in grembo, lo sguardo attonito. Fissava il vuoto, persa a inseguire mille pensieri contrastanti di cui non riusciva a distinguere i contorni e che la trasportavano di continuo in luoghi e tempi differenti.
   Si rivedeva piccola, quando fingeva di giocare con le bambole nella sua cameretta, le orecchie tese per ascoltare tutti i rumori della casa. Quando, finalmente, sentiva il click della abat-jour che si spegneva nella camera da letto dei genitori, sapeva che il momento tanto atteso si stava avvicinando. Aspettava ancora una manciata di minuti, ascoltando i respiri farsi lenti e regolari, e poi sgusciava silenziosa come un gatto fuori dalla porta. I suoi piedini nudi non producevano nessun tipo di rumore sulle fredde assi del pavimento mentre si avvicinava di soppiatto allo studio di papà. La porta era sempre chiusa a chiave, e la chiave era custodita nel cassetto del comodino accanto al letto matrimoniale: un accorgimento che papà aveva sempre preso per impedire a lei ad Abner di entrare da soli in quel luogo pieno di oggetti potenzialmente pericolosi, oltre che troppo fragili per poter finire tra le mani di bambini di cinque o sei anni.
   Ma se Indiana Jones si credeva furbo, sua figlia era capace di batterlo in astuzia. A Katy non era servito molto per scoprire che, tutte le porte interne della casa, avevano una serratura standard, e che quindi una chiave qualsiasi sarebbe andata bene per aprirle praticamente tutte. Perciò le era bastato prendere quella della sua stanza, che a suo tempo era stata tolta e riposta in un cassetto insieme a varie altre cianfrusaglie dimenticate, e farne il suo lasciapassare garantito.
   Ogni notte, allora, si avvicinava alla porta dello studio, inseriva il suo personale passepartout, lo girava con lentezza quasi esasperante per non provocare scatti troppo rumorosi, ed entrava in quella stanza che, per lei, equivaleva alla caverna delle meraviglie in cui era disceso il piccolo Aladino.
   Lì di lampade magiche, a dire il vero, non ce n’erano, eppure vi era un’immensa quantità di altri oggetti altrettanto curiosi e affascinanti, su cui i suoi occhi si posavano con ammirazione e stupefazione. Le sue esili dita toccavano, accarezzavano, sfioravano quella raccolta incredibile, senza paragoni.
   I tesori erano ovunque. Accumulati sugli scaffali, in mezzo a libri dai titoli curiosi ed evocativi, c’erano statuine dall’aspetto misterioso, punte di freccia, raschiatoi per pelli, cocci, vasi mezzi rotti e persino un’anfora nera a figure rosse ancora intatta, che raffigurava Achille, il grande ed elaborato scudo appeso al braccio, impegnato a inseguire Ettore sotto le mura di Ilio.
   Gli occhi sgranati di Katy studiavano quelle forme, le sue mani le sfioravano, il suo visetto si illuminava di gioia infantile e la sua mente cavalcava nelle praterie del tempo, domandandosi quali altre mani e quali altri occhi avessero indugiato su quegli stessi oggetti. Storie incredibili, sulle quali avrebbe potuto fantasticare per ore, vivendo mirabolanti sogni a occhi aperti.
   Una vetrinetta d’angolo raccoglieva una collezione di monete provenienti da chissà quale luogo lontano, alcune bucate nel centro, tutte ricoperte da scritte misteriose di cui non comprendeva il significato, appena distinguibili attraverso la patina verde che le aveva ricoperte. Nell’angolo, una cassa di legno ospitava frammenti di ceramica polverosi ancora da catalogare, e proprio lì accanto un mobiletto era dedicato ad alcune fragilissime pergamene da cui pendevano dei cartellini ingialliti.
   La parte della stanza dove maggiormente le piaceva di più andare a curiosare, però, era senza dubbio la grande scrivania di rovere, posta davanti alla finestra. Era sempre ingombra di oggetti di vario genere: piccole cassette di legno contenenti strani manufatti, diagrammi con misure e calcoli, righe e matite, lenti di ingrandimento e antichi manufatti che avevano una certa importanza per gli studi in corso; e, i pochi angoli della superficie lasciati liberi, davanti alle cornici argentate delle fotografie del nonno e di altre persone che lei non aveva mai conosciuto, erano ricoperti da disegni appena schizzati, mappe e appunti scribacchiati a mano, rivelatori della prossima impresa di papà.
    Katy rimaneva per delle ore intere a gironzolare per lo studio, curiosando ovunque, ficcando il suo grazioso nasino tra mille segreti. Di tornarsene a letto e mettersi a dormire, visto che il giorno dopo si sarebbe dovuta svegliare presto per andare a scuola, non ci pensava nemmeno. Sognava di partire insieme a suo padre, di accompagnarlo in qualcuna delle sue avventure, avrebbe tanto voluto diventare archeologa come lui. E fu proprio tra quelle raccolte che promise a se stessa che quella sarebbe stata la sua strada, una promessa che, alla fine, dopo duri studi, era riuscita a mantenere.
   Ora quei momenti le sembravano lontanissimi, cristallizzati in un’epoca che si sgretolava a poco a poco. Alla gioia del passato si sommava il dolore incontenibile del presente. Doveva concentrarsi sui suoi ricordi, perché se pensava a ciò che stava accadendo adesso, si sentiva stringere le viscere da una gelida morsa d’acciaio che le toglieva il fiato. Non aveva nemmeno più la forza per riuscire a piangere.
   Diede un’occhiata alla porta chiusa di fronte a sé. Erano in una vecchia ma bella e pulita casetta ai margini di una foresta, circondata da un orticello ben curato. Vicino alla porta, seduto sopra una panca, don Mavro – deposto finalmente il Kalashnikov e ritrovata la sua solita pacatezza da prete – leggeva il suo breviario, muovendo in silenzio la bocca. Sopra alcuni sgabelli lì accanto, tre donne con il capo coperto dai fazzoletti colorati sgranavano il rosario, recitando gli avemaria. Una, più anziana, era la moglie del padrone di casa, il dottor Obradovic, e le altre – una ragazza sui venticinque anni e una più giovane, ancora adolescente – erano due delle sue tre figlie. Valerija, dopo averle tenuto la mano stretta per un po’ di tempo, aveva compreso di doverla lasciare da sola e si era unita a loro, cominciando a pregare a mezza voce.
   Katy era loro grata, perché stavano pregando per suo padre. Sapeva benissimo che lui era un miscredente – “un ateo impenitente dalla nascita e che non demorde nemmeno ora che sta diventando vecchio come il cucco” diceva sempre la mamma, specialmente quando lo sentiva bestemmiare per qualcosa – eppure si sentiva sicura che persino lui, se avesse saputo che quelle preghiere erano recitate per il suo bene, avrebbe ringraziato.
   Alcuni uomini erano accorsi molto in fretta alla chiamata urgente di don Mavro. Avevano messo insieme una barella improvvisata e se ne erano serviti per trasportare l’archeologo esanime giù per il pendio, fino a un furgone, che era partito subito. Le due ragazze e il sacerdote, dopo aver ricevuto i primi soccorsi per le loro ferite, per fortuna non gravi, erano stati fatti salire sull’automobile di don Mavro, alla cui guida si era messo un altro dei ribelli, che si era avviato dietro il furgone. Gli altri erano rimasti alla piramide, con l’incarico di far scomparire i cadaveri di Pavkov e degli agenti dell’OZNA e di sigillarne l’ingresso.
   Il dottor Obradovic era un uomo robusto e spiccio, di piena fiducia. Per lui non esistevano comunisti o ribelli: per lui c’erano solo i feriti e gli ammalati bisognosi delle sue cure. Aveva accolto tutti senza troppe cerimonie e, dopo un primo esame alla ferita di Indy, si era chiuso con lui e con la sua figlia maggiore, che faceva da infermiera, nel suo ambulatorio. Da quel momento le ore avevano iniziato a trascorrere interminabili e angosciose, scandite con esasperante monotonia dall’antiquata pendola accostata alla parete. La molla del meccanismo interno doveva essere guasta, perché allo scoccare dei quarti, delle mezz’ore e delle ore non suonava mai.
   Katy di quando in quando tendeva le orecchie, cercando di cogliere qualche rumore provenire da dietro la porta chiusa. Non riusciva a udire altro che le sommesse preghiere di Valerija e delle altre tre donne e il ticchettare incessante del vecchio orologio.
   Da quando erano giunti non si era più mossa da quella sedia. Non faceva alcun caso ai muscoli intorpiditi della schiena, alle gambe che cominciavano a muoversi in scatti incontrollabili. Aveva soltanto accettato il bicchiere d’acqua che Fata, la graziosa ragazza adolescente, le aveva versato su sollecitudine della madre. Lei aveva ringraziato con un filo di voce appena udibile, e da quell’istante non era più nemmeno riuscita a dire nulla.
   Era terrorizzata. Non poteva credere che stesse accadendo davvero. Quelle erano cose che potevano succedere a chiunque, a ogni persona sulla faccia del pianeta, persino a lei, ma non a suo padre. Suo padre era invulnerabile, indistruttibile. Non era una questione di età, ne era certa. Per Indiana Jones l’età non significava assolutamente nulla. Nessuno poteva batterlo, soprattutto non un infido damerino che lo colpiva a tradimento mentre lui si chinava per vedere se potesse in qualche modo salvarlo.
   Una nuova lacrima le solcò la guancia, poi un’altra e un’altra ancora. Alzò gli occhi e, attraverso il velo acquoso del pianto, vide la porta restare ostinatamente chiusa. Cominciava a mancarle l’aria e il monotono risuonare delle preghiere, che dapprincipio l’aveva rincuorata, iniziava a infastidirla. Si alzò in piedi. Doveva uscire a prendere una boccata d’ossigeno fresco.
   Valerija la guardò, incerta. Voleva ancora restare da sola? No, Katy aveva bisogno di averla vicino. Tese la mano verso di lei e la ragazza si alzò. La prese e la condusse con sé attraverso l’atrio. Uscirono in giardino.
   Era notte fonda, ormai. La brezza che soffiava dai monti era fredda e profumata d’umidità e la foresta circostante era una pennellata di nero impenetrabile. Il cielo era solcato da lunghe nubi sfilacciate, grigiastre nell’oscurità, che qua e là si squarciavano lasciando intravedere alcune stelle delle costellazioni autunnali. Orione, seppure attraversato da una lunga e vaporosa scia, dominava su tutti nella sua eterna lotta contro il Toro in carica per la conquista delle sette Pleiadi, le dolci sorelle figlie di Atlante.
   Senza lasciare andare la sua mano, Katy si aggrappò a Valerija e la strinse a sé in un abbraccio. Aveva bisogno di sentirsi protetta, confortata. Anche se si conoscevano soltanto da pochi giorni, anche se aveva creduto che ciò che era accaduto tra di loro fosse stato soltanto una forma di divertimento, come con tutte le altre, ora sentiva improvvisamente di amarla. Forse era soltanto una pazzia, una sensazione passeggera accresciuta dalla paura. Probabilmente era solamente la necessità di sentire accanto a sé una persona importante, magari era solo una mera illusione.
   Non aveva importanza. Ora contava soltanto ciò che credeva, non ciò che corrispondeva al vero. Aveva bisogno di lei e per questo le si aggrappò con tutto il proprio essere, come se cercasse di fondersi in lei. Cercò la sua bocca, vi affondò le sue labbra riarse dalla stanchezza e dalla tensione e così restarono per un tempo indefinito, immerse nel silenzio e nel freddo della notte, quel freddo che si annullava nella vicinanza dei loro corpi.
   Ancora una volta la sua mente viaggiò nel passato.
   Rivide il giorno in cui aveva trovato il coraggio di confessare a suo padre che le piacevano le ragazze, che si sentiva attratta da loro. Lo aveva scoperto, raccontò, perché Lorene, una sua compagna di classe a cui era molto affezionata, quando l’aveva saluta per l’ultima volta l’aveva baciata con trasporto, sulla bocca. In quel momento si era resa conto di una verità che aveva sempre negato persino a se stessa: quel bacio era ciò che desiderava da tanto tempo.
   Aveva temuto a lungo di dover fare quella confessione. Suo padre, in fondo, era un uomo piuttosto avanti con gli anni, apparteneva a un’altra generazione rispetto ai genitori dei suoi amici, perché lui e la mamma si erano sposati tardi, tanto che quasi nessuno – nessuno, tranne loro due – si sarebbe aspettato che avrebbero potuto avere dei figli. Katy sapeva che il suo papà era uno studioso dalla mente aperta, ma si chiedeva spesso fino a che punto. Aveva avuto paura della sua reazione. Temeva che l’avrebbe presa male, che non l’avrebbe capita, che avrebbe creduto di aver cresciuto una psicopatica, una specie di mostro anormale, con qualche strana tara nel cervello. Eppure sapeva anche di non poter vivere per sempre con quel segreto nel cuore.
   Alla fine, ancora adolescente, era riuscita a trovare il coraggio necessario ad affrontare l’argomento, seduta sul seggiolino di un aereo di linea della Pan Am, mentre tornavano a casa da un viaggio in Perù. Lei e suo padre si erano avvicinati molto, nel corso di quel viaggio indimenticabile, e si era detta che, se non lo avesse fatto in quel momento, non ci sarebbe riuscita mai più. Dopo aver preso un lungo e profondo sospiro, aveva parlato tenendo la testa rivolta al finestrino, guardando le nuvole e desiderando di fondersi con esse mano a mano che la sua lingua continuava ad articolare le parole proibite.
   Quando aveva finito, si era sentita toccare la spalla con garbo e si era voltata, pronta ad affrontare una sfuriata. Suo padre sogghignava. Una volta di più, Indiana Jones era riuscito a sorprenderla con il suo sarcasmo.
   «Ti capisco perfettamente» aveva sussurrato, con tono di complicità. «Anche a me piacciono le ragazze, lo sai, no? Comprendo benissimo che cosa ci trovi, e mi chiedo come sia possibile che ci sia gente che non perde la testa per loro…»
   Katy aveva fatto un pallido sorrisetto e Indy, stringendo un po’ più forte la presa sulla sua spalla, aveva soggiunto: «Forse non te l’ho mai detto, ma a mio padre – tuo nonno Henry – piaceva il tè. Lo faceva letteralmente impazzire. Ne beveva una tazza appena gli era possibile. Io quella specie di brodaglia marronicina non l’ho mai potuta sopportare, neppure quando mi ammalo. Toglietemi tutto, dico io, ma non i miei tre caffè al giorno…»
   «Papà…» aveva mormorato con una vocina sottile la ragazza. Indy non le aveva permesso di continuare.
   «Hai presente quando a casa mangiamo la torta? Tua madre si ostina a prepararla sempre e solo alle mele, perché a lei piace così. Dice che al cioccolato non le va proprio giù. Io ci vado matto, per la torta al cioccolato, e quando ne ho voglia mi tocca andare a ordinarne una fetta al ristorante.» Le strizzò l’occhio. «Ognuno ha i suoi gusti, no? Non c’è proprio nulla di male, in questo.»
   «Old J, non è la stessa cosa!» aveva finalmente trovato il coraggio di sbottare la ragazzina. «Tu parli di torte e di caffè, ma non è affatto lo stesso! Tu mi dici che anche a te piacciono le donne, ma questo è normale: tu sei un uomo! È nel mio caso che non è norm…»
   Indy l’aveva zittita posandole con garbo il dito sulle labbra perennemente screpolate. Aveva rivolto un’occhiata al didietro ancheggiante di una hostess appena passata nel corridoio accanto ai loro sedili, ed era tornato a guardare la figlia.
   «Katy, amore mio, ci sono moltissime cose che io non so e non saprò mai» disse, con tono profondo e cavernoso. «Riconosco la mia ignoranza. Ma una credo di averla imparata molto bene. Ho girato il mondo in lungo e in largo, ho visto una quantità di cose che neppure puoi immaginarti, ho avuto a che fare con centinaia… ma che dico, con migliaia di persone. E la sola cosa che ho capito è la più importante di tutte: quella che noi definiamo “normalità”, in realtà non esiste affatto. Non è nascosta da nessuna parte, la natura non l’ha prevista. Ce la siamo inventata perché faceva comodo così. Ma è una nostra idea sballata, senza senso. Esistono soltanto le convenzioni e il modo in cui ciascuno di noi le mette in pratica. E le convenzioni sono soltanto delle stupidaggini vecchie e inutili, mirate a distruggere la libertà di ciascuno di noi di poter esprimere se stesso. Sai cosa devi fare, di tutto ciò che viene considerato la normalità? Devi farne un fagotto e buttarlo via.»
   Katy, in quel momento, si era sentita scaldare il petto da un fuoco dolcissimo, che si era attizzato ancora di più quando suo padre, sollevato il bracciolo che separava i due sedili, l’aveva presa tra le braccia e l’aveva stretta. Non si era mai sentita così bene come in quel momento. Si era tolta un peso dal cuore e suo padre non solo le aveva detto che era stato sempre un peso inutile, ma le stava dimostrando di volerle sempre bene, senza che quella confessione cambiasse qualcosa tra di loro. Perché lei era sempre lei e nulla avrebbe potuto mutare l’affetto che li univa.
   Ora, mentre stringeva e baciava Valerija, quasi sul punto di restare senza fiato, Katy piangeva e rideva ripensando a quei momenti. La ragazza, sorpresa, la lasciava fare, lasciando che lei le riempisse la bocca con la sua lingua nervosa e bisognosa di attenzioni, mentre la sua mano l’accarezzava con delicatezza sulla schiena.
   Più difficile, semmai, era stato dirlo alla mamma. Marion aveva avuto una vita piuttosto difficile, da giovane, e per la sua unica figlia femmina sognava un futuro da principessa, un matrimonio da fiaba. Katy non ne voleva affatto sapere, ma non era riuscita in nessun modo ad aprire bocca dinnanzi a lei per dirle la verità. Dopo due anni da quel viaggio in aereo, due anni durante i quali Indy si era rivelato il miglior complice del mondo mantenendo il segreto con il silenzio più assoluto, non le aveva ancora detto nulla. Ma stava diventando un assillo, al punto da toglierle il sonno e riempirle la cute di forfora fastidiosa per lo stress.
   Ancora una volta, era stato quell’eterno ragazzino di suo padre a venirle incontro, con una trovata delle sue.
   «Katy, è giusto che la mamma sappia» le disse un pomeriggio, mentre Marion era fuori casa, impegnata al bar che gestiva. «Non tanto perché sia una cosa fondamentale, eh» soggiunse, con aria ironica, «ma, almeno, la smetterà una buona volta di tormentarmi tutti i giorni sul fatto che sarebbe meglio che tu ti cercassi un fidanzato, possibilmente ricco.»
   «Io ci ho provato, papà» aveva sussurrato Katy, seduta sulla sponda del letto, con le mani strette tra le cosce. «Non ci riesco. È più forte di me. Quando sto per dirglielo, mi faccio spaventare e sto zitta. E, comunque, di una persona fissa con cui stare non ne voglio sapere niente! Finché posso voglio divertirmi, io!»
   Indy aveva sorriso orgoglioso. Sua figlia gli assomigliava ogni giorno di più. Magari una volta o l’altra, proprio come era successo a lui, avrebbe trovato la persona con cui trascorrere l’intera esistenza, la dolce metà della sua anima. Prima, però, intendeva godersi la vita senza problemi. La comprendeva perfettamente, perché anche lui sapeva che cosa significasse essere uno spirito libero e affrontare l’esistenza senza troppi pensieri, decidendo mano a mano quale strada seguire.
   «Be’, magari, potremmo escogitare un modo diverso, per farglielo sapere…» aveva suggerito, strizzando l’occhio.
   Il giorno seguente, Indy aveva insistito per portare Marion a fare un giro a bordo del suo pick-up Ford. Per pura e semplice casualità, era passato proprio accanto al parco cittadino di Bedford, e lì aveva rallentato a passo d’uomo.
   «Be’, che accidenti succede a questa vecchia carriola, Jones?» sbottò Marion. «Devo scendere a spingere?»
   Ignorandola, suo marito lanciò uno sguardo in apparenza fortuito oltre la cancellata del parco.
   «Ehi, non è Katy, quella seduta su quella panchina?» esclamò. «Chi è quella bella ragazzina che è con lei?»
   «Come chi è?» disse Marion, seguendo il suo sguardo. «Ti stai per caso rincitrullendo, Jones? È la sua amica Charlotte, la compagna di studi, no? Come accidenti fai a non ricordarla, è venuta a cena da noi cinque volte, questo mese, e un paio di notti si è anche fermata a dor…» Le parole le morirono in bocca. Katy aveva stretto il viso di Charlotte tra le mani a coppa e la stava baciando in una maniera che non lasciava adito a dubbi o a interpretazioni.
   «Ah…» era stato il suo unico commento.
   «Mi sa che quando si è fermata non devono aver dormito molto» ridacchiò Indy, premendo sull’acceleratore e riacquistando velocità. «Be’, che ne dici se andiamo a prenderci un gelato in quella nuova gelateria che ha aperto la settimana scorsa? Così, magari, poi le ragazze ci raggiungono e gliene offriamo un cono.»
   «Pure…» borbottò Marion, con un sorrisetto frastornato.
   Dopo quell’episodio, la mamma non era più tornata sull’argomento, e aveva continuato a comportarsi con Katy come sempre aveva fatto, ma con la significativa – e gradita – variante di non fare più nemmeno mezza allusione sulla possibilità che sua figlia si sposasse.
   Katy aveva bisogno di riprendere fiato e sentì che anche Valerija cominciava ad avvertire la medesima necessità. Staccò la bocca dalla sua e questo le provocò una specie di senso di vuoto, che riempì immediatamente affondandole il viso nell’incavo tra il collo e la spalla e beandosi del suo odore e del suo calore.
   Non aveva rimpianti. Tutto ciò che aveva fatto in vita sua, Katy lo aveva deciso deliberatamente. Aveva scelto di seguire le orme di suo padre, diventando archeologa come lui, sebbene non potesse certo dire di essere stata una studentessa modello. Aveva vinto le sue paure ed era riuscita a dichiarare la sua omosessualità: non l’aveva sbandierata ai quattro venti, perché sapeva quanto il mondo sapesse ancora essere cattivo e crudele con chi era considerato diverso, ma era comunque riuscita a farla conoscere alle persone importanti della sua vita, e questo era ciò che contava. Aveva deciso di non legarsi per davvero a nessuno finché non fosse arrivato il momento giusto, presto o tardi che fosse: fino a quel momento, non avrebbe fatto promesse a nessuno, nemmeno a Valerija, che pure adesso stava abbracciando come se fosse il suo scoglio di salvezza nel mezzo di una violenta tempesta.
   Il passato era dolce e luminoso, e lo era stato fino a soltanto poche ore prima. Tutto era cambiato quando aveva visto suo padre accasciarsi, mortalmente pallido, sporco di sangue. In quel momento un’ombra fredda e nera aveva tramutato il suo presente, cancellando ogni traccia di felicità dal suo spirito. Tutto si era trasformato in un’angosciante e interminabile sofferenza, un’angoscia continua che la vicinanza di Valerija, il suo corpo stretto al suo, le dita intrecciate tra i capelli, contribuiva appena un poco a mitigare.
   «Katy…» sussurrò la ragazza, accarezzandole lo zigomo bagnato di pianto. «Vuoi provare a fare quattro passi?»
   Lei annuì e, tenendosi abbracciate con le braccia strette attorno alla vita, si incamminarono fuori dall’orto, avviandosi lungo un sentierino, quasi invisibile nell’oscurità e circondato com’era dalle sterpaglie, in direzione della foresta nerissima.
   Le foglie cadute, fragranti di umidità, si incollavano alla suola delle scarpe, e i fili dell’erba bagnavano l’orlo dei pantaloni. L’aria era sempre più fredda, lievemente mossa. Dai meandri della foresta, giungevano piccoli suoni appena percettibili: ronzii di insetti sconosciuti, richiami di civette e altri uccelli notturni che non sapevano distinguere, il frusciare delle foglie ingiallite ma ancora aggrappate con viva tenacia ai loro rami.
   Katy si fermò a osservarle e Valerija con lei, paziente.
   Quelle foglie, nonostante l’autunno le avesse rinsecchite e indebolite, lottavano ancora con forza, resistevano al vento che avrebbe voluto gettarle al suolo, mischiandole alle erbe e tramutandole in nuova linfa da cui sarebbe germogliata una nuova esistenza. Non si sarebbero lasciate rovesciare inerti, senza lottare. Avrebbero lottato fino all’ultimo, con ogni stilla della propria energia, con le unghie e con i denti, con tutte le loro tecniche più segrete, pur di far trionfare il loro sacrosanto diritto alla sopravvivenza.
   Ed era certa che anche suo padre avrebbe fatto così. Il suo papà non era uomo da arrendersi per così poco, da lasciarsi sconfiggere da una piccola ferita.
   Un giorno, inevitabilmente, anche per Indiana Jones sarebbe arrivato il momento di andarsene nel vento, di lasciarsi trasportare altrove, di diventare parte di un tutto superiore, di affrontare una nuova avventura dai contorni sfumati e di cui nessuno avrebbe potuto prevedere l’esito; e lo avrebbe fatto con lo spirito indomito di sempre, con il sorriso beffardo a incurvargli le labbra. Ma sua figlia era certa che, quel momento, non fosse ancora giunto. Per adesso lui sarebbe rimasto ancora lì con lei, come sempre.
   Era una suprema certezza che sentiva crescere dentro di sé, secondo dopo secondo.
   
 
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