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Autore: IndianaJones25    17/11/2021    2 recensioni
Gli anni sono trascorsi, lenti ma inesorabili. Anche per il professor Henry Jones, Jr. sembra essere giunto il momento di appendere la frusta al chiodo e di dire addio alla vita avventurosa. L’intrepido archeologo giramondo, ormai, è diventato un anziano signore che porta addosso i segni, i dolori e i ricordi dolceamari della sua spericolata vita passata.
Ma c’è ancora chi sembra avere bisogno di lui e Indiana Jones non è certo il tipo da tirarsi indietro dinanzi a una minaccia che potrebbe sconvolgere il mondo intero. Così, in compagnia di sua figlia Katy, di una giovane bibliotecaria e di un prete dal grilletto facile, Indy torna a impugnare la frusta e si getta a capofitto in un’ultima impresa, al cui termine potrebbe trovare la speranza di un nuovo inizio oppure una disastrosa rovina.
La lotta sarà difficile e insidiosa, perché l’ultimo vero nemico di Indiana Jones non saranno eserciti o folli invasati, ma proprio la sua irresistibile voglia di avventura…
Genere: Avventura, Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Henry Walton Jones Jr., Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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   24 - Verso la meta
 
   La mattina l’intera vallata apparve ai loro occhi come un manto candido e uniforme, in mezzo al quale spiccavano le chiome imbiancate degli alberi e da cui in lontananza si levavano le montagne. Aveva smesso di nevicare, ma il cielo appariva ancora plumbeo di nubi cariche e pesanti, che si abbassavano verso terra: la tregua era soltanto momentanea. Dalla casa del pastore, che sembrava essersi tramutata in un dolce al cioccolato ricoperto di glassa, si levava ancora la densa scia di fumo del fuoco acceso nel camino, di cui – da dove si trovavano, in mezzo al gelo – potevano soltanto immaginare, e invidiare, il confortevole tepore; le capre, sotto la loro tettoia, si stringevano le une alle altre per scaldarsi a vicenda, belando adagio.
   «Sembra uno di quei paesaggi che si vedono nelle palle di vetro con la neve finta» commentò Katy, il fiato che si condensava in nuvolette a ogni singola parola, sfregandosi le mani nel tentativo di scaldarle. «Solo che quelle le compri al negozio e non è che ci devi entrare, tu te le puoi guardare anche con quaranta gradi all’ombra, cosa che in questo momento non mi dispiacerebbe se accadesse. Chi accidenti sarà, quel pazzo che si è inventato l’inverno, proprio non lo so…»
   «Fa davvero freddo» le fece eco Valerija, infilandosi le mani in tasca e rabbrividendo vistosamente. «Mica me l’ero immaginato, che qui mi sarei congelata fin nelle mutande.»
   Indy, che si era appena caricato in spalle lo zaino con l’esplosivo dopo averlo estratto da tutta la neve che lo aveva ricoperto, non fece alcun caso alle loro lamentele e guardò invece verso la montagna, lungo le cui pareti si sarebbero dovuti arrampicare.
   «Ci aspetta una bella scarpinata, vedrete che questo ci scalderà» borbottò. «E siamo fortunati che non sia ancora pieno inverno. Qui, fra un mesetto circa, sarà impossibile venirci, ve lo assicuro, a meno che uno di noi non voglia tramutarsi in un ghiacciolo, è chiaro. E, comunque, vi avevo avvertito che sul Caucaso non sarebbe stato come andare a fare una camminata al parco pubblico, ora non venitemi a raccontare che non lo sapevate. Sono vecchio, ma non rimbambito, e sono più che certo di avervi avvertito in ogni maniera. Perciò ora silenzio e basta lagne, anche perché sarà meglio risparmiare il fiato.»
   Katy sogghignò, le braccia incrociate sul petto in una posa che ricordava così dannatamente da vicino sua madre – specialmente quando si preparava a prendersela con il marito per qualsiasi cosa – che Indy, notatala con la coda dell’occhio, evitò accuratamente di girarsi verso di lei.
   «Allora comincia a smettere tu di fare le prediche, Old J!» lo rimbrottò, con tono ironico. Suo padre preferì non rispondere.
   Don Mavro osservò con vivo dispiacere la lunga strada che li attendeva ancora. Poi, però, una luce di risolutezza gli attraversò il viso paffuto e arrossato.
   «Be’, allora andiamo senza perdere tempo» propose. «Mettiamo fine a questa storia prima che arrivi il vero mal tempo. Non vedo l’ora di risolvere una volta per tutte questa faccenda.»
   L’archeologo gli rivolse un breve cenno con il capo.
   «Questo è lo spirito giusto, padre» replicò. «Facciamo vedere a queste giovincelle dall’aria stanca come si comportano i vecchietti, di fronte alle difficoltà.» Accennò alla vallata innevata. «Andiamo, allora.»
   E si mise in moto, le gambe che affondavano nella neve fino alle caviglie, appoggiandosi al bastone, cercando di mantenere un passo costante e regolare nonostante le difficoltà di affrontare un simile percorso. Subito, Katy e Valerija si incamminarono alle sue spalle e, per ultimo, arrancando e già affannato, anche don Mavro si mise in marcia.

 
* * *

   Attraversare l’ampia vallata, accompagnati dal profumo della neve e dall’odore resinoso del fumo di legna arsa, fu un’impresa tutto sommato semplice e rapida, che richiese soltanto un paio d’ore di marcia. Essendo partiti molto presto, quando il sole era appena sorto, alle nove del mattino avevano già raggiunto il crinale della montagna e si stavano inerpicando lungo i sentieri accidentati.
   Se salire lungo il monte Kazbek non si sarebbe potuta definire una passeggiata neppure con un clima favorevole, affrontarlo così, in mezzo alla neve che nascondeva alla vista tutti gli ostacoli, era davvero complicato. Nondimeno, ce la misero tutta, con coraggio e determinazione, cercando di non pensare agli innumerevoli disagi che stavano patendo.
   Il problema più grosso era dovuto alla fatica, che portava inevitabilmente con sé il sudore. Un sudore che, a causa del freddo, si tramutava subito in rivoli gelidi che scorrevano lungo la schiena, facendo rabbrividire i quattro improvvisati scalatori.
   Indiana Jones aveva sufficiente esperienza per sapere che, luoghi come quello, andavano sfidati in estate, dopo il disgelo, quando l’assenza di neve rendeva visibile tutto il paesaggio. Andare a muoversi in mezzo a quel velo bianco che rendeva tutto uniforme e compatto non era certo ciò che aveva in mente quando aveva accettato di partire per Venezia per fare semplici ricerche nella biblioteca, prima di tornarsene a casa con le informazioni che servivano a sua nuora. Ma la vita, ancora una volta, si era messa di traverso, sconvolgendo tutti i suoi piani. Non era la prima volta cha accadeva e, acceso di speranze, implorò che non fosse nemmeno l’ultima. Si divertiva troppo a condurre quel genere di esistenza, e ormai aveva deciso in maniera definitiva che l’età non avrebbe cambiato niente, per quanto stesse contribuendo a rendere tutto molto più difficile e complicato.
   Un’altra cosa di cui era consapevole era che, imprese del genere, si adattavano meglio a gambe giovani e schiene solide, come quelle di sua figlia e di Valerija. Nonostante questa cognizione dei suoi limiti, comunque, non gli importava più un accidente dei dolori che lo attraversavano da parte a parte, e che quel mattino aveva cercato di contrastare ingurgitando una buona dose di antidolorifici: anche quelli erano parte dell’esistenza e, dal momento che era rinsavito, rinunciando all’innaturale ritorno alla giovinezza che lo aveva solleticato per giorni e giorni, si era reso conto che anche quelli erano parte di lui, e aveva scelto di accettarli senza rimpianti. Anzi, ogni fitta alle anche e alla schiena era un po’ come un marchio di fabbrica, un ricordo di antiche imprese di cui andava fiero e orgoglioso, un tributo ai suoi – spesso fortuiti – trionfi. Non si pentiva di nulla.
   Udendo le due ragazze sbuffare alle sue spalle, non riuscì a impedire che un ghigno gli deformasse i lineamenti. Poteva anche essere lui, il vecchio della compagnia, ma di certo non era lui, quello che stava facendo più fatica, in quel momento. Pur con la schiena a pezzi e i capelli bianchi a incorniciargli il volto rugoso, aveva ancora moltissime cose da insegnare in merito alla vita all’aria aperta, e ne era soddisfatto. In fondo, non aveva mai smesso di essere un boy-scout.
   In effetti, appena dietro di lui, Katy e Valerija camminavano quasi come automi, sfinite dalla stanchezza, trascinandosi sulle ginocchia doloranti e trovandosi spesso costrette ad appoggiare in terra le mani per non ruzzolare. Avrebbero tanto voluto fermarsi e riposare, giusto per tirare una boccata di ossigeno, ma erano anche consapevoli che questo sarebbe stato peggio: innanzitutto, perché dovevano sfruttare ogni singolo momento di luce a loro disposizione, ben sapendo che il tramonto sarebbe sopraggiunto già nelle prime ore del pomeriggio; in secondo luogo, perché pensare di sedersi in mezzo alla neve sarebbe servito soltanto a rattrappirle e a congelarle. No, era molto meglio proseguire, ignorando la stanchezza e il freddo, sperando che quella lunga arrampicata avesse presto fine e che, soprattutto, portasse i frutti sperati: sarebbe stato davvero ironico scoprire di essersi data tanta pena per niente.
   «Mi siederei, ma ho paura che mi si ghiacci il culo» disse a un certo punto Katy, dandosi una manata sulla parte interessata.
   «Sarebbe un vero peccato» balbettò Valerija, camminando appena dietro di lei e ammirando con occhi lucidi quella manovra che le sarebbe piaciuto replicare. «Anche se non mi dispiacerebbe leccarlo come un gelato… mi hai dato un’idea per la prossima volta che faremo campo da qualche parte…»
   Indy, ascoltandole, ridacchiò. Il sacerdote, invece, borbottò qualcosa sul fatto che, certi discorsi, fosse meglio non sentirli, sulla bocca di signorine perbene come ci si aspettava che fossero loro due.
   In chiusura della fila, nonostante questa breve concessione alla predica, don Mavro arrancava e sbuffava, senza nessuna voglia di parlare. A ogni passo si diceva mentalmente di essere giunto al capolinea, a ogni metro guadagnato in salita si rendeva conto di essere più vicino al paradiso, non solo metaforicamente a causa della salita lungo la montagna che li stava avvicinando tutti al cielo, ma anche – e soprattutto – letteralmente: era più che sicuro, infatti, che il suo fisico non avrebbe retto oltre alla fatica a cui lo stava sottoponendo.
   Dentro di sé, stava già recitando le orazioni e stava provando a pentirsi dei propri peccati, in vista del passaggio definitivo all’altro mondo. Invece, sorprendendolo, il suo corpo stava resistendo senza problemi. Evidentemente, gli anni trascorsi a fare vita sedentaria non erano stati sufficienti a cancellare del tutto la robustezza e il ricordo dei difficili mesi trascorsi tra le foreste del Congo. In ogni caso, giurò a se stesso che, una volta tornato a Spalato, non avrebbe mai più fatto niente di più faticoso che scrivere il discorso per la predica domenicale o andare di casa in casa per la benedizione nei giorni antecedenti la Pasqua. Questo gli fece rammentare la sua povera Yugo e si sentì crescere un groppo in gola: in fondo, anche se non era propriamente bellissima, era molto affezionato alla sua macchina.
   La fatica era crescente. Nessuno di loro aveva voglia di perdersi in troppi discorsi. Più salivano di quota e più la neve aumentava e si faceva abbondante. I rami degli alberi, carichi e appesantiti, si tendevano verso il basso, lasciando cadere di quando in quando una pioggia bianca e densa sulle teste dei quattro sfiniti escursionisti. Massi e asperità, celati al di sotto dello strato bianco come bestie in agguato, tendevano insidie a ogni movimento, facendo inciampare e spesso cadere nella neve chi vi appoggiava incautamente un piede. L’aria sempre più fredda e rarefatta, inoltre, tappava le orecchie e li costringeva a profondi respiri per poter ventilare i polmoni, che bruciavano e protestavano a ogni nuova boccata.
   Finalmente, però, raggiunsero un punto da cui si poteva distinguere una dolce vallata che si stendeva sull’altro lato della montagna, incuneata tra alte pareti di roccia che proiettavano ombre oscure e a tratti inquietanti su tutto il paesaggio circostante. Si fermarono, ansimanti e sconvolti dalla grande faticata, cercando con gli occhi un punto di riferimento che potesse aiutarli a indirizzarli verso una meta precisa.
   «C’è qualcosa, qui, o siamo saliti per niente?» balbettò Katy, riparandosi gli occhi con la mano sulla fronte per riuscire a vedere meglio. «No, perché se abbiamo fatto questa sgobbata per niente, io…» Non terminò la frase, non sapendo nemmeno lei che cosa dire di preciso.
   Il candore della neve rendeva difficile osservare con attenzione, perché il riverbero costringeva gli occhi a restare socchiusi, facendoli lacrimare copiosamente. Fu lo sguardo di Indy, abituato dalla lunga esperienza a scorgere ogni dettaglio utile, a individuare per primo ciò che stavano cercando.
   «Là» disse soltanto, sollevando il braccio e stendendo in avanti il dito indice.
   In fondo al declivio, quasi nel centro della vallata innevata, si scorgevano alcune rovine, appena intuibili in mezzo a tutto quel bianco che le aveva ricoperte. Tuttavia, era impossibile sbagliarsi: avevano raggiunto l’eremitaggio che era sorto sopra la grotta di Betlemi.

 
* * *

   Fu necessaria un’altra ora abbondante per raggiungere la destinazione. Dall’alto era sembrata molto più vicina ma, come di sovente accade in montagna, le distanze reali li avevano tratti in inganno e la discesa li aveva costretti a compiere ampi giri a zig-zag per evitare di affrontare dislivelli eccessivamente aspri, che si sarebbero potuti rivelare parecchio pericolosi. Più di una volta ciascuno di loro scivolò nella neve, ruzzolando in terra e obbligando gli altri a una pausa forzata per aiutare il malcapitato a rialzarsi e a rimettersi in sesto.
   Infine, comunque, seppure stanchi e malandati, poterono fermarsi davanti a ciò che restava dell’antico eremitaggio ortodosso, le cui misere vestigia emergevano dallo strato di neve come i resti di un veliero arenati sopra una secca in mezzo a un mare spumoso ed effimero.
   Indy, dinnanzi a quella visione, non riuscì a trattenere un lungo sospiro. Pur avendo visto innumerevoli volte le rovine delle antiche costruzioni dell’uomo, ogni volta era un’emozione nuova. Non si sarebbe mai riuscito ad abituare all’idea di aver a che fare con la grandiosità del passato, con le opere messe a punto da coloro che lo avevano preceduto.
   A dire il vero, questa volta, quella che aveva davanti agli occhi era una costruzione piuttosto piccola e modesta, che in un certo senso stonava con il ricordo di tutti i templi e gli altri edifici grandiosi che aveva esplorato – e, in qualche caso, distrutto – nel lungo corso della sua emozionante esistenza. Provò a far un raffronto, e gli tornò alla mente la grandiosa chiesa rupestre in cui era custodito il Graal: non esisteva nessun tipo di paragone. Eppure, a meno che non fosse stato un semplice fantasma a condurli fin lì, ciò che si nascondeva al di sotto di questi ruderi era qualcosa di molto più potente di quanto non fosse il Santo Graal.
   L’eremitaggio, quando era stato intatto, doveva essere composto da un piccolo edificio di pietra, di due soli piani, che poteva ospitare al massimo quattro o cinque celle, oltre a un piccolo refettorio. Come annessi, aveva avuto anche una piccola stalla per ospitare i muli, e una chiesetta, poco più grande di una cappella, sul cui tetto doveva essere stata appesa una campanella di piccole dimensioni. Nulla di troppo vistoso, quindi. E, adesso che era stato raso al suolo, non ne rimanevano altro che pochi muri abbattuti, cumuli di pietra e di mattoni deformati che emergevano dal bianco della neve e che, durante la bella stagione, dovevano essere di certo invasi dalle sterpaglie e dai rovi, rifugio di uccelli, lepri e altri piccoli animali selvatici.
   Fu Valerija la prima a parlare, riscuotendoli dal mutismo che era calato su di loro da ormai parecchio, da quando avevano ricominciato a camminare.
   «Mi aspettavo qualcosa di più… non so come dire… più!» commentò, sfiorando con le dita un blocco di pietra largo qualche centimetro.
   «In effetti, non è che ci sia molto» affermò Katy, affiancandola. «Credevo che la Fonte dell’Eterna Giovinezza fosse nascosta all’interno di un luogo, se capite ciò che intendo dire, più consono alle proporzioni della leggenda. Qualcosa di grandioso e indimenticabile.»
   Indy, come ipnotizzato da una visione inattesa, si era avvicinato lentamente a un albero che cresceva in mezzo ai ruderi. Un albero incredibilmente coperto di foglie verdi e di fiori bianchi. Era un mandorlo, ritenuto l’albero della rinascita e della vita eterna, più volte citato dalla Bibbia, ma non solo. Rammentò in un baleno i suoi innumerevoli studi, ricordando Erodoto: lo storico greco, parlando della Fonte della Giovinezza – che lui collocava in Etiopia – aveva asserito che vicino ad essa crescesse proprio un mandorlo. Esattamente come qui. Possibile che un uomo informato come Erodoto avesse confuso l’Etiopia con quella che ai suoi tempi era la Colchide, a oriente del Mar Nero, il Ponto Eusino dei Greci? Gli sembrava quantomeno difficile: anche lavorando con informazioni di secondo o di terza mano, il padre della storia non sarebbe mai potuto incorrere in un errore tanto grossolano.
   Istintivamente, si domandò se, nel mondo, quel tipo di fonti miracolose fossero ben più di una, nascoste nei luoghi più lontani e inaccessibili. Forse, quello che avevano raggiunto – o, almeno, pensavano di aver raggiunto – era soltanto uno, tra gli innumerevoli modi per raggiungere la Fonte.
   Ma, quindi, era davvero valsa la pena, tutta quella loro lunga ricerca? Su questo non aveva dubbi: ogni stilla di sudore spesa per quell’impresa non era andata sprecata. Questa nuova avventura gli aveva realmente fatto ritrovare la sua giovinezza – molto più di quanto non avrebbe potuto fare un intero oceano di acqua magica – e questo valeva ben più di qualsiasi altra considerazione possibile.
   «Cos’ha trovato, professore?» domandò don Mavro, avvicinandosi.
   L’archeologo aveva appoggiato le mani sulla corteccia dell’albero. Non era un miraggio, era chiaramente lì, davanti ai suoi occhi, per quanto fosse impossibile crederlo. Lo scosse piano, e alcuni petali gli caddero addosso come sottili fiocchi di neve.
   «Un mandorlo, padre» rispose, con voce rauca. «Un mandorlo in fiore… a queste altezze, a simili latitudini, con questo gelo, in pieno autunno… fiorito come in primavera.» Scosse la testa, incredulo. «Sembrerebbe contro natura. Ma forse, in questo luogo, c’è davvero qualcosa che esula dalle leggi della natura, almeno per come la conosciamo noi. Probabilmente questo albero è la prova che non abbiamo fatto tutto questo per niente…» Gettò uno sguardo di sbieco alla figlia e sorrise. «Non ci siamo gelati il culo inutilmente» concluse, provocando un risolino nelle due ragazze e un borbottare bonario da parte del sacerdote.
   Con i piedi, cominciò a smuovere la neve attorno all’albero. Don Mavro, sebbene ancora stupito da quella scoperta, iniziò subito a darsi da fare per aiutarlo. Anche Katy e Valerija, senza fare domande, si unirono a loro per dare una mano, chinandosi a raccogliere grandi manate di neve che poi provvidero a trasportare e ad accumulare lontano dall’albero, in maniera da liberarlo completamente.
   Nel volgere di un buon quarto d’ora di lavoro febbrile, crearono un ampio spazio vuoto attorno al mandorlo e poterono vedere che affondava le sue radici in mezzo al pavimento di piastrelle in cotto che, un tempo, doveva essere stato un cortile interno del piccolo complesso sacro. A conferma del fatto che quell’albero producesse sempre i suoi frutti, anche quando non avrebbe dovuto farlo, tutto il pavimento era ricoperto da mandorle che aveva lasciato cadere al termine del precedente periodo di maturazione. Si erano mantenute fresche e non c’era alcun dubbio che, se le avessero aperte, avrebbero potuto mangiarle senza nessun problema.
   Grugnendo per i dolori alle ginocchia, Indy si abbassò e controllò da vicino il pavimento. Per buona parte era solido, appoggiato sopra il terreno compatto. Quando picchiettò con le dita sopra a una delle mattonelle ai cui lati le radici dell’albero scomparivano sottoterra, però, ne ricevette in cambio l’eco di un rumore sordo.
   «Che succede?» domandò Katy, vedendo che si stava rialzando in fretta.
   Anziché sprecare tempo a rispondere, Indy si avvicinò a una grossa pietra che si trovava poco distante. La prese tra le mani e, barcollando leggermente a causa del peso, tornò verso il gruppo di piastrelle che avevano attratto la sua attenzione. Dinnanzi agli occhi sgranati dei suoi tre compagni d’avventura, si lasciò cadere di nuovo in ginocchio e, sollevata la pietra, l’abbatté con tutte le sue forze contro il pavimento, provocando delle crepe nelle mattonelle. Frammenti di terracotta volarono dappertutto, ma l’archeologo non vi badò e colpì di nuovo, e poi un’altra volta. Al quarto attacco, le piastrelle andarono letteralmente in briciole, rivelando una stretta e buia scalinata che sprofondava verso il basso.
   Le radici del mandorlo correvano parallele agli scalini, accompagnandoli nella loro discesa verso le tenebre.
   «Old J…» mormorò Katy, sbalordita.
   Suo padre, ansante per lo sforzo, alzò gli occhi per guardarla e sorrise.
   «L’abbiamo trovata» disse. «Da qui giungeremo alla Fonte dell’Eterna Giovinezza.»

 
* * *

   Si erano aspettati che, scendendo sotto la superficie, avrebbero trovato ancora più freddo e umido che stando all’aria aperta. Invece, dopo aver percorso soltanto pochi metri lungo i gradini intagliati nella roccia viva, si resero conto che la temperatura era piacevole, asciutta e tiepida, come se là sotto spirasse una brezza primaverile. Presto si scoprirono persino a sudare, vedendosi costretti a slacciare le cerniere dei cappotti.
   «Non è che, senza accorgercene, stiamo scendendo all’inferno e più si va giù e più fa caldo, vero?» sbottò Katy, sfilandosi dalla testa la cuffia di lana e infilandola nella tasca del giaccone. «Prima avevo paura di ghiacciarmi il didietro, ma ora non vorrei rischiare di scottarmelo. Non so voi, ma io ci tengo, al mio bel culetto.» Nessuno si prese la briga di risponderle.
   Un altro fatto curioso era dato dalla luce. Sarebbe stato logico credere che, dopo aver distanziato l’ingresso anche solo di pochi metri, si sarebbe reso necessario accendere le torce che avevano opportunamente portato con sé, riposte dentro uno zaino. Ma lì rimasero, perché un chiarore che sembrava provenire dal basso cominciò a riempire tutto l’ambiente.
   Era una luce brillante e calda, che anziché infastidire gli occhi li faceva riposare. E c’era anche qualcos’altro, che in un primo momento nessuno avrebbe saputo riconoscere. Fu sufficiente avanzare verso il basso di ancora qualche metro, però, per rendersi conto di ciò che li aveva colpiti tutti: il profumo. Non era l’odore tipico della caverne, un misto di umidità e di chiuso. Sembrava più che altro un’essenza floreale, come se stessero davvero andando incontro a una primavera perenne. E, per ultimo, arrivò il leggero gorgogliare, un suono rilassante, quasi celestiale, capace di incantare i timpani e di rilassare i nervi. Un dolce suono di ruscelli, accompagnato da una brezza rasserenante.
   «Inferno?» disse finalmente don Mavro, dando una risposta alla domanda posta da Katy. «A me sembra più che altro che ci stiamo avvicinando al paradiso.»
   Nonostante le belle apparenze, a Indy quella storia non piaceva. Non piaceva per niente. Che accidenti avrebbero trovato, al termine di quella scalinata? Non ne sapeva il motivo, ma qualcosa lo inquietava. Forse sarebbe stato meglio rovesciare tutta la dinamite giù per le scale e poi dare fuoco alla miccia, restando all’aperto, anziché scendere per andare a vedere da vicino.
   «Ho un brutto presentimento…» borbottò, cercando di richiamare l’attenzione degli altri.
   Si fermò, come se volesse parlare con i suoi compagni, ma loro lo ignorarono. Lo superarono silenziosi, continuando a scendere. Era come se, d’improvviso, non si stessero più rendendo conto di nulla e non si fossero nemmeno accorti che lui si era bloccato. Indy si sentì raggelare: Katy, Valerija e don Mavro parevano ipnotizzati da qualcosa, come se una forza misteriosa li stesse attirando verso il basso. Una forza che, però, su di lui non sembrava avere alcun effetto.
   «Sarà per i miei ragionamenti di ieri sera…» borbottò tra sé e sé, osservando la figlia e gli altri due che si allontanavano.
   Si rimise in cammino, seguendoli da vicino. Non riteneva prudente perderli di vista. C’era qualcosa che non andava, in quel posto maledetto, e sentiva che era molto meglio non rimanere da solo, lontano da loro.
   Proseguì adagio, osservando il lieve ancheggiare di Valerija, che camminava proprio davanti a lui. Era una figurina deliziosa, e non faceva fatica a comprendere che cosa ci avesse trovato Katy, di tanto attraente, fin dal primo momento in cui l’aveva vista. Era proprio uno spreco, non avere più vent’anni: la vecchiaia lo stava obbligando a perdere moltissime delle cose più belle della vita. Era davvero necessario, compiere tutte quelle rinunce? Magari un modo per aggirare il problema c’era davvero, e si trovava al termine di quella discesa nelle profondità della terra…
   A distrarlo da quelle riflessioni che non capiva bene da dove stessero emergendo – ma che, in un certo senso, era sicuro che non fossero del tutto farina del suo sacco – fu la vista di qualcosa di ancora più inaspettato della luce, del calore e del dolce gorgogliare: dalle pareti di roccia, dove correvano le radici dell’albero, cominciarono a spuntare dei teneri virgulti ricoperti di fiori bianchi che emanavano un delicato profumo. Al loro passaggio, quando li sfioravano per sbaglio, una scia di petali cadeva al suolo, simile a neve.
   Indy deglutì, turbato. Tutto questo non aveva alcun senso. Ma, probabilmente, si stavano avvicinando a un luogo in cui la parola senso perdeva di significato, in cui la razionalità non aveva più alcuna ragione di esistere, perché lì tutto era contrario a ciò che conoscevano. Gli sarebbe tanto piaciuto avere al suo fianco il vicario Bartolec, in quel momento, per domandargli se fosse ancora convinto che si trattasse soltanto di una strana e sconosciuta composizione chimica e non di un miracolo. Sogghignò, immaginando che quel prete avrebbe congiunto le mani e non gli avrebbe risposto nulla.
   Un nuovo avvenimento lo distrasse dai suoi pensieri, richiedendo tutta la sua concentrazione.
   Erano giunti al termine della scalinata e Valerija, don Mavro e Katy, come riscossosi dallo stato di ipnosi che li aveva catturati, si erano fermati. Davanti a loro, adesso, sorgeva un arco di pietra che fungeva da ingresso per un’immensa caverna, da cui provenivano i suoni melodiosi, i dolci profumi, il delicato calore e la bella luce che li avevano guidati fin lì. Attorno all’arco si intrecciavano rami di rose fiorite, lasciando intravedere, in mezzo ai fiori rossi e purpurei, profumati in maniera deliziosa, i bassorilievi con cui era stato scolpito con grande maestria.
   Ciò che non sfuggì all’archeologo fu che, quelle immagini, non rappresentavano affatto scene della tradizione cristiana, o comunque biblica: raffiguravano, invece, alberi in fiore, animali selvatici e uomini e donne di straordinaria bellezza, che vivevano tutti insieme in armonia, immersi nella natura più vera e paradisiaca.
   Gli altri tre, dopo aver osservato i fiori e i bassorilievi per alcuni istanti, si voltarono a cercare lo sguardo di Indiana Jones. Parevano spaesati, come se non riuscissero a comprendere come avessero fatto ad arrivare fino a lì, e speravano che almeno lui, dall’alto della sua grande esperienza, potesse rispondere ai numerosi quesiti che gli confondevano la testa.
   «Che accidenti è successo?» domandò Valerija, passandosi una mano davanti agli occhi.
   «Mi sembra di aver fatto un sogno stranissimo…» borbottò don Mavro.
   Anche Katy si strofinò gli occhi, provando a fare mente locale.
   «Mi ricordo di essere entrata nel tunnel e mi sono risvegliata qui…» borbottò.
   Indy fece un sogghigno sarcastico.
   «Avete dormito, ma non più di cinque minuti. Sembravate sonnambuli, in effetti.»
   Sua figlia gli lanciò un’occhiata in tralice.
   «E perché a te non è successo niente, Old J?» domandò.
   Jones scrollò le spalle. Visto che lei lo prendeva sempre in giro a causa della sua età, decise che, per una volta, quel fattore gli sarebbe potuto venire in aiuto.
   «Sarà perché noi vecchi facciamo fatica ad addormentarci» borbottò. Fece un cenno in direzione dell’arco, che pareva quasi invitarli a entrare in un altro mondo, molto diverso da quello che conoscevano e in cui erano soliti muoversi e vivere le loro esistenze. «Comunque, ormai, siamo arrivati. Non perdiamo altro tempo. Mettiamo fine a questa storia una volta per tutte.»
   Tutti quanti annuirono e, risoluti, si avviarono verso il grande portale ornato di fiori. Non appena lo ebbero varcato, però, si bloccarono di colpo, trattenendo a stento un grido di stupore, restando senza fiato per l’emozione.
 
   
 
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