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Autore: Clementine84    19/11/2021    0 recensioni
Una donna normale, distrutta dalle difficoltà che la vita l'ha costretta ad affrontare, costringendola a dimostrare un coraggio che non credeva di avere e che le ha prosciugato ogni energia.
Un uomo famoso, abbandonato dalla compagna di una vita proprio mentre sta attraversando uno dei periodi più difficili della sua vita.
Entrambi restii a confessare le proprie debolezze, entrambi incapaci di chiedere aiuto, devono rimettere in piedi le proprie vite.
Quante sono le possibilità che si incontrino e decidano di provare a farlo insieme?
Two in a million. Once in a life.
Genere: Hurt/Comfort, Sentimentale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Brian Littrell, Nick Carter, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nulla di quanto narrato è reale o ha la pretesa di esserlo. Questo scritto è frutto della mia fantasia e non vuole, in nessun modo, offendere le persone rappresentate. I personaggi originali, invece, appartengono alla sottoscritta e ogni riferimento a persone reali è da considerarsi puramente casuale.
La canzone citata lungo tutta la storia è Chances, dei Backstreet Boys, che dà anche il titolo alla fanfic.
Non chiederò più recensioni, come in passato ma, se qualcuno volesse contattarmi per dirmi cosa ne pensa della storia, sappiate che mi fa piacere.


 

PROLOGO

 

What's a girl like you doing in a place like this?

 

 

I rumori dell’aeroporto rivelavano le frenetiche attività che si svolgevano al suo interno. Uomini d’affari che parlavano al cellulare con voci concitate. Allegre comitive di amici che si chiamavano l’un l’altro, ridendo. Le ruote delle valigie trascinate sul pavimento. I messaggi ripetitivi annunciati sempre dalla stessa voce metallica. Anche gli odori colpivano i sensi e contribuivano alla peculiarità del luogo. Detergente al limone utilizzato dagli addetti alle pulizie per igienizzare i bagni. Caffè appena fatto, proveniente dalle varie caffetterie e trasportato nei bicchieri di cartone dai passeggeri diretti ai loro voli, disperdendone in giro l’aroma. Le acque di colonia costose utilizzate dagli uomini in giacca e cravatta. La gomma surriscaldata delle ruote delle valigie, aspra e pungente.

Era difficile non farsi distrarre e coinvolgere dalla vita dell’aeroporto, specialmente se si viaggiava da soli, senza nessuno con cui scambiare due parole, e si aveva del tempo da perdere. Eppure, lei percepiva suoni e odori in modo distante, ovattato, quasi appartenessero a una vecchia fotografia ingiallita dal tempo. Non doveva distrarsi. Non poteva. Era necessario restare concentrata per non lasciarsi sopraffare. Quindi continuava a ripetersi nella testa, come un mantra, la lista delle cose da fare. Azioni banali, quasi meccaniche, ma che richiedevano più energie di quante sentisse di averne in quel momento.

Controllo documenti.

Recuperare le valigie.

Cercare Amanda.

Fingere di stare bene.

Quell’ultima cosa, in particolare, era fondamentale. Doveva riuscire a mantenere la maschera che si era appiccicata in faccia da cinque mesi a quella parte e convincere sua sorella che fosse tutto sotto controllo. Già le stava creando un sacco di problemi, sistemandosi a casa sua per un tempo indefinito, non poteva darle ulteriori preoccupazioni.

Ritirò i documenti che l’addetto le stava porgendo, salutandolo con un sorriso di circostanza, poi si diresse verso il nastro dei bagagli, mettendosi in attesa.

Las Vegas. Ci era stata una sola volta, per un weekend, in occasione dell’addio al nubilato di un’amica ma, oltre alla Strip e a qualche casinò, aveva visto ben poco. Si era divertita, ma ricordava di essersi sentita come quando, da bambina, i genitori avevano portato lei e sua sorella a Disneyland: un posto da favola, ma assolutamente surreale e irrimediabilmente finto. La sensazione era di essere in un limbo, dove nulla era permanente e tutto ciò che contava era l’esteriorità, la facciata. Ricordava di essere rimasta a osservare le facce di alcune delle persone impegnate a giocare alle slot machines nella hall dell’albergo dove avevano alloggiato, chiedendosi a cosa stessero pensando. Gli occhi fissi sugli schermi, concentrati sui simboli che si susseguivano davanti a loro, di tanto in tanto allungavano distrattamente una mano per raggiungere il bicchiere con il drink che stavano bevendo, ma non sembrava che se lo stessero godendo veramente. Chissà perché erano lì. Chissà quali erano le loro storie. Chissà se erano soli, oppure avevano qualcuno che li attendeva, a casa. E chissà cosa speravano di ottenere, da quella serata di scommesse. Scosse la testa. Assurdo come un particolare così insignificante le fosse rimasto impresso. La sua solita ossessione per la mente umana che, prima o poi, l’avrebbe messa nei guai.

Con la coda dell’occhio, identificò le sue due valigie, una gialla, la sua, e una arancione, di William. Si avvicinò al nastro e, con un po’ di fatica, data la dimensione dei suddetti bagagli, riuscì a tirarle giù. Prese un respiro profondo e si avviò verso l’uscita, ripassando mentalmente la lista.

Controllo documenti. Fatto.

Recuperare le valigie. Fatto.

Cercare Amanda.

Fingere di stare bene.

Non appena oltrepassate le porte che delimitavano la zona del ritiro bagagli da quella di attesa dei passeggeri in arrivo, si guardò intorno, alla ricerca dei capelli biondi della sorella. Subito non la notò e, meccanicamente, si infilò una mano nella tasca dei jeans, per prendere il cellulare, che non aveva ancora acceso da quando erano atterrati. Voleva controllare che Amanda non le avesse scritto per avvertirla di un eventuale intoppo o ritardo. Non fece in tempo nemmeno ad accenderlo che si sentì chiamare e, alzando la testa, vide la sorella correrle incontro, con aria trafelata.

Cercare Amanda. Fatto.

Fingere di stare bene.

Si stampò in faccia un sorriso, cercando di farlo sembrare il più genuino possibile, e ricambiò l’abbraccio in cui la sorella l’aveva avvolta.

“Scusami, ho trovato più traffico del previsto” si scusò, togliendole meccanicamente dalla mano il manico di una delle due valigie. “Hai fatto buon viaggio?”

“Un po’ di turbolenza all’atterraggio, ma tutto sommato a posto”.

Amanda sorrise e alzò gli occhi al cielo. “Oh, qui è sempre così. Ha a che fare con la differenza di temperatura tra l’aria e il terreno” spiegò. “Ti ci abituerai”.

Ne dubitava, ma evitò di farlo notare. Non si sarebbe mai abituata all’idea di vivere a Las Vegas, anche se solo temporaneamente. Era qualcosa che non aveva mai considerato possibile nella sua esistenza. Las Vegas, per lei, si riduceva all’accozzaglia di casinò e altri palazzi radunati attorno alla Strip e non aveva mai seriamente considerato la possibilità che qualcuno ci abitasse veramente. Questo fino a due anni prima, almeno, quando la sorella e il cognato si erano stabiliti in una zona residenziale della città in seguito al trasferimento di entrambi all’Henderson Hospital, dove lavoravano, lui come cardiologo e lei come ortopedica. E, adesso, per volere del destino, anche lei ci avrebbe vissuto.

Temporaneamente, si disse. Giusto il tempo di rimettersi in sesto e trovare un posto dove stabilirsi.

Mentre tornavano verso casa, ascoltò distrattamente le chiacchiere della sorella, che le raccontava dell’incidente sulla 215, che aveva causato il suo ritardo, e le annunciava che Derek aveva preparato i tacos per cena. Nel frattempo, osservava le luci della città che si rincorrevano, come tante lucciole impazzite, al di là del finestrino.

Fingere di stare bene. In corso di esecuzione.

 

~ * ~

 

What's a guy like me doing in a place like this?

 

Non appena scese dal taxi, il cancello di fronte a cui l’auto si era fermata si aprì quasi istantaneamente. Pagò la corsa e ringraziò l’autista, che l’aveva aiutato a scaricare le valigie dal bagagliaio, porgendogli anche un foglietto con il suo autografo. Durante il tragitto dall’aeroporto, l’uomo gli aveva confessato che la figlia era una fan e gli era sembrato un bel modo per ringraziarlo della sua gentilezza. E della sua discrezione, soprattutto. Non che fosse in incognito o si stesse nascondendo, ma stava, in qualche modo, scappando ed era grato all’uomo per non avergli fatto domande. Anche se sapeva dove stava andando. Da chi stava andando. E, probabilmente, anche perché. Sospirò, sentendo il solito peso sul petto che, ormai, lo accompagnava da settimane. La sua situazione era di dominio pubblico, chi non la sapeva? Quando avevano iniziato, negli anni ‘90, forse sarebbe stato più facile mettere tutto a tacere o, almeno, non divulgare i dettagli ma, oggi, nell’era di internet e dei social network, era un gioco da ragazzi venire a conoscenza della vita privata delle persone, anche senza che fossero loro a pubblicizzarla, in prima persona. Succedeva alla gente normale, figurarsi alle celebrità. Non si sarebbe mai abituato a quell’epiteto, nemmeno dopo quasi trent’anni di onorata carriera, ma questo non rendeva meno reale il fatto che fosse, a tutti gli effetti, considerato tale. Con tutti i pro e i contro che quella condizione comportava, tra cui riuscire a ottenere un appuntamento con lo specialista più quotato al mondo per le disfunzioni vocali, sebbene la lista d’attesa fosse in media di un anno, ma anche vedere la fine del suo matrimonio pluriventennale data in pasto alla stampa, notoriamente indifferente al cuore infranto delle persone coinvolte.

Ecco perché era lì. Aveva bisogno di staccare. Di allontanarsi dal vortice di pessimismo e recriminazioni che era diventata la sua vita, per rimettere insieme i pezzi e capire come ricominciare. Da dove ricominciare. Supponeva che la risposta fosse da sé, quindi abbandonare tutto e tutti gli era sembrata la soluzione migliore. E, quando aveva dovuto decidere dove andare, il primo posto che gli era venuto in mente era stato quello. O, meglio, la prima persona che gli era venuta in mente era stato il proprietario della casa verso cui si stava dirigendo in quel momento. Il suo migliore amico. Il fratello minore che non aveva mai avuto e, quindi, aveva ricercato in quel ragazzino biondo che l’aveva accolto, sorridente, quel pomeriggio di aprile di 29 anni prima. Anche lui in cerca di un legame, di una figura di riferimento, del fratello maggiore che non aveva mai avuto a sua volta. Si erano scelti reciprocamente, senza mai più lasciarsi. Oh, avevano avuto i loro alti e bassi, certo. C’erano stati momenti in cui si erano odiati, periodi in cui avevano fatto di tutto per evitarsi, rivolgendosi a stento la parola. Avevano litigato, si erano tirati contro le cattiverie più tremende, puntando sul fatto che si conoscevano così bene da sapere esattamente che tasti toccare per farsi più male. Ma, alla fine, c’erano sempre stati, l’uno per l’altro, specialmente nei momenti importanti, in quelli di maggior bisogno. Non si erano mai abbandonati e mai l’avrebbero fatto. Erano una famiglia. Per questo, non appena l’aveva chiamato, l’amico si era subito offerto di ospitarlo.

“Vieni quando vuoi e per tutto il tempo che vuoi” gli aveva detto. “Non c’è problema. Anzi, mi fa piacere poter fare qualcosa per te”.

“Sei sicuro?”

Aveva riso. “Mai stato più sicuro. Adoro averti intorno, lo sai”.

Arrivato ormai all’ingresso, alzò lo sguardo e se lo ritrovò davanti, con un paio di pantaloncini neri e il jersey dei Tampa Bay Buccaneers. Gli sorrise, sollevando leggermente l’angolo destro della bocca, in quel suo modo tipico che sembrava sempre un po’ ammiccante, quasi volesse conquistare chi gli stava davanti al primo sguardo. Non che con lui ce ne fosse bisogno, l’aveva già completamente conquistato tanti anni prima. Allargò le braccia e l’avvolse in un abbraccio, che sembrò portargli via parte della tensione che aveva accumulato nell’ultimo periodo.

“Ben arrivato” lo salutò. Poi lo squadrò da capo a piedi, con aria critica, e aggiunse “Hai un aspetto orribile”.

“Grazie tante” commentò, lasciandosi sfuggire una risatina. Il tatto non era mai stato il suo forte.

“Scusa, ma sono onesto, lo sai” si giustificò.

“Lo so” ammise “e non hai ancora imparato quando è il caso di esserlo e quando è meglio evitare”.

L’amico gli passò un braccio intorno alle spalle e afferrò il manico di una delle valigie.

“Non preoccuparti” lo rassicurò “adesso sei qui e ci pensiamo noi a rimetterti in sesto. Un paio di settimane e ti riconsegniamo al mondo e alle tue fan come nuovo”.

Non potè fare a meno di scoppiare a ridere, sentendo anche gli ultimi resti di tensione abbandonarlo. Mentre si lasciava condurre dentro casa dall’amico, si ripetè che la decisione di venire lì era stata giusta, forse l’unica cosa buona che aveva combinato in quelle ultime due settimane. Sarebbe stata dura, sarebbe stato un processo lungo e pieno di ostacoli, ma in qualche modo ce l’avrebbe fatta. Avrebbe superato anche quello.

Non era più solo.

  
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