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Autore: Shiki Ryougi    22/11/2021    0 recensioni
Una storia che avevo in mente da molto tempo.
Anna, una bambina particolare di quasi nove anni, sta per festeggiare il suo compleanno.
Nessuno riesce a capirla. Solo suo nonno.
Una storia introspettiva, tra realtà e fantasia, che vi porterà negli abissi del dolore della perdita.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1
Fiamme
 
Ciò che non dissi quella notte mi rimase in gola per molto tempo. Le lacrime non scesero sulle pallide gote e in piedi, di fronte allo specchio, l’immagine riflessa mi restituì un sorriso.
Il mio sguardo cadeva su quella mezza luna orrorifica; era talmente penetrante da farmi gelare il sangue nelle vene, se avessi avuto ancora un cuore in grado di pomparlo lungo le mie membra.
Allungai una mano verso la fredda superficie di vetro e il riflesso fece lo stesso. Ci sfiorammo i polpastrelli con un tocco delicato. Impercettibile e ultraterreno, si instaurò un legame. E io cercavo me stessa in quel sorriso.
Invano.
 
Qualche giorno prima
Il sole era alto nel cielo in un giorno d’estate di inizio agosto. Mancava poco al mio compleanno ed ero al massimo dell’eccitazione; sotto i caldi raggi luminosi, saltellavo e agitavo le braccia, facendo ogni tanto dei piccoli versi. Non potevo farne a meno perché sapevo che stava per arrivare il mio momento speciale. Tutt’intorno, il giardino era pieno di fate e fiori che danzavano al ritmo dei miei sobbalzi. Mi dicevano cose che però non ascoltavo, troppo presa dalla felicità.
«Anna. Anna! Anna, rispondi!». L’urlo di mia madre mi raggiunse la mente, oltre che le orecchie che fino ad allora l’avevano completamente ignorata.
Smisi di muovermi e mi zittii. Girandomi lentamente, la guardai.
«Anna, finalmente… la prossima volta mi vedrò costretta a prenderti per un orecchio!» disse, rimproverandomi. «Non puoi sempre chiuderti nel tuo mondo e ignorare tutto e tutti».
Io annuii, abbassando lo sguardo. In quei casi non sapevo mai come rispondere perché avrei semplicemente detto: “Non ci faccio mica a posta!”, ma era inutile dirlo e ridirlo. L’avevo ripetuto innumerevoli volte alla mamma ma lei continuava a dirmi cosa non potevo fare, cioè essere me stessa.
Le insegnanti a scuola facevano lo stesso e così i miei compagni, quindi alla fine avevo imparato che era meglio restare in silenzio e annuire perché le persone accettavano la buona volontà di cambiare qualcosa di sbagliato. Ed era così che mi sentivo: sbagliata.
«Tra poco è pronto il pranzo, vai ad avvisare il nonno.»
«Va bene. Cosa si mangia?» domandai, riportando lo guardo su di lei, scrutando la camicetta estiva.
«Insalata di riso… e ci ho messo un sacco di wurstel!». Concluse la frase con un gran sorriso che vidi con la coda dell’occhio. Non sapevo che voleva rimediare al rimprovero inappropriato di prima.
Saltellai e agitai le braccia un pochino: adoravo i wurstel.
«Vado subito!» e corsi verso la casetta di legno sul retro, dove il nonno passava il tempo ad aggiustare i suoi orologi a cucù.
Nel giro di poco tempo fui davanti alla porta lasciata aperta per lasciar circolare l’aria; il nonno era chino sul tavolo da lavoro. Indossava una canottiera bianca pulita e dei pantaloni lunghi e comodi di color marrone chiaro. Ai piedi calzava delle ciabatte estive.
Entrai, cercando di non distoglierlo dal suo lavoro. Amavo osservarlo mentre incastrava, lucidava e osservava quei misteriosi ingranaggi. Poi gli orologi erano così belli: incarnavano le fantasie più disparate, come castelli incantati o vivaci villaggi. Lui affinava lo sguardo, parlottava e sospirava. Sul viso gli si formavano delle rughe, sommandosi a quelle dell’anzianità.
Avrei voluto toccarle ma questo l’avrebbe sicuramente deconcentrato dal suo lavoro quindi preferivo non disturbarlo. Aspettai che si accorgesse della mia presenza, mentre si spostava dal tavolo per prendere dei pezzi dagli innumerevoli cassetti, stracolmi di ricambi.
Si voltò verso di me, soffermando lo sguardo. Sospirò e poi sorrise calorosamente.
«Dimmi, Anna, cosa succede?».
«Cosa fai?».
«Cambio i pezzi, che ormai si sono completamente arrugginiti, a questo orologio. Lo devo finire entro domani».
Annuii, non sapendo come rispondere, ma non era un problema perché lui comprendeva quando ero a disagio.
«Ma sei venuta per dirmi qualcosa, non è vero?», suggerì sorridendo, mentre appoggiava sul tavolo da lavoro le cose che aveva in mano.
Ci misi un attimo a riordinare i pensieri, ma poi risposi: «Sì, la mamma dice che è pronto! E ha cucinato l’insalata di riso con i wurstel!».
«Beh, allora corriamo a mangiare. Voglio riempirmi la pancia!».
Insieme uscimmo dalla casetta, sotto i caldi raggi del sole estivo di mezzogiorno, ed entrammo in casa, passando dalla porta sul retro.
 

 
La nostra dimora era piccola; composta da un bagno, due camere e una cucina. Un grazioso giardino la contornava e la casetta di legno in cui viveva il nonno, un monolocale, era situata sul retro, vicino alla vasta campagna che si estendeva a perdita d’occhio.
Noi tre eravamo i reggenti di quel regno indipendente e io sognavo di vivere in un castello incantato.
Per la maggior parte del tempo mi ritrovavo con i piedi posti tra le due realtà; una gamba da una parte e una dall’altra. Questo non era assolutamente un male per me, ma gli altri mi ripetevano spesso di non stare con la testa tra le nuvole, di mettere da parte queste fantasie. Solo il nonno mi capiva, solo lui riusciva a entrare in quel regno magico.
Facevamo spesso giochi basati sulle mie fantasie che prendevano forma sotto sembianze di storie eroiche e piene di mistero. Io e lui inscenavamo ogni cosa e curavo i minimi dettagli, arredando la mia camera con i pupazzi a modo di creare un palcoscenico con il pubblico, oppure gli abitanti di un villaggio e così via.
Ovviamente era importante che tutto girasse intorno alle mie regole; a causa di questo era difficile giocare con gli altri bambini della mia età. Avevo quasi nove anni ma nessun amico e questo mi avrebbe fatta sentire tremendamente sola se non ci fosse stato il nonno, l’unico che mi capiva, ascoltava e non mi forzava a essere ciò che non ero.
 
Il giorno prima del mio compleanno accadde qualcosa di strano. Mi stavo provando gli abiti per la festa dell’indomani e specchiandomi in camera, ammiravo il vestitino che adoravo. A quel punto, con la coda dell’occhio, notai un’ombra proprio dietro al mio riflesso. Spaventata, mi voltai per vedere chi c’era, ma non vidi nessuno, oltre ai miei peluche messi in fila sul baule accanto alla porta, che era chiusa. Non avevo sentito alcun rumore e io ho sempre avuto un udito ben sviluppato. Quindi cosa avevo visto, esattamente?
Tremante, tornai a scrutare lo specchio ma non notai niente di strano e la paura passò in poco tempo, convincendomi di aver avuto una sorta di allucinazione.
Quella notte dormii male; sognai di trovarmi davanti allo specchio e il mio riflesso era pallido e senza volto, completamente nudo. Non riuscivo a muovermi, a voltare lo sguardo o a fare qualsiasi altro singolo movimento. I muscoli erano paralizzati, duri come il marmo, mentre il cuore batteva all’impazzata nella cassa toracica, facendomi tremare dalla testa ai piedi. Il riflesso era immobile mentre io non riuscivo a fuggire da quell’orribile visione. Fu così che l’incubo andò avanti; un’infinità di tempo a osservare il riflesso di una me stessa sconosciuta e inquietante con dietro le sfumature del fuoco.
Lentamente si insinuò nella mia testa un impulso.
Un’idea.
E faceva paura. Mi svegliai avvolta dal sudore, urlando.
Era il giorno del mio compleanno ma io nemmeno ci pensavo più. La mamma era corsa in mio soccorso, sentendomi urlare e piangere. Mi abbracciò forte, anche se sapeva bene che odiavo essere toccata, e mi tempestò di domande e affermazioni. Cose del tipo: «Cosa è successo? Hai avuto un incubo? Guardati, sei fradicia… dobbiamo asciugarti subito o ti ammalerai...». Non la smetteva più e l’unica cosa che riuscii a dire fu quella di lasciarmi andare.
Poco dopo mi spogliai e feci un bagno veloce, per poi fare colazione con una delle mie pietanze preferite, cioè semplicemente latte caldo e biscotti al cioccolato. L’incubo in tanto si fece man mano meno delineato, fino a offuscarsi. Non ero consapevole però di non aver dimenticato nulla. Avevo soltanto sepolto ciò che era successo, da qualche parte nella mia mente.
 
Era presto e il nonno dormiva sicuramente, quindi decisi di non andare a disturbarlo.
Fu mentre mi preparavo in camera, dopo il bagno e la colazione, specchiandomi, che rimembrai. La paura, soprattutto. Quella notte, prima di addormentarmi avevo provato un terrore tremendo, senza saperne il motivo. Era notte fonda quando ciò era accaduto ma in quel momento avrei voluto accanto il nonno, perché stranamente il mio tormento era rivolto a lui. Non sapevo definire niente di ciò che avevo provato, soltanto orrore e queste due cose erano in qualche modo collegate.
Con ciò in testa, ingoiando le parole che avrei voluto andare a dirgli, mi misi a dormire e feci quell’incubo.
Non riuscivo a togliermi dalla testa il volto pallido riflesso nello specchio e il colore delle fiamme nello sfondo. Un’ombra in contrasto con l’intensità del calore scaturito da quell’immagine.
Trattenni l’impulso di correre dal nonno e poggiai la mano sulla superficie liscia e fredda del vetro. La normale rappresentazione di me stessa mi restituiva il tocco e tutto era nella norma.
Ma l’idea, la paura e l’impulso di correre alla casetta si fecero impellenti.
Senza esitare ulteriormente, uscii da camera mia, traversai lo stretto corridoio lievemente illuminato dall’alba e raggiunsi la casetta del nonno, attraversando il giardino. La mamma non si accorse di nulla perché s’era rimessa a dormire, essendo molto stanca per il turno di lavoro del giorno prima.
 
L’aria era ancora molto tiepida e per niente afosa, gli insetti volavano di fiore in fiore e la luce del sole tenue rischiarava i contorni nodosi di legno della casetta. La porta era chiusa, ma non a chiave. L’aprii lentamente, cercando di fare il meno rumore possibile.
Sbirciai all’interno e vidi il nonno, addormentato sul suo letto, avvolto dal lenzuolo, che russava.
Osservandolo, fui presa da un impulso: di correre ad abbracciarlo, di baciarlo sulla guancia, di svegliarlo e dirgli che gli volevo bene e avevo avuto tanta paura.
Ma preferii lasciarlo dormire, per rispetto, quindi chiusi lentamente la porta, una volta accertata che tutto fosse a posto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo 2
Oblio
 
In quel giorno caldo di agosto non si festeggiò nessun compleanno. Si svolse una veglia funebre dedicata al nonno, morto nel sonno, probabilmente intorno alle 8 del mattino.
Io me ne stavo seduta in cucina, su una piccola sedia, in un angolo, e non riuscivo a parlare, mangiare e soprattutto a piangere.
I parenti e la mamma mi chiesero più volte se volevo dare un ultimo saluto al nonno, ma io non rispondevo, al massimo annuivo osservando un punto fisso sul muro di fronte. C’era una piccola macchia e io mi sentivo risucchiata da quel punto nero, da quell’oblio.
Non sapevo dire che in altro modo avrei potuto descrivere ciò che provavo in quel determinato momento. Non c’erano tristezza o rabbia. Nemmeno senso di colpa al momento, nonostante la premonizione avuta alcune ore prima.
Era questo il punto, non vi era proprio nulla e io brancolavo in quell’oblio come fa una sonnambula lungo un infinito corridoio. Le braccia semi sospese, il passo lento e stentato, la coscienza persa altrove. Era così che mi sentivo.
La mamma aveva urlato, poi aveva pianto, poi mi aveva abbracciato, poi mi aveva schiaffeggiata perché non dicevo nulla, poi mi aveva lasciata stare.
Ora solo i parenti mi lanciavano ogni tanto qualche occhiata di striscio e sospiravano. Parlavano tra loro di cose che giungevano come ovattate alle mie orecchie e si perdevano prima di arrivare alla mente.
I loro movimenti erano come rallentati e così anche i miei. Rimasi per molto tempo seduta, senza mangiare, bere e parlare.
Alla fine non so perché, decisi di alzarmi e di recarmi in camera.
Il da farsi fu più difficile del previsto; mi sentivo lontana dal mio stesso corpo e il mondo era come una realtà fittizia che mi avvolgeva e amalgamava ogni mio movimento. Camminavo e fluttuavo, in qualcosa di freddo e denso. Era l’aria, non più calda e afosa. S’era trasformata in vento gelido che penetrava fin dentro alle ossa. Dopo non so quanto tempo, raggiunsi la mia camera e con fatica mi sedetti sul letto, avvolta dalla semioscurità del tramonto. Era passato in un attimo il giorno del mio compleanno. Il mio giorno speciale era già finito e io non me n’ero nemmeno accorta.
In quel giorno ero morta anche io, o almeno così credevo, perché non riuscivo più a esprimere alcuna emozione.
Presi i peluche, con movimenti automatici e goffi, e ne abbracciai alcuni: uno a forma di dinosauro e un altro a forma di orso.
La loro morbidezza trasmettevano alle mie dita alcune sensazioni. Erano vacue e lontane, ma meglio del vuoto assoluto. Però mi sentivo ancora fuori e lontana dal mio vero io. Era come guardarsi dall’esterno od osservare alcune parti del proprio corpo come se fossero distanti e non proprie.
La luce che filtrava dalla finestra si fece velocemente di tonalità più rosse, delineando i contorni della mia stanza in uno spettacolo di colori che non mi ero mai soffermata a osservare.
Il mio senso del tempo era alterato e non capii che era passata un’altra ora. Riuscii a sentire alla fine mia madre che salutava gli ultimi parenti che se ne stavano andando. L’indomani ci sarebbe stato il funerale ma io non ero presente a me stessa e forse mi sarei finta malata, pur di non andarci.
Decisi fermamente di non cenare e di andare subito a dormire. In qualche modo, ero stanchissima. Le forze s’erano esaurite in quel lungo cammino nel nulla che mi aveva svuotato il petto.
Mi addormentai quasi subito, facendo sogni agitati che non ricordo. So solo che mi svegliai nel cuore della notte, con il corpo completamente sudato e l’affanno, mentre il cuore martellava nella cassa toracica.
Cercando di non fare rumore, scesi dal letto e a piedi nudi tastai il pavimento fresco. Ero di nuovo presente. Almeno in buona parte. Riposare mi aveva fatto bene. Ma poco dopo, dai rimasugli del sogno dimenticato, ebbi di nuovo un forte bisogno di correre alla casetta di legno.
 
L’aria era pesante e quasi irrespirabile e io ero del tutto bagnata di sudore che non faceva altro che aumentare. Nonostante questo, sentivo un forte freddo fin dentro alle ossa. Delle gocce che colavano lungo la spina dorsale sembravano così acuminate quasi da far male.
Il buio era intenso e temevo di accendere la luce per paura di vedere cosa esso poteva nascondere. Comunque ero in grado di orientarmi bene anche senza, avendo da sempre un’ottima memoria.
Un passo avanti all’altro, come su un trampolino, proseguivo in quel viaggio che sembrava una spirale infernale.
Mi tremavano le ginocchia e cominciai a sfarfallare le mani quando raggiungi il giardino. Tra fuori e dentro non cambiava poi molto; la cappa d’umidità e il buio erano persistenti e soffocanti.
Come se stessi percorrendo un labirinto, arrivai alla porta della casetta di legno dopo un tempo indefinitamente lungo.
La porta nodosa era chiusa e dentro era buio, da come potevo vedere dalla finestrella a vetro sul lato sinistro. Poggiai la mano destra sul manico e un altro brivido mi attraversò la schiena. Iniziai a sfarfallare la mano sinistra in modo frenetico. Avevo anche voglia di urlare, ma già era molto per me riuscire a fare quel movimento auto-stimolatorio che serviva a calmarmi. Spinsi con forza perché tutto sembrava più pesante del solito, persino il mio stesso corpo, poi aprii lentamente la porta. Essa emise un cigolio che non aveva mai fatto prima e la cosa mi inquietò molto, aumentando il mio tremore.
Ci misi altro tempo indefinito per spostarmi da davanti all’entrata e muovere un passo, ormai non ero nemmeno più certa di essere nel mondo reale perché tutto intorno a me appariva lontano e ovattato. Ora potrei descriverlo come un ologramma della realtà che gli assomigliava soltanto, ingannando i sensi.
Finalmente entrai. Feci un singolo passo e al tempo stesso accesi la luce. E. Lo. Vidi.
Chiusi la porta e corsi in giardino, cadendo a terra.
“No, quello non è - No, quello non è il nonno. Dov’è mio nonno? Cosa è quella cosa gli assomiglia?”.
I pensieri scorrevano frenetici e le domande abbondavano. Ero troppo piccola anche solo per immaginare che quello che avevo visto non ormai altro che un fantoccio. Una sorta di enorme bambola simile al nonno, che avevano vestito con abiti eleganti e posto delicatamente sul suo letto.
Il letto in cui avevano spesso giocato e parlato.
Ora il suo letto di morte.
Non sapevo darmi risposte, non sapevo darmi pace, non comprendevo e non accettavo. Inoltre il senso di colpa mi opprimeva il petto.
Come in un incubo, in cui si viene inseguiti da fantasmi che vogliono ucciderti, corsi e tornai in camera mia in un baleno, chiudendo la porta e accendendo la luce.
Il bagliore mi accecò e barcollando, cominciai a girare su me stessa.
Era colpa mia s’era morto era colpa mia s’era diventato un fantoccio era colpa mia se non l’avevo salutato era colpa mia se avevo saputo in anticipo che qualcosa di brutto sarebbe accaduto era colpa mia perché non le ero stata accanto non lo avevo ascoltato a volte non avevamo giocato insieme abbastanza e che fine faranno tutte le sue cose gli orologi a cucù chi li aggiusterà più perché sento il cuore che esplode e non piango perché sento la testa trafitta dal dolore e non svengo perché perché perché perché.
Girai per un enorme quantità di tempo, fino a cadere a terra e vomitare quel poco che avevo mangiato durante la giornata.
Tossii diverse volte, sputando saliva e succhi gastrici, insieme a pezzi di cibo. Del muco mi colava dal naso. Tutto intono a me girava senza sosta, come su una di quelle giostre che c’erano al parco.
Dolore, al petto e alla testa.
Rabbia, dentro il cuore.
Colpa.
Mentre il mondo vorticava senza sosta, io non potevo far altro che fissare lo schifo che avevo rigurgitato, mentre il muco mi entrava in bocca. Il sapore era salato, come le lacrime che non avevo mai pianto. Tutto nel mio cuore era in subbuglio e desideravo sparire.
Fu a quel punto che, quando smise di girarmi la testa, mi alzai e arrancando mi avvicinai allo specchio. Non sapevo cosa cercare esattamente… forse solo ritrovare me stessa.
E vidi. Il riflesso dell’altra volta; il mio corpo nudo, il volto nascosto dall’ombra, per eccezione del sorriso a mezza luna. Allungai la mano destra e appoggiai delicatamente i polpastrelli sul vetro liscio. Il riflesso fece lo stesso e stabilimmo un contatto.
Non avevo più paura. Non ero nemmeno più certa di chi fossi. So solo che restituii il sorriso al nudo riflesso di una me stessa.
Essa alzò lo sguardo, permettendomi di scrutarle il volto: ciò che vidi fu l’Oblio del desiderio di abbandonarci al dolore.
Sorrisi ancora di più e appoggiai anche l’altra mano, percependo il calore delle sue dita attraverso il vetro.
“Siamo sole”, disse nella mia mente.
«Siamo sole», ripetei.
“Siamo morte, perché ci siamo perse”.
«Siamo… noi siamo noi».
“Vieni con me.”
A quel punto i miei piedi nudi, sporchi di vomito, si sollevarono da terra e avvertendo un forte risucchio, caddi nell’oscurità.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo 3
Specchio
 
“Saremo insieme per sempre”.
Con questa frase nella mente mi svegliai sul pavimento della mia camera, avvolta da una strana penombra. Non era né notte né giorno e l’aria era quasi fredda. I colori avevano perso la loro intensità e adesso mostravano sfumature diverse di grigio pallido.
“Segui la strada che ho preparato per te”.
L’ordine che mi trapassò la mente.
Non sussultai, non provando assolutamente nulla. Avevo come un buco nel petto che andava espandendosi.
Mi accorsi solo quando mi alzai in piedi di essere pulita ma soprattutto senza vestiti. Non che la cosa mi importasse, visto che odiavo i tessuti. Almeno non avevo più addosso vomito e muco.
La porta della camera era semiaperta, così come anche la finestra, dove filtrava un’aria abbastanza gelida da farmi rabbrividire un po’.
Uscii dalla camera e mi ritrovai in corridoio, ma era diverso. Era lungo, sembrava senza fine, e l’illuminazione sembrava strana, non naturale. Le pareti, piene di quadri con foto di famiglia, si ripetevano ed erano sfocate.
“Cammina… cammina… cammina, non fermarti mai”.
Ubbidii automaticamente e cominciai a muovere con decisione i primi passi.
Ormai mi ero arresa al dolore e quindi non potevo che eseguire gli ordini. Cercare uno scopo, trovare me stessa era la mia unica speranza, anche se ancora non lo sapevo. Al momento venivo guidata solo dal puro istinto di sopravvivenza.
Ero come in una casa delle bambole, dalle stanze infinite e tutte uguali.
Aprivo ogni tanto qualche porta, mossa da debole curiosità e vedevo strane forme e immagini scorrere in moltitudine di colori che risaltavano sul grigio pallido dell’ambiente intorno.
Fuoco, oscurità, morte, mostri, bambole, orsetti di peluche e dinosauri di stoffa. Tutto era immerso in un enorme caos.
Non c’era nessuno da incolpare, se non solo me stessa. Avrei voluto celebrare appena avessi trovato ciò che stavo cercando, ma al momento ero solo persa in quel sogno infinito.
Cammina… cammina… continua a camminare. Non fermarti. Non voltarti. Non tornare indietro. Devo trovare la mia amica segreta, devo confessarle il mio peccato.
A catechismo ci avevano insegnato che ognuno di noi nasceva con in sé il peccato. Io non facevo distinzione e adesso ne avevo dimostrato l’essenza. Avevo bisogno della mia migliore amica per espiarlo. La mia amica segreta.
“Il dolore è la tua casa… su, raggiungimi”.
Continuavo a camminare, ogni tanto perlustrando una stanza, ma procedevo come con il pilota automatico, incantata da quelle parole. Avevo le braccia paralizzate lungo il corpo, che invece di solito amavo agitare freneticamente. Ora di amore non ce n’era più.
Solo rabbia e dolore. Ma bloccati, infondo allo stomaco, incapace di farmi combattere. Il legame sembrava indissolubile e io mi arrendevo a quelle parole.
Vieni con me.
 
Camminai e camminai, esplorai stanze infinite e scrutai finestre affacciate sul nulla, ma non riuscii a trovare la mia amica speciale.
Sinceramente avrei dovuto aver paura di lei ma non riuscivo a provare più nulla.
Mi ero frammentata in diversi pezzi e nella casa dello specchio, nell’infinità di quelle stanze, avevo incontrato tre diverse me stesse.
Anna che saltellava felice, con i peluche in mano. Questa era la mia felicità perduta e tentai invano di afferrale la mano. Lei sfuggiva a me come un gazzella.
Anna che piangeva e urlava, perché non riusciva a farsi capire a parole o non otteneva quello che desiderava. Questa era la mia rabbia e disperazione, ciò che mi dava la forza d’impormi per combattere contro le ingiustizie che subivo o almeno che credevo come tali. E come prima tentai di afferrarla o abbracciarla, ma niente, perché svanì nel fumo, volando via dalla finestra.
Infine, Anna che inventava storie a non finire, giocando con il nonno.
Davanti a quella scena mi paralizzai per alcuni interminabili secondi, poi caddi a terra, ancora incapace di muovermi.
Con enorme forza di volontà, composi un arco nell’aria con la gamba e urtai con il piede la porta semiaperta della stanza, chiudendola con una spinta.
Rimasi a terra a lungo, come immersa in un sogno dentro un sogno. Tremavo ma non più per il freddo. Sentii un dolore al petto vuoto e qualcosa di freddo, pesante e dal forte odore metallico cadde a terra, uscendo dal centro del mio stomaco.
Sapevo benissimo cosa fosse. L’avevo vista di nascosto nei film che mamma guardava a volte la sera, mentre supponeva che io dormissi. Era una piccola pistola.
La tastai con la mano destra, sentendola liscia e dura, oltre che stranamente più fredda di quanto mi aspettassi.
Trovai finalmente la forza per muovermi e la impugnai; sembrava fatta a posta per me e sapevo stranamente come utilizzarla. Non era pesante ed era maneggevole.
All’improvviso un pensiero mi colse come un lampo e decisi di tornare sui miei passi. Camminai per pochi secondi, ma lì il tempo non aveva senso, quindi poterono anche passare delle ore.
Quando arrivai alla porta che celava l’Anna Felice, l’aprii senza esitare e puntai la pistola contro la me stessa che non smetteva di divertirsi.
“Brava. Vedo che ci siamo finalmente intese. È un mio regalo per te. Ora sparale in testa e metti fine a tutto questo”. La voce della mia amica era tornata e sussurrò queste parole con dolcezza.
Stavo in piedi, sull’uscio della porta spalancata e mi sentivo scoppiare la testa. Odiavo vedermi in quel modo. Odiavo vedermi felice. Odiavo me stessa con tutto il cuore. Non meritavo di essere felice. Non meritavo nulla.
Far sparire tutto quanto era l’unica soluzione.
Quindi puntai la pistola e senza più esitazione, premetti il grilletto. Feci subito centro, proprio sulla fronte della bambina, che cadde a terra, restando finalmente immobile.
Trassi dei profondi respiri e poi percepii l’approvazione di colei che guidava i miei passi.
Proseguii e arrivai alla porta successiva, quella della rabbia e disperazione.
Il fumo si era ricomposto, tornando a dar forma a quell’Anna così odiosa. Sì, la detestavo. Quindi alzai di nuovo la pistola e la puntai contro la sua fronte. Lei continuava a piangere. Il mio abbraccio, quello che avevo desiderato darle, divenne una pallottola di metallo nel cranio. Anche lei cadde a terra di colpo, con un tonfo sordo.
Il sangue cominciò a espandersi a macchia d’olio sul pavimento scuro, tingendo ogni mattonella di scarlatto. Il dolore aveva quel colore. Il senso di colpa aveva quell’odore. Il peso che portavo aveva quel sapore.
“Bene, ora manca l’ultima stanza. Chiudiamo questa storia e finalmente sarai libera”.
Uscii dalla stanza ed eseguendo gli ordini come un automa, tornai ancora sui miei passi, fermandomi dietro l’ultima porta chiusa.
Non riuscivo ad aprirla. Prima a fatica l’avevo chiusa, paralizzata dal terrore.
Afferrai la maniglia e deglutendo, spinsi in giù, facendo scattare la serratura.
Davanti a me comparve la stessa scena di prima: l’altra Anna e il nonno che giocavano, inventando storie.
Esitavo.
Esitavo e tremavo.
Vederci felici insieme riportò indietro memorie ormai quasi perdute. Il cuore mi serrava la gola e la pistola penzolava al lato destro del mio fianco, con il braccio che la reggeva quasi inerte.
Dolore, vero ed intenso dolore. Potevo abbracciarlo, sentirlo e toccarlo. Usciva dal mio petto e mi faceva battere di nuovo il cuore.
“Cosa fai? Sparale, così sarà finita e smetterai di soffrire.”
Non ascoltai la voce.
Non volevo più ascoltare nessuno.
A lungo mi era stato detto cosa era giusto o sbagliato in ciò che facevo. Da tempo mi era stato imposto di comportarmi in un certo modo, ma solo quando ero con il nonno riuscivo a essere davvero me stessa.
Di fronte a me ora c’era tutto questo. Come avrei potuto farlo sparire? Come avrei smesso di soffrire, così?
E forse soffrire non era sbagliato.
Passo dopo passo, lentamente, mi avvicinai al nonno, che però non riusciva vedermi. Lui giocava e rideva con l’altra me.
“Lui è morto. E sai che è colpa tua. Sapevi che sarebbe accaduto e non hai fatto nulla. Lo hai lasciato morire. Quindi muori anche tu!”.
La voce era adirata.
Io la ignoravo perché ero impegnata a guardare gli occhi azzurri del nonno. Erano lucidi, intensi e profondi.
Il vuoto che avevo nel petto sparì e compresi.
Caddi sulle ginocchia, lasciai andare la pistola e piansi.
Piansi a lungo, lacrime infinite che avrebbero potuto allagare l’intera stanza, come nella favola di Alice del Paese delle Meraviglie, una delle mie preferite.
Mi abbracciai il petto e continuai a singhiozzare per molto tempo, mentre intorno a me l’aria di festa non cessava.
Fu solo quando cadde il silenzio, che alzai lo sguardo. Vedevo male a causa delle lacrime e il naso mi colava.
Di fronte a me c’era la me stessa dello specchio, senza volto. Era in ginocchio e in un certo senso mi osservava, se così si poteva dire.
“Quindi hai capito?”.
Con un singhiozzo, finalmente parlai: «Sì… non potevo fare niente. Le fiamme s’erano già accese… io non potevo spegnerle.»
L’altra annuì.
“Adesso cosa farai? Io non posso farti uscire.”
Non risposi.
Entrambe scoppiammo a ridere.
Una risata fragorosa e di gusto, di cui avevo quasi dimenticato il suono.
Piangendo e ridendo, afferrammo all’unisono la pistola. Io con la destra e lei con la sinistra.
Finalmente vidi il suo volto. Il mio riflesso era tornato come prima. La mia amica era uscita dall’eclissi che le avevo inferto, affossando me stessa.
Lei mi forzò a puntarle a pistola sulla fronte e sorridendo, disse a voce: «Rompi lo specchio, è l’unico modo per uscire. Io non posso fare altro.»
Non compresi appieno ma prima che io potessi dire o fare nulla, lei premette il grilletto facendo pressione sulle mie dita.
Non uscì sangue dalla sua fronte; sbalzate entrambe all’indietro dal colpo, caddi di schiena e vidi un luce dorata dipanarsi da lei e un rumore assordante di vetro che s’incrina, che quasi ferì le mie orecchie. Ci portai sopra le mani e chiusi gli occhi.
 
Mi svegliai sul pavimento, accanto al mio vomito, con addosso ancora il vestito del giorno prima ed era quasi l’alba, perché i rossi raggi del sole filtravano dalla finestra dalle tende accostate.
Alzandomi lentamente, mi misi davanti allo specchio, per assicurarmi che tutto fosse a posto. Esso restituiva solo il mio riflesso, nient’altro.
A quel punto mi tolsi vestiti sporchi, restando in canottiera e mutande e corsi in camera dalla mamma.
Salii pian piano sul letto; lei dormiva profondamente.
L’abbracciai e aspettai che si svegliasse.
Vedendomi non sembrò sorpresa.
Mi sorrise, poi entrambe iniziamo a piangere lacrime dolci.
 
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