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Autore: Sweet Pink    30/11/2021    3 recensioni
Impero Britannico, 1730.
Saffie Lynwood e Arthur Worthington non si potrebbero dire più diversi di così: freddo quanto implacabile giovane Ammiraglio della Royal Navy lui, allegra e irriverente ragazza aristocratica lei. Dire che fra i due non scorre buon sangue è dire poco, soprattutto da quando sono stati costretti a diventare marito e moglie contro la loro stessa volontà e inclinazione!
Entrambi si giurano infatti odio reciproco, in barba non solo al fatto di essere i discendenti di due delle più ricche e antiche famiglie dell'Impero, ma pure alla vita che sono sfortunatamente costretti a condividere.
Eppure, il destino non è un giocatore tanto prevedibile quanto ci si potrebbe aspettare, poiché sono innumerevoli i segreti che li tengono incatenati l'uno all'altra; segreti, che risalgono il passato dei Worthington e dei Lynwood.
E se, con il tempo, i due nemici si scoprissero più simili di quanto avrebbero mai immaginato, quale tremendo desiderio ne potrebbe mai derivare?
Genere: Romantico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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CAPITOLO OTTAVO

IL LEGAME CRUDELE





Un sole tiepido e inaspettato illuminava la lussureggiante vegetazione di Hyde Park, ed era un chiarore tanto brillante che a Saffie quasi parve di non poter più cogliere nulla della persona di fronte a lei.

Quest’ultima si limitava semplicemente a scomparire nella nebbia di luce bianca e accecante, lasciando la ragazza indietro, ad incespicare sullo scricchiolante sentiero di ghiaia, nel patetico tentativo di provare a raggiungerla per tempo.

Non lasciarmi qui!” provò a dire Saffie anche se, si rese subito conto, persino il canto dei passerotti nascosti fra le fronde degli alberi era più forte della sua stessa voce.

Eppure, davvero strano, l’uomo intento a camminarle davanti fermò immediatamente i suoi passi e divenne di nuovo visibile. La Duchessina vide le sue stesse esili dita protendersi nella sua direzione, tendersi con ansiosa urgenza e cercare di afferrare la mano grande di colui che amava, pure se le era proibito farlo.

Una brezza improvvisa e fredda turbò la pace di quel pomeriggio soleggiato, scuotendo le chiome verdi degli alberi con violenza e sollevando un turbinio di brune foglie morte che oscurarono gli occhi castani di Saffie, spalancati dallo stupore: un viso imbarazzato e un sorriso intriso di dolce gentilezza, fu tutto ciò che riuscì a intravedere.

Non c’è altro modo” disse allora l’uomo, i capelli rossicci che s’agitavano sulla fronte bianca. “Vieni via con me, Saffie. Solo allora sarò un uomo veramente felice.

Ipnotizzata dalle sue parole, la ragazza mosse un piccolo piede in avanti, come a voler raggiungere l’alta figura che se ne stava girata verso di lei in muta attesa. No, Saffie sapeva di doverla raggiungere a tutti i costi.

Non fece mai in tempo.

Dietro alle sue spalle, una porta venne spalancata con decisione e sbatté contro il muro in mattoni del piccolo appartamento londinese che le aveva dato rifugio, producendo un secco suono di condanna a morte. Saffie si voltò di scatto, nelle iridi scure lo sguardo braccato di una preda messa all’angolo: infine, erano riusciti a trovarla.

Due uomini vestiti di rosso entrarono nella stanza e la ragazza seppe che la stavano fissando con riprovazione, seppure i loro volti fossero privi di alcun lineamento. “È lei, signore” esordì la voce lontana di uno di quei bianchi manichini, ridicolmente abbigliati da Ufficiali dell’Impero. “È la figlia di Alastair Lynwood.”

Dal buio del corridoio, emerse la figura storta e aberrante del pirata a cui Saffie aveva tolto la vita: gli occhi dell’uomo la inchiodarono al pavimento, poiché erano due iridi bianche e immobili quelle che la stavano giudicando; mentre un sorriso malvagio e senza denti si andò ad aprire su un’oscena faccia rosso sangue.

Proprio così” disse il criminale, trionfante di gioia. “Non puoi nasconderti a me, dannata assassina.

Non puoi nasconderti né da tuo padre, né dai tuoi stessi peccati.

La Duchessina di Lynwood socchiuse lentamente gli occhi castani, e scoprì di avere le ciglia incrostate di lacrime ormai rapprese. Si rese immediatamente conto di avere pure il viso smorto affondato tra le morbide lenzuola, il piccolo corpo rannicchiato su sé stesso, sotto un accogliente e caldo giaciglio fatto di coperte mentre – fuori dalla sua tana – un mormorio basso e armonioso spezzò il silenzio in cui la camera da letto era immersa.

Incuriosita, Saffie alzò appena la testa castana, ricercando la fonte di quella timida voce da pulcino appena nato: tra le lunghe ciocche dei suoi capelli disordinati, la ragazza riuscì a inquadrare la morbida figura di Keeran Byrne seduta a poca distanza, solennemente assorta nel complicato ricamo di una cuffietta nuova di zecca.

Le iridi nero pece della diciassettenne non si smuovevano dal lavoro preciso e abile delle sue stesse mani, mentre le labbra carnose si schiudevano appena e, da esse, uscivano fuori suoni misteriosi, mormorati piano come fossero il canto ammaliatore di una sirena.

…Sí’n bhean í dtug mo chroí gra dí” intonò l’irlandese, cadenzando con grande naturalezza parole ignote a Saffie ma, non per questo, meno affascinanti. Un lieve sorriso triste fece la sua comparsa sul viso paffuto e pallido di Keeran che continuò a cantare, ignara di avere un’interessata ascoltatrice silenziosa: “Chuala mé an smólach ‘s a’lon dubh a’ra’…gur éalaigh mo ghra’ thar sàile”*.

Di nuovo, il silenzio cadde nella ricca stanza della signora Worthington ma, con grande sorpresa della ragazzina mora, esso fu subito spezzato dal rumore ovattato di due piccole mani che battevano l’una contro l’altra, producendo un piccolo applauso d’ammirazione. Keeran alzò gli occhi di scatto e li posò sul nascondiglio in cui la signora Saffie aveva deciso di seppellirsi negli ultimi due giorni: una testa arruffata sbucava infatti dalle pesanti coperte, mentre uno sguardo di liquida pacatezza venne lanciato nella sua direzione, risultando all’irlandese fin troppo intenso e penetrante.

Non a caso, la signorina Byrne si rinchiuse subito nella sua consueta aria di paurosa prudenza e, senza riuscire ad impedirselo, un imbarazzo violento tinse le sue gote sempre rosa di un acceso quanto adorabile rosso ciliegia. “Si-signora!” balbettò infine, stringendo le dita nervose sui ferri da ricamo. “Vi-vi chiedo su-scusa! Non in-intendevo svegliarvi.”

“Mia cara, non credo tu debba farti perdonare di possedere una voce che farebbe letteralmente morire d’invidia molte delle più intonate nobili fanciulle” tentò di scherzare Saffie, il tono tinto di sommessa ironia; pure se, comprese, probabilmente non sarebbe mai più riuscita ad essere la stessa ragazza irriverente che tanto piaceva ad Amandine. La Duchessina puntò le dita sul morbido materasso e si tirò su a sedere, poggiando le spalle sui numerosi cuscini che la sua solerte dama di compagnia le aveva procurato; dopo aver incrociato elegantemente le mani sul grembo, aggiunse: “Confesso di essere parecchio gelosa anche io!”

Al suono di quest’ultima affermazione, Keeran riuscì a diventare incredibilmente ancora più rossa e, spalancando tanto d’occhi, alzò le mani bianche davanti al viso, cominciando poi ad agitarle con incoerente timidezza. “Qu-questo non credo si-sia possibile, signora!” esclamò con forza, non prima di aver lasciato cadere lo sguardo rassegnato verso terra. “Voi siete così bella e intelligente…e di ce-certo non potreste essere in alcun modo invidiosa di una come me.

“Tuo padre sarà pure un Barone, ma non pensare di essere uguale a lui o alle tue sorellastre…tu sei il nulla.”

Saffie osservò con grande dolcezza il volto turbato di Keeran e, per un momento, quest’ultima le ricordò un’altra ragazza fragile che – proprio come lei – si sentiva prigioniera della sua stessa condizione. In un battito di ciglia, le sembrò di essere tornata indietro nel tempo e di trovarsi nella sua lussuosa camera nel Northampton in compagnia, non della diciassettenne, ma di una Amandine dagli occhi bassi e malinconici.

“Ti hanno costretta a tornare, sorella mia. Anche se una come me non ne vale di certo il sacrificio.”

E dire che sua sorella minore non aveva mai veramente saputo quanto per Saffie ne fosse valsa effettivamente la pena, come mai avrebbe potuto immaginare di essere in realtà invidiata oltre misura da colei che reputava il suo punto di riferimento incrollabile. Tutto questo perché, per una volta sola, la Duchessina di Lynwood aveva desiderato poter essere anche lei una principessa…e non un personaggio simpatico e utile, ma infine destinato a rimanere sullo sfondo della storia.

Come se li avesse evocati, frammenti disordinati del sogno avuto neanche mezz’ora prima tornarono a galla impietosi nella sua mente esausta: davanti ai suoi occhi lucidi, danzò l’immagine crudele e dolorosa di colui che era stata obbligata a dimenticare; era passato tanto tempo, eppure la ragazza ricordò con fin troppa lucidità la timida gentilezza di due disarmanti iridi nere. Uno sguardo rassicurante e così caldo.

“Sei stata molto coraggiosa, Duchessina.”

Un fulmine a ciel sereno si abbatté su Saffie e il tocco delicato delle mani grandi di Arthur Worthington si fece sentire prepotente dentro la sua anima, tanto intensamente che quasi le parve di sentire di nuovo le dita dell’uomo premere con gentilezza sulle sue guance fredde. Al solo pensiero dell’Ammiraglio, un leggero rossore le imporporò il viso e, ancora peggio, un batticuore furioso le esplose a tradimento nel petto.

I suoi occhi verdi non l’avevano mai guardata in quel modo.

“Davvero, non vuoi sentire i miei terribili solfeggi” si affrettò a commentare quindi la ragazza castana, sventolando con strana agitazione una mano verso Keeran. Non desiderando fare i conti sia con la scomoda apparizione del tanto detestato marito, sia con i confusi sentimenti che ne derivavano, Saffie decise di farli sparire entrambi concentrandosi sulla canzone gaelica della sua domestica personale: “Ciò che stavi cantando poco fa…cosa significano quelle parole?”

Un sorrisetto spontaneo e triste stiracchiò le belle labbra di una Keeran ignara dell’improvviso turbamento a cui la sua padrona stava tentando con scarso successo di opporsi. “Oh! È solo una scio-sciocchezza, un’antica can-canzoncina che mia nonna soleva cantarmi quand’ero in fasce” spiegò l’irlandese, sistemandosi goffamente una ciocca di capelli corvini dietro all’orecchio. “Sa-sapete, già allora da-davo parecchi fastidi.”

Hanno detto che sono nata per portare disgrazia e morte, poiché tutti gli illegittimi sono dannati.

“Una melodia così bella non può essere affatto una stupidaggine ma, anzi, penso sia stupendo che tua nonna te la cantasse per farti addormentare” emerse dal nulla la voce gentile e comprensiva di Saffie Worthington, ancora quietamente impegnata a fissarla con interesse. “In effetti, si potrebbe considerare un vero gesto d’amore, questo.”

Le iridi nere della signorina Byrne si allargarono stupite, mentre una sensazione di calda gratitudine si propagava a poco a poco nel suo animo diffidente.

Come ci riesce?

Forte delle leggi incrollabili che governavano il loro mondo, la Duchessina di Lynwood era nella posizione di fare di lei ciò che più l’aggradava: avrebbe potuto schioccare le dita e farle subire umilianti punizioni, o muovere la bocca e costringerla a spezzarsi la schiena per i minimi capricci, insultarla tutto il giorno senza che Keeran avesse il diritto né di rispondere, né di poter dubitare del contrario; eppure, Saffie continuava a sedere sul letto, serafica, e la guardava con due occhi castani colmi di un rispetto a cui l’irlandese proprio non riusciva ad abituarsi.

Alla facilità con cui riesce a farmi credere possa esistere una speranza per una come me.

Pure se posso solo ammirare da lontano il suo cielo luminoso e irraggiungibile.

Fu in questa maniera, quasi non accorgendosene, che l’irlandese prese un bel respiro d’incoraggiamento e schiuse appena la bocca, lasciando fuoriuscire una voce sì sottile, ma incredibilmente intonata, da usignolo sperduto: “Un anno colmo di nostalgia ho passato in questa città, per cercare di trovarla; lei, la ragazza mora che mi ha spezzato il cuore” cantò Keeran, socchiudendo le palpebre con assorta concentrazione, come se stesse ricordando qualcosa di nostalgico. “Ho trovato la sua lettera che mi diceva che se n’era andata. Il tordo e il merlo hanno raccontato a tutto il mondo che il mio amore è andato oltre l’oceano”.

Per una qualche ragione assurda e straziante, il cuore di Saffie si strinse nel petto e lei si ritrovò ad abbassare gli occhi sulle sue piccole mani, chiuse nervosamente l’una contro l’altra. La sua visione cominciò a farsi confusa, preda di lacrime che minacciavano di trasformarsi in un esplosivo pianto a dirotto.

“Vieni via con me, Saffie. Solo allora sarò un uomo veramente felice.”

Invece adesso esiste solo il soffocante abisso.

Un enorme sentimento di opprimente senso di colpa si impadronì di lei ed era così difficile da sopportare che Saffie si strinse nelle spalle tremanti, impaurita da un qualcosa che non voleva comprendere: poteva ben vedere la voragine oscura e, sul fondale, l’imponente figura di Arthur Worthington attendeva, come un glaciale e determinato predatore.

Hai detto di odiarlo, ma la verità è che tu lo desideri e lo temi allo stesso tempo.

Un brivido ghiacciato la scosse a tradimento e Saffie si preparò a scoppiare in patetici singhiozzi da un momento all’altro. Fortunatamente, prima che ciò potesse accadere, vennero le dita morbide di Keeran Byrne a salvarla: l'irlandese andò contro tutte le principali regole dell’etichetta di rango e poggiò coraggiosamente una mano bianca sul dorso di quelle della giovane padrona, cercando con tutta probabilità di trasmetterle un qualche conforto di sorta.

“Scu-scusate, signora” sussurrò “Non volevo rendervi ancora più triste e abbattuta; non dopo gli avvenimenti di due giorni fa.”

Assassina.

Le iridi lucide della Duchessina si persero tra le piatte e ripetitive forme della coperta ricamata, mentre quest’ultima a malapena udiva le seguenti parole di Keeran, il cui tono vibrava di preoccupazione: “Avete salvato il figlio del medico di bordo da quel tremendo pirata, proprio come l’eroe di un racconto!”

No, io mi sono semplicemente rivelata uguale a mio padre.

Malgrado le ruggisse in petto una violenta tempesta di insostenibili sentimenti, Saffie fu comunque grata del sostegno della sua più fida alleata e tentò di gratificarla a sua volta, premiandola con un sorriso debole, dalla pacata allegria. “Ti ringrazio, amica mia” disse quindi, intrecciando le sue dita esili con quelle della domestica. “Non fare caso alle mie stupide lacrime, poiché la canzone era davvero bellissima come pensavo. Ma…giusto! Dimmi piuttosto del valoroso Douglas Jackson: che mi racconti di lui?”

Un prevedibile rossore acceso colorò tutto il viso di Keeran e la ragazza castana si trovò a sperare – per il bene sia dell’irlandese che del ragazzo – in un miglioramento repentino delle condizioni di salute in cui il mozzo attualmente versava: il giorno precedente Saffie aveva infatti ricevuto l’esagitata visita del piccolo Ben che, non solo l’aveva informata della partecipazione del signor Jackson alla battaglia, ma di come egli fosse attualmente nelle grinfie del suo inflessibile padre. In conclusione, aveva infine spiattellato il bambino con l’aria di chi la sapeva lunga, le ferite aperte sulla schiena di Douglas avevano fatto infezione ed egli era febbricitante da almeno ventiquattro ore.

“Ho-ho provato a chiedere di lui al signor Rochester, ma-ma il dottore mi ha solo detto di pensare a ri-rimanervi accanto” rispose con un mormorio basso e vergognoso Keeran, abbassando la testa corvina e lasciandosi scappare un pesante sospiro rassegnato. “So-sono stata invadente.”

Per certo, la Duchessina di Lynwood sapeva in prima persona cosa significava voler bene a una persona costretta a letto in preda a terribili febbri ed era altrettanto sicura che la sua timida dama di compagnia non avrebbe trovato pace tanto presto. O almeno, si trovò a pensare Saffie inarcando un sopracciglio, non finché il medico di bordo le impediva di vedere Douglas di persona: Keeran non l’avrebbe mai ammesso di sua spontanea volontà, ma era più affezionata al mozzo di quanto desse ad intendere.

“Beh, posso dire di aver goduto di un sonno ristoratore, non credi?” esordì la signora Worthington con noncuranza, elargendo sulla mano della domestica due o tre colpetti affettuosi. “Riferisci pure questo al signor Rochester, poiché desidero tu vada a far visita al povero Douglas.”

“Si-signora, non pos-posso!”

“Come no?” ironizzò l’interpellata, ridacchiando sommessamente. “Sono appena le tre del pomeriggio e non credo la pendola possa in alcun modo mentirci! Ergo, hai parecchio tempo, mia cara.”

“Ma-ma il dottore…”

Uno sguardo di ferma gentilezza mandò gambe all’aria le deboli proteste della diciassettenne che, non senza un fremito di soggezione, si zittì di fronte all’espressione improvvisamente determinata di Saffie. “Speravo di non arrivare a tanto ma…questo è un ordine, Keeran” disse la ragazza castana, sfoderando uno dei suoi rari sorrisini inquietanti. “Ora va’, e porta i miei saluti al signor Jackson.”

Ovviamente, l’irlandese non poteva opporsi in nessuna maniera alle volontà impartite direttamente dalla Duchessina; e fu così che la signorina Byrne si vide costretta a prendere la porta, pure se sul suo viso paffuto aleggiava un’espressione costituita più di imbarazzato divertimento, che di intimorita obbedienza. Una volta raggiunta la soglia della stanza, si fermò per prendere congedo con un inchino di profonda reverenza, dicendo solo: “Sarò sempre serva vostra, signora Saffie.”

Quest’ultima venne dunque lasciata sola nella ricca camera da letto e non poté che rivolgere un sorriso da ebete al lucido legno della porta chiusa, provando un affetto profondo nei confronti della persona che se n’era appena andata. “Forse non è troppo tardi” pensò Saffie, accarezzando distrattamente le lenzuola “Magari riusciremo a diventare amiche un giorno”.

Forse anche io e Arthur potremo riuscire a comprenderci, a perdonarci. Ad essere amici.

La ragazza si concesse di ascoltare il disturbante sentimento contro cui aveva ingaggiato guerra da almeno quarantotto ore a quella parte, ossia da quando l’ammiraglio Worthington l’aveva portata sana e salva in cabina, tenendola fra le braccia come se Saffie fosse stata una vera principessa.

Sciocca, da quando il tuo odio si è tramutato in timore e desiderio?

Per l’ennesima volta, le sue guance si arrossarono fino a scottare, pure se quel sentimento dentro di lei non faceva altro se non provocarle angosciante dolore.

Da due giorni a questa parte?

Sei una ridicola bugiarda. Un’ipocrita.

Il sorriso radioso e pieno di speranza di Amandine galleggiò subito nella sua mente, con malefico tempismo.

Meschina.

Il caldo rifugio di coperte le parve improvvisamente una prigione insopportabile e, mossa da una forza che non riuscì a riconoscere, Saffie si scostò di dosso le lenzuola con un unico gesto infastidito, balzando giù dal letto come un agile cucciolo di cerbiatto. Ignorando il pavimento freddo sotto i piedi nudi, la Duchessina si incamminò lentamente in direzione del lussuoso scrittoio in mogano, pure se tutta la sua attenzione era per ciò che vi stava appoggiato sopra: il lungo cappotto blu di Arthur era stato piegato con cura e le sue abbottonature dorate sembravano ammiccarle da lontano, superbe e pompose.

“Ti ha fatto del male?”

Dopo un attimo di incertezza, la ragazza allungò le dita e accarezzò piano il ricco tessuto della divisa, quasi avesse timore potesse succedere qualcosa di orribile. Anche se, si trovò a considerare, l’uomo non l’aveva respinta ma, anzi, si era dimostrato protettivo e gentile con lei.

Non è mai esistita, né esisterà mai, una persona del genere.

Ma stava mentendo a sé stessa, poiché il suo cuore non poteva dirsi più sicuro di sapere nulla.

“Dovrò restituirgliela” sussurrò Saffie, ipnotizzata dal movimento del suo stesso indice, impegnato ad esplorare le larghe spalline d’oro della giacca. E fu l’istante in cui un’emozione nuova emerse a tradimento dalle pieghe della sua coscienza, divertendosi un mondo a prendersi gioco di lei: poteva affermare di non essere più sicura di niente, tranne che di un solo stupido e scomodo desiderio.

“Io…voglio vederti, insopportabile Ammiraglio” ammise con sé stessa, sentendosi in colpa come non mai.



§



Ad una prima superficiale occhiata, il lungo ponte dell’Atlantic Stinger non rassomigliava affatto al sanguinoso campo di battaglia che due giorni prima aveva mietuto decine di vittime e, anzi, due ordinate file di marinai armati di ramazza erano al momento occupate a tirarlo a lucido, cancellando definitivamente qualsiasi traccia del massacro perpetrato dalla Marina Britannica di Sua Maestà.

Se la vita degli uomini relegati alla bassa manovalanza sembrava essere tornata ad una parvenza di normalità, quasi lo stesso stava avvenendo sul ponte di comando dove, riuniti in un gruppetto compatto, le eleganti figure vestite di blu degli Ufficiali rimasti in vita osservavano dall’alto le attività di chi se la passava molto peggio di loro.

Deciso a non rendere vana la morte di tanti suoi uomini, il capitano Henry Inrving se ne stava saldamente aggrappato al timone del vascello, inseguendo la scia della sfortunata Mad Veteran, ora un puntino lontano che non aveva alcuna possibilità di seminarli; mentre il solerte James Chapman confabulava con i suoi sottotenenti a braccia conserte, sbirciando di tanto in tanto i documenti di cui questi ultimi gli stavano facendo mostra.

In generale, un caldo pressante era subentrato alla nefasta brezza fredda dei giorni precedenti e il capannello di gentiluomini – tutti fedeli alle severe regole della Marina – era fra le altre cose stoicamente impegnato a sopportare la temperatura opprimente senza battere ciglio: si trattasse di candidi parrucchini, o di lunghi cappotti dorati, grande era l’invidia provata dagli Ufficiali per l’unico uomo che stonava in mezzo a loro.

Sfidando l’Ammiragliato e l’etichetta stessa, Arthur Worthington lavorava chino sul tavolo che ospitava le carte di navigazione con le maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti e l’elegante panciotto bianco sbottonato; i capelli castano scuro cadevano mossi sula fronte abbronzata, poiché egli aveva sempre trovato assurdo che un uomo d’azione dovesse in effetti portare uno scomodo parrucchino durante le lunghe traversate in mare. In ogni caso, l’ammiraglio era noncurante e ignaro della gelosia bruciante dei sottoposti e, pennino in pugno, continuava a seguire con gli occhi verdi le rotte da lui ricalcolate poco prima, anche se sapeva di non aver lasciato spazio a margini d’errore.

Eppure la tua testa sembra trovarsi altrove, ultimamente.

Era difatti un sentimento fastidioso e scomodo quello che si agitava in continuazione dentro il suo animo, malgrado i numerosi tentativi di metterlo a tacere; non per la prima volta in quelle ultime quarantotto ore, Arthur dovette subire l’irruzione nella sua mente di Saffie e dei suoi occhi, non saccenti e pieni di rancore, ma traboccanti di un dolore disperato che lui poteva dire di conoscere molto bene.

“Io ho ucciso un uomo.”

In fondo, se il suo tanto odiato senso di colpa era sempre presente, ora l’uomo si trovava a dover fare i conti con una nuova preoccupazione che mai si sarebbe aspettato di poter nutrire nei confronti della piccola strega a cui aveva dichiarato disprezzo eterno.

“Come pensavo. Sei un eccellente bugiardo, Ammiraglio.”

Perché è da molto, molto più tempo che la tua ambizione l’ha imprigionata. Rovinata.

Odiandosi per la sua totale mancanza di autocontrollo, Worthington sollevò quindi le iridi smeraldine e le lasciò libere di indagare l’indaffarato viavai sottostante, alla ricerca di un guizzo di colore differente dalla solita indistinta massa scura, di un paio di occhi innocenti e così diversi dagli sguardi servili che lo circondavano.

Lei, il famoso elemento al di fuori della cornice.

L’uomo avrebbe scelto di morire, piuttosto che ammettere di stare a tutti gli effetti aspettando di vedere la Duchessina di Lynwood uscire sul ponte sopracoperta, ma non c'era altra spiegazione alla dilaniante urgenza che gli ruggiva dentro.

Un desiderio morboso, che non era suo diritto provare.

“…le loro perdite sono state ingenti” emerse dal nulla una piatta voce alle sue spalle, con tutta probabilità appartenente a un anonimo sottotenente. “Di cinquecento uomini, noi ne abbiamo persi circa un centinaio.”

“Poco male” commentò James Chapman, in tono spavaldo. “Siamo alle calcagna di quella feccia e, per un vascello da guerra come l’Atlantic Stinger, cento uomini sono quasi superflui.”

Gli occhi verdi di Arthur si abbatterono nuovamente sulle mappe spiegate sotto di lui e un improvviso tremolio incerto prese a scuotergli le mani, che si strinsero subito a pugno; nel contempo, egli poté chiaramente udire il suono del suo stesso cuore che – dannazione – aveva preso a battere violento contro la cassa toracica: a tradimento, il senso di colpa stava trasformandosi in paura.

“…pure dei ragazzini, che a malapena hanno coscienza di ciò a cui andranno incontro. La morte indiscriminata non è la soluzione!”

Non adesso. Ti prego, non adesso.

Un sudore ghiacciato bagnò la sua camicia elegante e Arthur inarcò leggermente la schiena in avanti, tentando di prendere abbondanti boccate d’aria senza che nessuno si accorgesse di come stesse perdendo il controllo.

“Guardatevi da ciò che dite, Chapman” esordì Henry Inrving, la cui voce dalle sfumature bonarie faceva trasparire una quieta quanto minacciosa rabbia. “State offendendo la memoria dei miei valorosi uomini che, vi ricordo, hanno dato la vita per servire l’Impero.”

O, più precisamente, per accontentare i capricci della tua oscura ambizione?

A Worthington parve che il terrore dentro di lui avesse infine preso vita propria e provò l’impellente bisogno di nascondersi, come se fosse ancora il ragazzino gracile che a tutti costi aveva voluto dimenticare. Era tanto turbato, che quasi non udì l’affermazione ironica del giovane James: “È nostro dovere e onore, non è così?” disse quest’ultimo, sorridente. “Pure se non dubito che, per alcuni, sia stata più che altro una possibilità di riscatto: penso al signor Brown, ad esempio.”

Un’esplosione di indignata collera piombò addosso al gruppetto di Ufficiali, nello specifico rivolta al tenente Chapman che, davvero, poteva fregiarsi del titolo di uomo più sfacciato dell’intera Marina Britannica. “Come osate!” abbaiò Inrving. “Shaoul Brown ha servito fedelmente me e la Corona per ben trent’anni di carriera!”

“Non…non vi darò più modo di dubitare della mia integrità, ammiraglio.”

“Oh, andiamo!” rispose l’altro, piccato. “Era un sadico e un collerico, che adorava umiliare i suoi uomini!”

“…che stava andando oltre! Voleva infierire su questo povero ragazzo!”

Un vortice di oscurità annebbiava i pensieri di Arthur, diventati frammenti confusi di immagini e suoni che s’accavallavano l’uno sull’altro senza alcuna coerenza: su tutti, un'unica voce rimbombava nella sua testa più forte delle altre, ed era quella che continuava ad accusarlo di riuscire a rovinare chiunque, poiché era nato per questo. Ricordò le mani insanguinate di Saffie protendersi imploranti nella sua direzione e il suo cuore patì un colpo di sofferenza tanto diretto, che pensò fosse stato trafitto a morte.

“Non vi permetto di…”

L’alterco nato fra il capitano dell’Atlantic e il tenente Chapman fu spezzato in due dal suono di una mano aperta che, con violenza cieca, si abbatté sul tavolo in legno pregiato. Interdetti, i presenti voltarono le teste imparruccate verso il responsabile del rumore e vennero immediatamente uccisi da due taglienti occhi verde scuro, il cui sguardo glaciale faceva ben intendere un umore a dir poco nero. “Vedete di piantarla entrambi” sibilò Arthur Worthington, senza curarsi di aver buttato alle ortiche il suo celebrato contegno elegante; le sue iridi si posarono poi sul suo più fedele tenente con la calma di un letale predatore. “James Chapman, siete a un passo dall’insubordinazione. Devo procedere a farvi strappare le maniche?”

La bocca del ragazzo accusato si aprì di scatto, tanto lo shock subito fu grave; perché non era il vocabolario usato da Arthur a sconvolgerlo, né la sua terribile minaccia, ma piuttosto era la prospettiva di poter perdere il suo rispetto ad essere inaccettabile. James divenne quindi bianco in un colpo solo e, persa tutta la baldanza di fronte all’ira del suo idolo, si prodigò subito in un profondo inchino di contrizione; si portò dunque una mano tremante sul petto e asserì, balbettando: “Chi-chiedo il perdono Vo-vostro e del Ca-capitano Inrving, Ammiraglio. Starò al mio posto.”

Henry Inrving diede credito alla sua reputazione di Ufficiale dal cuore morbido e annuì solamente con la testa, ammutolito dall’atteggiamento di un Worthington all’apparenza fuori di sé: nessun altro sul ponte di comando aveva in effetti fatto troppo caso al leggero tremolio della sua figura imponente, ma al capitano non sfuggì il pallore che aveva fatto mostra di sé sul volto sprezzante dell’Ammiraglio. Quest’ultimo aveva raddrizzato le ampie spalle e si stava avvicinando a loro con le mani rigidamente incrociate dietro alla schiena, ma gli occhi perspicaci di Inrving colsero al volo la benda insanguinata attorno al braccio destro di Arthur.

“Molto bene, Chapman” commentò bruscamente Worthington, annuendo appena con la testa bruna. “Pure se – sappiate – non ci dovrà essere una prossima volta.”

Henry aprì la bocca, forse per mettere a parte l’orgoglioso ammiraglio del suo stato di salute, che un’altra voce parlò per lui e intervenne alta fra le serie discussioni del gruppo di Ufficiali al comando dell’Atlantic Stinger.

In effetti, la dinoccolata sagoma di Benjamin Rochester svettava in piedi davanti a loro, giunta all’imboccatura del ponte superiore senza che anima viva l’avesse sentita arrivare. “Parola mia, non ho mai conosciuto un gentiluomo dotato della vostra maledetta cocciutaggine” asserì infastidito il medico di bordo, anche lui incline a buttare alle ortiche il registro richiesto dal suo ceto sociale; e, ovviamente, tutti compresero a quale cocciuta persona stesse facendo riferimento. “Siete senza speranza, Arthur Worthington!”

L’accusato voltò il busto nella direzione del dottore e il suo sguardo di tagliente brutalità bastò a fare intendere a quest’ultimo quanto fosse sgradita la sua inaspettata apparizione, seppure Benjamin non fosse un uomo abituato a scomporsi mai troppo, soprattutto di fronte al carattere adamantino del Generale Implacabile, che lui conosceva da parecchio tempo. A parte una certa graziosa ragazza castana, Benjamin era l’unico che osava affrontare a viso aperto Worthington e, forte di questo, lo raggiunse in due lunghi passi, sbottando: “Non vi siete presentato nel mio studio, stamattina. Fatemi vedere quel braccio…subito.”

Un bagliore di pericolosa rabbia attraversò le iridi di un Arthur pallido, dall’espressione livida. “Non pensate nemmeno per un secondo di poter dare ordini a me.”

Il signor Rochester si incupì di botto e stava per dire la sua, se il nostromo appena promosso non avesse fatto anche lui la sua comparsa, irrompendo nella affollata scena con ansiosa urgenza. “Eccellenze!” chiamò, inchinandosi leggermente “Ho portato i prigionieri sopracoperta, come richiesto”.

“Andiamo, dunque” sillabò Worthington freddamente, e stava per avviarsi verso le scalinate dei ponti inferiori insieme al resto dei suoi Ufficiali che una stretta decisa lo trattenne sul posto: a quanto pareva, Benjamin era dell’idea di non arrendersi troppo presto.

Da sopra i suoi occhialetti sottili, il medico di bordo lo squadrò con la severità di un maestro insopportabile. “Se il taglio fa infezione, rischi di morire sul serio” gli sibilò, premendo appena le dita lunghe sulla sua spalla. “Quando la smetterai di trascurarti volontariamente?”

“Questa lascerà un segno. Sembra voi non siate mai stanco di riempirvi di cicatrici.”

Le labbra bianche di Worthington si strinsero l’una con l’altra, mentre un’altra nauseante fitta di panico agguantò le sue viscere in maniera dolorosa. “Ho dei doveri da compiere” rispose aspro, allontanandosi dal signor Rochester con uno scatto rabbioso. “Verrò da te non appena finito qui, sperando che questo ti faccia smettere di ammorbare le mie giornate.”

Come da canovaccio, non aspettò di sentire alcuna obiezione e si allontanò a passo sostenuto, rifiutandosi di continuare una conversazione che lui riteneva non solo inutile, ma soprattutto scomoda. Raggiunse il ponte inferiore in un attimo e, noncurante dei marinai che si discostavano timorosi al suo passaggio, intravide subito gli sparuti prigionieri allineati lungo il parapetto della nave: si trattava di una decina di giovani male in arnese, dagli occhi sperduti e i magri corpi tremanti.

“…non lo sai, che tu sai fare solo del male?”

Arthur dovette fare uno sforzo enorme, disumano, per domare i suoi veri e disgustosi sentimenti, gli stessi che complottavano per togliergli il controllo. Chiuse gli occhi per un infinito secondo e, quando li riaprì, nelle sue iridi verdi non vi era nulla, se non la presenza di un limpido quanto inossidabile disprezzo. “Avete chiesto di parlamentare con chi è alla guida di questa nave” esordì infine, percorrendo rigidamente la linea immobile di prigionieri con le braccia incrociate dietro la schiena. “Io sono colui che la comanda.”

“Sappiamo chi siete, Ammiraglio Worthington” rispose quello che doveva essere il portavoce dei pirati, il più anziano del gruppo. “Per questa ragione, avanziamo una richiesta.”

“Voi non siete nella posizione di avanzare alcunché” lo interruppe subito la voce minacciosa dell’uomo, il cui volto livido era spaventoso da osservare. “E nemmeno promesse di immaginari bottini nascosti in chissà quale sperduta landa dimenticata da Dio mi faranno considerare di risparmiarvi la vita. Questi sono trucchetti fin troppo vecchi e, credetemi, voi arriverete a Kingston solo per vederne il patibolo.”

Il prigioniero alzò allora la testa bionda e Arthur poté leggergli sul viso consumato dal sole un’espressione sarcastica che non gli piacque affatto. “Come se non sapeste da chi è stato ucciso il vecchio Seymour Porter” gli sussurrò piano il pirata, per non farsi udire dagli altri membri della Marina. “La sua ricchezza non è immaginaria, ma è tanto reale quanto il ricordo che voi avete di lui.”

“Sto per farti tanto di quel male che vorrai solo crepare, marmocchio.”

Un’oscurità tremenda si impossessò del volto di Arthur, trasformatosi ora nella maschera spaventosa di un demone dall’odio invincibile; ed egli assottigliò lo sguardo tagliente, cristallino di una rabbia a malapena repressa. “Dovrei giustiziarti seduta stante, per ciò che hai detto” sibilò glaciale, cercando di domare infimi brividi di terrore allo stato puro.

“È quello che chiediamo” fece quindi il pirata ad alta voce, sollevando le mani sporche e incatenate dai ferri. “Scegliamo la giustizia del mare – qui ed ora – e non un finto processo dall’esito già segnato.”

Prima che Worthington potesse pronunciare una sillaba, il tono presuntuoso di un James Chapman poco incline ad imparare dai suoi errori si fece sentire tra la folla di Ufficiali e Marinai in attesa: “Ammiraglio, è una richiesta fin troppo perfetta! Questa feccia ci sta offrendo su un piatto d’argento l’occasione di liberarci subito di loro!”

“…sono solamente dei disperati disposti a tutto pur di non morire per strada e di fame nelle colonie.”

“Parafrasando il giovane tenente, la legge è dalla nostra parte: dal momento in cui hanno issato la Jolly Roger,due giorni orsono, ci hanno dato il via per giustiziarli direttamente sulla nave, senza alcuna possibilità d’appello” spiegò Henry Inrving, pure se Arthur poteva dire di conoscere a memoria il Codice della Marina Britannica. Il capitano si affiancò alla sagoma imponente dell’ammiraglio e si stupì di vedergli nel viso virile un’improvvisa indecisione che non gli apparteneva affatto.

“La morte indiscriminata non è la soluzione!”

Pure se tu sei nato per questo.

Un sudore ghiacciato continuava a impregnargli i vestiti e lui si detestò, perché non riusciva in alcuna maniera a frenare né la parte di sé che detestava di più, né la voce insistente di Saffie nella sua mente. Voltò la testa scura verso il capitano e, come se fosse stato maledetto, le sue iridi smeraldine colsero immediatamente la morbida figura di Keeran Byrne sullo sfondo: la ragazzina stava probabilmente tornando negli alloggi della sua insopportabile padrona, pure se ora se ne stava ferma a guardare tutti loro con i suoi magnetici occhi nero pece.

Per assurdo, comprese solo in quel momento il morboso desiderio – la bruciante urgenza – che da quarantotto ore non gli stava dando pace alcuna.

Voglio vedere la piccola strega.

“Ammiraglio?”

“I prigionieri rimarranno in cella fino a Kingston. Portateli via” sentenziò infine con freddo pragmatismo Arthur, portando lo sguardo di nuovo su un Henry Inrving perplesso. “E mandate qualcuno a chiamare il signor Rochester al più presto.”



§



La pendola aveva appena annunciato la mezzanotte e, da almeno dieci minuti a quella parte, la Duchessina di Lynwood se ne stava ritta in piedi di fronte alla porta dell’alloggio di Worthington, dandosi della stupida incauta mentre ne fissava il pomello elaborato.

“…e lo sguardo dell’Ammiraglio, signora! Pen-pensavo li avrebbe fatti giustiziare tutti sul posto!”

Era vero, Keeran le aveva raccontato del colloquio richiesto dai pochi prigionieri della Mad Veteran e del loro conseguente incontro con un Generale Implacabile dall’umore a dir poco nero; inoltre, sia Saffie che la sua insonnia ne erano sicure, l’uomo doveva essersi ritirato nella sua cabina da meno di mezz’ora, sbattendo con mala grazia la porta dietro di sé. Tutto questo era tanto reale quanto il suo assurdo desiderio di parlare di nuovo con Arthur, per quanto lo stato d’animo di quest’ultimo non promettesse affatto bene.

Non voglio che il nostro odio prenda il sopravvento su di noi.

Insomma, si trovò a considerare, come poteva pretendere di fargli visita – nel cuore della notte poi – e restituirgli la giacca, se non aveva nemmeno trovato il coraggio di uscire dalla sua cabina durante i due giorni passati?

Non che quella fosse una situazione socialmente sconveniente, in fondo: lei e l’ammiraglio erano legalmente uniti in matrimonio, anche se entrambi ripudiavano l’idea di essere considerati l’uno il coniuge dell’altra; perché il loro non era un legame veritiero, ma bensì nato dalle ceneri della straziante tragedia di cui si erano incolpati a vicenda. La morte di Amandine aveva tracciato il confine d’odio su cui lei ed Arthur si erano infine incontrati, creando un rapporto malato che altrimenti non avrebbe mai avuto ragione di essere.

Era un confine inesistente, un filo invisibile e crudele, quello che li teneva legati l’uno all’altra.

Eppure, qualcosa in me è cambiato.

Un’amarezza strana si impossessò di Saffie e le provocò un fastidioso groppo in gola che cercò di ignorare, vista la sua determinazione nel mantenere la promessa fatta a sua sorella minore e ridurre così i piagnistei da lacrimosa fanciulla, sebbene ultimamente le venisse piuttosto difficile attenersi al piano. Non desiderava infatti pensare né ad Arthur Worthington, né all’abisso di oscurità accecante a cui si erano volontariamente condannati e, sopra tutto, voleva dimenticare ciò che era accaduto durante l’ultima battaglia.

Non puoi scordare di aver tolto la vita a una persona.

Un piccolo sussulto di dolore la scosse appena, mentre stringeva al petto l’elegante divisa dell’Ammiraglio, aggrappandosi al tessuto come un bambino spaventato avrebbe fatto con le gonne della madre. In quel momento, il calore rassicurante trasmesso dal cappotto dell’uomo le sembrò l’unico appiglio su cui poter contare e, pensò la ragazza, le parve quasi di aver preso in prestito un po’dell’abbondante coraggio di Arthur.

“Hai salvato una vita, oggi. Sei stata molto coraggiosa, Duchessina.”

Fu quindi con un groviglio di sentimenti contrastanti bloccato nello stomaco che la signora Worthington alzò lo sguardo castano sulla porta che l’avrebbe condotta dritta fra gli artigli del suo implacabile marito. Alzò la piccola mano tremante e, dopo aver preso un bel respiro profondo, bussò con delicatezza contro la superficie di legno, producendo un timido suono timoroso di cui si vergognò profondamente.

In un istante di pazzia, Saffie sperò di non essere ricevuta, di trovarsi davanti all’incrollabile muro di freddezza e repulsione dietro al quale l’ammiraglio si rintanava ogni volta che i suoi occhi si posavano su di lei, pure se una parte della sua anima desiderava con altrettanta forza che accadesse il contrario; poiché era un altro, lo sguardo penetrante che voleva rivedere.

“Ho dato preciso ordine di non essere disturbato, se non erro” si fece sentire una voce soffocata, ma ugualmente dura come l’acciaio. “Andatevene.”

No, non prometteva affatto bene. La Duchessina chiuse gli occhi per un infinito secondo e, ignorando il brivido traditore che le corse lungo la spina dorsale, decise di provare un ultimo tentativo patetico, maledicendosi per aver mandato a passeggio la sua dignità in favore di un sentimento che nemmeno lei sapeva identificare. “Vi…vi chiedo scusa per l’improvvisata” disse quindi, pigolando come un canarino terrorizzato; e si accorse di non sapere in che modo continuare la conversazione, vista l’incomunicabilità pressoché totale tra lei ed Arthur. “Volevo restituirvi il vostro cappotto, ma…ma penso sia meglio che lo faccia consegnare dalla mia domestica personale domani mattina.”

“Muoia all’inferno, se ha dimenticato chi è l’uomo che l’ha cresciuto!”

È ridicolo che proprio io, fra tutti, sia così preoccupata per te.

Ad occhi bassi, Saffie stava quasi per girare i tacchi e tornarsene dall’altra parte del corridoio, al rassicurante conforto dei suoi appartamenti, che la voce dell’Ammiraglio Worthington le arrivò diretta come un secchio d’acqua ghiacciata e la ragazza ebbe da sorprendersi della voce profonda del marito, perché le sembrò avesse tradito una nota di strana incertezza.

“No” sillabò solo. “Venite.”



§



Se Saffie aveva pensato di trovarsi ad affrontare il solito orgoglioso e impeccabile Arthur, dovette rimanere profondamente delusa; così come l’uomo, dal canto suo, si stupì di non vedere l’insopportabile ragazzina di sempre venirgli incontro. Erano bensì due povere anime straziate dalla disperazione, quelle impegnate a studiarsi ai lati opposti di una ricca stanza a malapena illuminata dalla luce soffusa di qualche candela accesa.

Worthington sedeva sconvolto su una poltrona solitaria, l’aria disordinata e il viso pallido di un uomo dall’anima a pezzi. A Saffie non sembrò subito di riconoscerlo e, comprese, doveva essergli costato molto riceverla in quelle condizioni; fu con una stretta al cuore che se ne chiese il motivo, se era altrettanto genuino il rancore provato dall’Ammiraglio nei suoi confronti.

“Anche io ti detesto con tutto il mio animo, ragazzina.”

“Lascia la giacca dove vuoi” le disse Arthur monocorde, tralasciando il formale voi come ormai usava fare ogni qual volta si trovassero da soli. La ragazza lo osservò strofinarsi il viso esausto con le dita, per poi abbandonarsi contro lo schienale della sedia in una posa scomposta e inelegante che non gli apparteneva. “E ora dimmi qual è il vero motivo per cui sei qui” aggiunse freddamente, facendo un vago gesto con la mano nella sua direzione, l’espressione indecifrabile di una tigre pronta a balzare sulla preda.

Un altro brivido di soggezione scosse appena le spalle di una Saffie impegnata a darsi di nuovo della sciocca, poiché avrebbe dovuto ben conoscere le spaventosa capacità d’analisi dell’uomo che aveva di fronte: Worthington non si era bevuto nemmeno per un secondo né la storia riguardante la divisa, né il suo tono di fintissima noncuranza e la ragazza si disse che la richiesta di Arthur era in fondo più che legittima. Ma cosa avrebbe potuto effettivamente rispondergli, se lei stessa non conosceva l’esatta ragione per cui aveva voluto vederlo?

Oppure, lo sai, è proprio questa la tua vera motivazione, il tuo desiderio.

Nel disperato tentativo di prender tempo, Saffie si incamminò quindi in direzione dell’Ammiraglio, evadendo il suo penetrante sguardo smeraldino e infine poggiando con maldestra calma la giacca dorata sul tavolo più vicino, pieno zeppo di misteriosi documenti dall’aria importante. I suoi occhi si soffermarono per un momento sulle carte – ordinate in maniera quasi maniacale – e lei si rese conto di non sapere proprio un bel niente della vita dell’odiato Arthur Worthington, malgrado ormai lo conoscesse da parecchio tempo; il confine esistente fra loro li aveva sì portati ad incontrarsi, ma mai per davvero. “Io vorrei poter dire di saperlo con sicurezza” esordì incerta, in bilico su quella sottile linea all’apparenza invalicabile. “Forse… mi sono solo preoccupata per il tuo braccio. E per te.

“In questo caso, saremo in due, ad affogare”

Gli occhi verde scuro dell’Ammiraglio si dilatarono appena, senza che il viso di quest’ultimo riuscisse a tradire nessun tipo di emozione pure se, dentro al suo cuore, era grande il terrore provato. “Ah!” esclamò con crudele ironia Arthur, stiracchiando debolmente le belle labbra sottili in un sorriso che alla ragazza risultò di malinconica amarezza. “Proprio tu dici questo. Proprio tu, ragazzina, che più di tutti mi disprezzi. No, non voglio la tua pietà, né la tua preoccupazione.”

Uno come me non la merita, né la meriterà mai.

Quindi smettila e torna ad odiarmi, ad accusarmi della tua infelicità.

Ma, ancora una volta, Saffie sconvolse le sue aspettative e i suoi desideri, poiché si fece più vicina alla poltrona su cui lui era seduto e tentò di affrontare il suo atteggiamento distante non attraverso parole di saccente rancore, ma con uno sguardo talmente luminoso e limpido, di innocente comprensione, che ad Arthur non parve più di avere davanti la solita piccola strega.

“Non hai la mia pietà, Ammiraglio, né l’avrai mai” gli disse la ragazza, ora giunta di fronte all’alta figura del marito, che la vide abbassare gli occhi ed arrossire in maniera adorabile, mentre decideva di aggiungere, in tono imbarazzato: “Mi hai protetta di nuovo e io ti ringrazio per questo”.

“Ma tu verresti a salvarmi, come hai fatto oggi.”

Perché, per un fugace istante, il viso rosso di Saffie sembrò ad Arthur quello di una donna tanto bellissima quanto triste, come se fosse in realtà una fragile apparizione pronta a scomparire al primo sbuffo di vento.

Il tempo di pensarlo, di ammettere con sé stesso di aver cominciato a guardarla diversamente, che l’immagine di Amandine gli ritornò alla memoria, inaspettata e crudele. Un disagio doloroso si contorse nel suo stomaco e lui si sentì di nuovo uno stupido ipocrita, un bugiardo: non sapeva quando fosse successo; quando esattamente avesse iniziato a pensare alla saccente Duchessina molto più di quanto avrebbe dovuto… e questo, ovviamente, era del tutto sbagliato.

Non vorrai mica avvicinarti a lei, Arthur?

Chissà, potresti persino finire per ucciderla.

“Basta” commentò quindi l’uomo, a fatica. Abbassò la testa bruna e si odiò immensamente, per la facilità con cui aveva lasciato a Saffie l’occasione di vederlo ridotto a un impotente fascio di nervi; pure se dentro di sé era perfettamente consapevole che il desiderio di rivederla si era infine rivelato troppo forte. “Sono stanco di ripetermi, di dirti che per me questo è solo un obbligo.”

“Sei ferita?”

No, non è la verità.

Una morsa atroce si strinse sul cuore di Saffie che, senza sapere quale forza misteriosa l’avesse portata a questo, si inginocchiò con lenta cautela davanti all’uomo che era stata costretta a sposare, insensibile all’idea di impolverare il ricco tessuto del suo abito da camera.

Perché continui a nasconderti?

Desiderava guardare nelle iridi tormentate di Worthington, scavare e comprendere di non essere mai stata l’unica a soffrire e disperarsi, ma che pure Arthur subiva la sua stessa sofferenza. Il suo stesso senso di colpa.

“Stai mentendo” gli sussurrò infine, stringendo il tessuto della veste tre la dita nervose: poteva leggere il dolore nel suo viso stravolto e affascinante, che quasi desiderò trasmettergli il proprio, cancellare il confine. “Tu odi te stesso molto più di quanto detesti me.”

Forse non siamo poi così diversi, tu ed io.

Due iridi luminose e lucide, oneste oltre ogni dire, frugavano dentro all’animo oscuro di Worthington e quest’ultimo pensò di non poter sopportare l’intensità di quello sguardo innocente tanto a lungo. La ragazzina lo fissava infatti con una tristezza disarmante, così simile alla sua che l’uomo sentì l'urgenza improvvisa di toccarla, l’assurdo bisogno di riversare in lei un tormento incrollabile.

“Se la signorina Saffie Lynwood non sia più simile a te di quanto credi.”

Arthur allungò il braccio sulla poltrona e le sue dita sfiorarono le guance fredde di Saffie, che sussultò appena, sorpresa dalla delicatezza del suo gesto. “La solita testarda” commentò piano, sorridendo di una strana malinconia, come se stesse ricordando un passato fin troppo lontano; la sua mano passò lenta fra i capelli sciolti della ragazza e lui ne assaporò la morbidezza quasi vergognandosene. “Va’ via, finché sei in tempo.”

Perché già so di non poterti far avvicinare a me…e per più di una ragione.

Il braccio di Worthington ricadde inerte sul sostegno della poltrona nel medesimo istante in cui Saffie seppe che non avrebbe per niente al mondo dato retta alle parole del marito; fedele alla sua testardaggine, la ragazza non si mosse di un centimetro e, anzi, si concesse di abbassare gli occhi sull’ampio torace dell’uomo di fronte a lei, fasciato solamente da una candida camicia bianca. Sapeva che quella notte rappresentava un’eccezione impossibile – un’irripetibile parentesi – e non desiderava separarsi tanto presto da un Arthur così diverso dal solito…così vero.

Non dirmi di andarmene. Di lasciarti solo nel tuo inferno, che è identico al mio.

Non senza un leggero timore, Saffie si sporse in avanti in silenzio e allacciò le esili braccia attorno alla vita di un Worthington che rimase incredibilmente immobile; malgrado la sua paura di essere nuovamente respinta, la ragazza rilassò il corpo fra le gambe dell’uomo e aspettò di sentire la carezza tiepida del tessuto della sua camicia solleticarle il volto arrossato, prima di mormorare: “Lei mi manca così tanto.”

Infine, aveva deciso di muovere un passo in avanti ed attraversare il confine.

La Duchessina sentì Arthur irrigidirsi leggermente, ma poté dirsi sollevata – persino felice – nel sentire il tocco delle dita grandi dell’ammiraglio posarsi sulla sua nuca spettinata con gentilezza: lui non l’aveva mai trattata in quel modo e, forse, l’indomani sarebbe tornato tutto come prima, ma né a lei, né al suo sciocco cuore sembrò importare più di tanto.

“Anche a me manca molto.”

Da morire.

“Penso avrebbe amato sia l’Atlantic Stinger, che la vastità dell’oceano” gli disse la ragazza, socchiudendo gli occhi castani, quasi potesse godersi meglio il calore rassicurante emanato dal corpo tonico di Worthington. “Non l’avevamo mai visto prima.”

“Ora sei tu che stai mentendo” fece la voce incolore di Arthur, concentrato più che altro a domare il fastidioso istinto di stringere la moglie fra le braccia e nel contempo sopprimere un enorme senso di colpa latente. Questo gli divenne ovviamente molto più difficile nel momento in cui Saffie alzò di scatto il grazioso visino su di lui, con l’espressione perplessa di un cucciolo ingenuo.

Da quando la tua ambizione l’ha imprigionata?

“Il viaggio l’avrebbe traumatizzata” spiegò, spostando le iridi verde scuro lontano da quelle di Saffie, inchiodate sulle sue. “Penso tu te ne sia resa benissimo conto.”

Un sorriso amaro si aprì sul viso della ragazza, presa in contropiede dalla schietta onestà di un Worthington che forse nemmeno sua sorella aveva mai avuto modo di conoscere. “Sì” ammise, in un sussurro pieno di taciuti sensi di colpa. “Ma ciò che più desiderava era venire via con te.”

Perdonami Amandine. Io…non so più cosa provo per lui.

Un silenzio carico di tormento cadde fra i due, impegnati a capire se stessero in effetti abbattendo il loro muro invisibile o, al contrario, lo stessero erigendo più alto: c’era tanto che forse avrebbero potuto o voluto dirsi, ma troppe cose erano accadute e troppo poco loro potevano dire di sapere l’uno dell’altra.

Innumerevoli erano i segreti che li tenevano in catene.

“Il segno sta scomparendo” osservò dopo qualche minuto Arthur, socchiudendo con interesse gli occhi chiari, limpidi di rimorso. La sua mano si mosse di nuovo, ipnotica, verso il collo sottile di Saffie e le sue dita lunghe ne accarezzarono la pelle livida con dolcezza, proprio nel punto dove altre disgustose mani avevano osato toccarla. “Ti fa ancora male?”

Saffie scosse appena la chioma castana, facendo un cenno di diniego. “Non è questo, il dolore che mi preoccupa” gli rispose sommessamente, lanciandogli uno sguardo di sperduto e disarmante timore.

È l’abisso da cui non riesco a scappare, ciò che mi spaventa a morte.

Un suono lontano e dolce irruppe fra loro. La pendola la scoccò l’una di notte, avvisandoli di quanto in effetti fosse ormai tardi.

Lo sguardo serio di Arthur continuò a seguire il percorso delle sue stesse dita, impegnate a rincorrere il segno violaceo che faceva mostra di sé sul collo di Saffie, mentre l’uomo decideva di mormorare, in tono indecifrabile e freddo: “Rimani qui stanotte, Duchessina.”

È in fondo solo nostra, questa oscurità accecante.

La mano destra di Worthington risalì lenta sulla guancia arrossata della ragazza, sfiorandone appena le labbra schiuse con inconscia delicatezza, e lui stesso si stupì di vederla annuire piano contro il suo palmo aperto, come se ricercasse quel morbido contatto.

Dal canto suo, Saffie già sapeva che non avrebbe opposto alcuna resistenza.

Perché lo temi e lo desideri allo stesso tempo, questo vostro legame crudele.



§



Se una settimana prima le avessero detto che si sarebbe trovata a passare di sua stessa volontà la notte in compagnia dell’uomo a cui aveva dichiarato eterno disprezzo, la Duchessina di Lynwood avrebbe probabilmente riso di puro e isterico scetticismo, disgustata all’idea di ripetere un’esperienza anche solo lontanamente simile alla sua tremenda prima notte di nozze.

Nemmeno nei suoi più remoti pensieri aveva mai considerato la possibilità che potesse accadere uno scenario di quel genere; con lei sdraiata accanto al suo nemico giurato come se niente fosse, entrambi stretti sopra un morbido materasso a recitare una parte non loro. Eppure, si disse Saffie arrossendo furiosamente, le sembrò la cosa più naturale del mondo accoccolarsi contro il petto solido di Arthur, pure se non sarebbero mai stati il marito e la moglie che tutti credevano fossero.

Forse domani torneremo ad ignorarci, ma stanotte ci incontriamo sul nostro invisibile confine.

Le mani dell’uomo si allungarono sulla schiena della ragazza e la cinsero in una stretta leggera, piena di delicato timore. Worthington stesso non sapeva bene dire perché le aveva chiesto di restare con lui e – al di là di un mero capriccio temporaneo – sentiva di non volerla vedere tornare tanto presto al cielo luminoso che le apparteneva, ma desiderava bensì trattenerla nel suo abisso di oscuro senso di colpa. Sentiva che lei poteva comprenderlo.

Che condividevano il medesimo dolore.

Saffie si sentiva esausta, ma il calore emanato dall’ammiraglio prometteva sicurezza e protezione, le stesse provate due giorni prima, quando l’ennesima goccia aveva infine inclinato il piatto della bilancia e tutto pareva esser stato stravolto. Se riusciva ad ammettere con sé stessa di non capire quali sentimenti la muovessero verso l’orgoglioso marito, ben più confusione le creava l’atteggiamento di un Arthur che non lasciava trasparire alcun pensiero, né alcuna emozione: dimostrava di preoccuparsi per lei, ma forse non avrebbe mai smesso di disprezzarla…di ritenerla un’irritante seccatura.

“Hai salvato una vita, oggi. Sei stata molto coraggiosa, Duchessina.”

Una piccola fitta di amarezza si fece sentire dentro Saffie, mentre le sue piccole dita incerte andavano a sfiorare il candido tessuto della camicia di Worthington, inseguendo il percorso immaginario della sua vergognosa cicatrice…quella che lui non le avrebbe mai permesso di vedere. “L’altro giorno hai detto che sono stata coraggiosa, perché ho salvato Ben” soffiò infine la ragazza, senza alzare lo sguardo verso il viso dell’uomo, immerso nell’opaca oscurità della stanza. “Erano veritiere, le tue parole?”

Non stavi salvando alcuna apparenza, non è vero?

Arthur intuì immediatamente il significato della domanda della piccola strega, così come non gli venne affatto difficile cogliere il suo stato d’animo. “Questa è un’altra delle cose che ormai dovresti ben sapere di me, ragazzina” cominciò a dirle, tentando di ignorare il turbamento provocatogli dall’avere il respiro caldo di Saffie fin troppo vicino.

Uno sbuffo scocciato si perse nell’oscurità. “Non mi chiamo così.”

Le labbra sottili dell’Ammiraglio si piegarono appena, trasformandosi in un segreto ghigno di divertimento. Portò l’indice sotto il mento della ragazza e le sollevò il viso con gentilezza, prima di aggiungere: “Io dico sempre la verità, Saffie.”

Gli occhi castani dell’interpellata si spalancarono, stupiti dall’udire la voce profonda e seria dell'uomo pronunciare il suo nome per la prima volta. Un brivido le corse sottopelle, lungo tutte le forme del suo corpo minuto, mentre un rossore violento la colse del tutto indifesa e impreparata; ringraziò le candele spente e il buio della stanza, perché non avrebbe sopportato farsi vedere da lui in quello stato.

Tanto tu non sei e non sarai mai alla stregua della donna che ha amato.

“Ma se siamo più simili di quanto avremmo mai immaginato, forse non è impossibile perdonarci” concluse fra sé Saffie, accantonando i suoi scomodi e inopportuni sentimenti in un angolo. “Provare ad essere amici”.

Soddisfatta da quella considerazione, decise quindi di abbandonarsi fra le braccia di Worthington, nascondendo il volto assonnato nell’incavo del suo collo e perdendosi così in un profumo pungente che sapeva di avventure lontane. “Grazie” gli bisbigliò solo, prima di cadere preda di un sonno tanto profondo quanto tranquillo, come se ogni suo rancore passato fosse stato spazzato via all’improvviso.

Dall’altra parte, Arthur faticava invece ad addormentarsi e rimase per più di un’ora con le iridi verdi puntate sull’oscurità che s’apriva innanzi a al suo sguardo, maledicendosi per essere stato uno stupido sconsiderato: come avrebbe potuto trovare riposo, se le esili curve della Duchessina gli bruciavano addosso?

Worthington chinò la testa scura sul volto della moglie e quasi non sopportò di sentirne il respiro leggero solleticargli la pelle con serafica e innocente incoscienza. Senza sapere cosa gli stesse succedendo, l’uomo si abbassò su di lei lentamente e le sue labbra sfiorarono quelle di Saffie, in un silenzio che sapeva di muta attesa.

Ragazzina, tu non ti rendi neanche conto di quanto riesci a sconvolgermi.

“Devi trovare una persona.”

Ad un passo dall’inevitabile, nella mente di Arthur esplose l’inatteso ricordo di una voce famigliare e meschina; e fu come se qualcuno gli avesse sparato un colpo di pistola dritto nel cuore che – a tradimento – ricominciò a battere di concreta paura.

Impallidì di colpo e allontanò con uno scatto il viso da quello della ragazza addormentata al suo fianco, mentre si ritrovò suo malgrado a deglutire a vuoto, la testa pulsante di un improvviso e acuto dolore; serrò gli occhi turbati dietro alle palpebre, nel suo solito patetico tentativo di nascondersi…pure se sapeva quanto fosse impossibile scappare.

“Come pensavo. Sei un eccellente bugiardo, Ammiraglio.”

Da quando la tua ambizione l’ha imprigionata?

Le iridi terrorizzate di Arthur si riaprirono su una stanzetta oscura e lercia, dal puzzo nauseabondo di sangue rappreso. Si trattava di una camera angusta che conosceva molto bene, poiché era il luogo dove lui aveva deciso di rinchiuderlo, come un rognosa bestia attaccata alla catena.

Fuori echeggiava un rumore continuo, violento e spaventoso, che si tramutò subito nell’immagine vivida di una scintillante lama coperta di rosso: davanti ai suoi occhi spenti, il legno della porta chiusa a chiave venne martoriato più e più volte da un’ascia affilata, mentre nell’aria immobile schizzavano impazzite schegge di legno scuro.

Erano venuti a prenderlo. Un terrore annichilente, immenso, si impossessò del suo piccolo corpo ossuto che, d’istinto, si raggomitolò in posizione fetale e cercò di mimetizzarsi nel buio circostante, di nascondersi e dimenticare come si faceva a respirare. Desiderò morire, di non patire più alcuna fame.

Con un cigolio inquietante, la porta si inclinò in avanti e ricadde di botto sulle assi del pavimento, sollevando un’enorme nube di polvere nera che gli arrivò addosso. Un fascio di fastidiosa luce colpì il suo viso scavato ed egli lanciò uno sguardo sperduto al responsabile di quell’incubo: sulla soglia della stanza non si ergeva in piedi lui, ma bensì un grosso uomo vestito d’oro.

Finalmente” disse la voce lontana dello sconosciuto, impegnato a fissarlo con due occhi d’acciaio. “Ho trovato mio figlio.

Al suono di quelle parole, Worthington alzò lo sguardo smeraldino dal fascio di importanti missive che stava esaminando e lo spostò sull’attempata figura del padre, in attesa al centro dello studio di quella che era stata la sua casa di Londra. “Una visita inattesa” sentì sé stesso commentare con indifferenza, per poi dare nuovamente attenzione alle informazioni provenienti dalle Colonie Americane.

Dopo un pesante e rassegnato sospiro, Simeon prese elegantemente posto sulla poltrona più vicina e incrociò le gambe con fare noncurante, alzando poi gli occhi grigi su di lui. “Non potrei essere più fiero di te, Arthur: non hai ancora compiuto i ventinove anni e già sei Commodoro” asserì, sfoderando un sorriso da rettile, sottile e beffardo. “Anche se dubito possa bastare a placare la tua fame.”

No di certo” commentò in risposta il giovane uomo, lasciando infine cadere il plico di fogli sulla lussuosa scrivania. Aderì con le spalle ampie allo schienale della sedia e decise di aggiungere, il tono tinto di pericolosa insofferenza: “Piuttosto, perché non vediamo di saltare i convenevoli e arrivare direttamente al punto?

Allora il sorriso di suo padre si fece enorme, osceno da osservare. “Mi è stata fatta una richiesta d’aiuto piuttosto particolare” cominciò a spiegargli, e l’eco delle sue parole parve rimbombare cupo in tutta la camera. “Desidero che tu dia fondo alla tua fitta rete di contatti qui a Londra. Devi trovare una persona.

E che vantaggio mi promettete, in cambio?

Oh, figliolo” sibilò Simeon, diventato ora un orribile e crudele serpente. “Vedi, ho appena stretto un patto davvero interessante.

Meglio ferire gli altri e proteggere sé stessi, d’altronde” commentò crudelmente il cadavere bianco di Amandine, comparso dal nulla al fianco dell’animale. “Pure se la vita ha un’ironia tutta sua, non trovi?

Perché Saffie non lo sa, da quanto tempo la tua disgustosa ambizione l’ha imprigionata.




Angolo dell’autrice:



Pensavate fosse arrivato proprio quel momento, eh?! :D

Buonasera!

Sulla fine di questo infinito Novembre, eccomi dunque tornata ad aggiornare con un ottavo capitolo a dir poco chilometrico, sebbene abbastanza denso di emotività. Non nascondo che è stato difficoltoso destreggiarmi nella sua intricata trama, poiché c’erano fin troppe cose che volevo far emergere – dopo aver seminato solo qualche misera briciola di pane nei capitoli precedenti – e, nel contempo, cercavo di comprendere come poter rendere al meglio l’evoluzione dei nostri due, come sempre pieni zeppi delle loro complicazioni: arrivati a questo primo snodo, è impensabile che si odino alla stessa maniera di prima ma, d’altra parte, non sono tutte rose e fiori!

Oh, però mi piace moooolto farli interagire! Quasi quanto i momenti in cui ammettono le loro stesse debolezze e cercano di divincolarsi tra i fili di questo loro crudele legame!

*L’eco della sadica risatina di Sweet Pink si perde in lontananza*

Ma bando alle ciance! Io spero veramente con tutto il cuore di avervi trasmesso qualcosa con questo nuovo capitolo, di avervi emozionato o stupito…insomma, spero tantissimo che l’abbiate apprezzato e che non sia risultato noioso. (T.T)

Se mi volete far sapere cosa ne pensate con una recensione, beh, sarò felicissima di leggerla! Sono sempre degli interessanti spunti di riflessione, sapete? :D

Grazie per essere ancora qui con Saffie ed Arthur, e tutti gli altri!

Darò il massimo per aggiornare entro fine Dicembre e farvi gli Auguri! :D

Un abbraccione virtuale,

Sweet Pink

* Tá Mo Chleamhnas Déanta/ Ta Mo Chleamhnas A Dheanamh, canzone gaelica della tradizione irlandese , il cui titolo in italiano potrebbe tradursi con: “Il mio Matrimonio è stato combinato”.

Ho speso quasi un intero pomeriggio per trovare una canzone in lingua, adatta alle circostanze della storia e che potesse avere una tradizione orale antecedente ai fatti narrati in Away with you! XD

  
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