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Autore: JSGilmore    10/12/2021    3 recensioni
Melinda e Daniel sono due fratelli, nati e cresciuti a Mason Street, una via degradata di Brixton. A causa del lavoro a tempo pieno dei genitori hanno dovuto guardarsi le spalle a vicenda da quando sono piccoli e hanno stretto, da subito, un legame molto profondo. Tutto è sempre filato a meraviglia, fino al quattordicesimo compleanno di Melinda, in cui la ragazza scopre di provare un attaccamento morboso per suo fratello maggiore. Un attaccamento che presto si trasformerà in una dolcissima ossessione. Lei non avrebbe dovuto innamorarsi di lui, e lui non avrebbe dovuto amarla a sua volta, ma nonostante i tentativi di allontanarsi alla fine non potranno fare a meno che cedere... E le conseguenze del loro amore non tarderanno ad arrivare....
La storia racconta della vita di due persone, dall'adolescenza fino all'età adulta e di come un amore proibito è in grado di segnare indelebilmente intere esistenze. La storia racconta di un incesto tra fratello e sorella, quindi se siete sensibili al tema vi sconsiglio caldamente la lettura.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Incest | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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Chapter 6: Ripercussioni

Il garage di Aaron puzzava di insetticida e di muffa. Dal soffitto, gli sgocciolii picchiettavano il pavimento e mi piovevano sulla felpa GAP arancione, acquistata ai saldi il mese precedente.

Aaron posò le chiavi del box su uno scaffale arrugginito, mi lanciò un’occhiata maliziosa e il piercing sul suo sopracciglio scintillò nella semi-oscurità.

Prima di arrivare lì avevamo comprato un pacchetto di preservativi al distributore, che ora si trovavano nella tasca del suo giubbotto nero di pelle. Aaron diede un calcione a uno scatolone di attrezzi e si accovacciò su un materassino bucato. «Accidenti, lo avevo gonfiato, giuro», lo tastò con mestizia e immaginai che stesse palpando un sedere flaccido. Il suo modo di massaggiare, pratico e deciso, ispirava fiducia, e non se la sarebbe cavata affatto male con un fondoschiena vero e proprio.

Il problema dei ragazzi come Aaron era l’empatia; non quella cosa poco virile e stucchevole delle effusioni dopo una sveltina, ma quell’attitudine a congiungersi senza sembrare dei pacchi imballati dentro un furgoncino. Per un passo importante come la prima volta, c’era bisogno di qualcuno che avesse mestiere. Si sedette a terra. «Mi sa che è bucato e mi toccherà rigonfiarlo.»

Sbuffai. Avevo freddo, lì dentro si gelava. «Puoi fare velocemente?»

L’occhiata tagliente e ostile che mi riservò bastò ad ammutolirmi. Si concentrò sul brufolo sopra il labbro superiore che mi ero schiacciata prima di uscire. I suoi occhi persi e la bocca schiusa, gli facevano l’espressione vuota, la classica faccia da idiota. Armeggiò ancora con il materassino e sbuffai di nuovo. «Non si gonfierà con i tuoi sbuffi», osservò Aaron.

Presto avrei detto addio alla mia verginità e mi scappava così la pipì che mi tremavano le gambe, lui invece fumava e se ne fotteva.

Riparò l’accendino con la mano, per impedire all’umidità di spegnere la fiamma, e si accese la prima sigaretta; una volta spenta, la scagliò oltre la saracinesca abbassata. Ne fumò altre cinque, e il materassino non si era ancora gonfiato. Fu questa considerazione a farmi venire l’illuminazione finale: non avevo nessuna voglia di finire al letto con lui.

Per le mie amiche, Aaron era una divinità, un abbaglio vivente, una coccarda da sfoggiare con orgoglio. Per me Aaron era l’ennesimo insuccesso sociale, il più grande, il passaggio evolutivo in cui l’adolescente ribelle che albergava in me si inceppava. Fantasticavo il sesso con lui con la stessa partecipazione emotiva con cui un inserviente luciderebbe un gabinetto. E invece, il solo ricordo delle dita ossute e penetranti di Daniel mentre mi faceva il solletico mi arrostiva le guance e mi faceva martellare il cuore nel petto, impazzito.

Mio fratello era diverso dagli altri ragazzi del mio liceo, anzitutto perché aveva ventun anni e in confronto pareva un rudere; e poi la mera presenza fisica assieme a una spropositata passione per i libri era una combinazione interessante in un uomo, peccato che ci avrebbe fatto ben poco.

Una volta mi aveva confidato che tutti i suoi compagni di corso laureati in letteratura inglese prendevano il sussidio di disoccupazione, cosa che mandava in bestia i nostri genitori.

Comunque, il nostro ristretto grado di parentela era un problema; eppure, lo zio Bob, con quella sua faccia da cane bavoso, gli occhi iniettati di sangue e la sua lingua che guizzava furtiva tra le labbra, non si era mai posto alcuno scrupolo a fissarmi le cosce.

«Senti, io me ne torno a casa», dichiarai sconsolata e Aaron rimase impalato senza dire una parola nel suo garage.

Durante il tragitto cominciai a piangere. Bel lavoro, Melinda, ti sei appena guadagnata un biglietto di sola andata per il club di teatro. Avrei passato il resto del mio anno scolastico con ragazze smilze e occhialute, perché nessun altro club avrebbe voluto avere a che fare con una sfigata come me, dopo che Aaron avrebbe raccontato a tutti ciò che non era successo. I pettegolezzi si diffondevano più velocemente dell’influenza. Prima di entrare a casa mi asciugai i piedi sullo zerbino, visto che avevo corso sul fiume delle mie lacrime. In realtà, stavo temporeggiando. Cosa avrei detto ai miei genitori? Cosa avrei detto a Daniel? Entrai e trattenni il respiro il tempo sufficiente per filare nella mia stanza il più in fretta possibile.

Daniel era sdraiato sul divano, occupato a leggere qualcosa come Thomas Mann. «E tu che ci fai qui?», alzò a fatica la testa dal cuscino, «Non dovevi stare da Aaron per un po’? È passata soltanto un’ora»

La casa era fin troppo vuota e silenziosa. «Un’ora è stata abbastanza. E comunque, non mi sento molto bene.»

«Ti preparo qualcosa da mangiare?»

Sul tavolo c’era una bottiglia vuota di succo al mirtillo, altri libri presi in prestito in biblioteca dalle copertine logore. «Dove sono mamma e papà?».

«Sono dovuti rientrare al lavoro, pignoramenti urgenti da sbrigare», Daniel chiuse il libro con solerzia e così mi misi accanto a lui, «Che hai? Sembri la morte in vacanza.»

Mi strinsi nelle spalle e vuotai il sacco. «Aaron non mi piace.»

«Seria? Non è tipo l’idolo delle tue compagne di classe?»

«Oggi dovevamo fare sesso», lo sbirciai ed era viola, con i pugni contratti sopra le cosce, «Sai, doveva essere la mia prima volta... Ma sarebbe stata una cacata sicuro.»

«E perché?»

«Lui è troppo scemo e troppo vanitoso: lo sapevi che usa la lacca per capelli? Comunque, non ha saputo neanche gonfiare il materassino…»

«Era la tua prima volta e voleva farlo su un sudicio materassino? Un gran signore, questo tizio.»

«Ma ora ho imparato la lezione, la prossima volta sceglierò almeno qualcuno che sappia ciò che c’è da sapere sull’argomento “prime volte”. Uno affidabile, insomma.»

«Uno ancora più grande intendi?»

«Sì, certo.»

«Sarebbe anche il caso che questo qualcuno ti piaccia davvero, o no?» disse e il mio stomaco si strinse, causandomi un mancamento. Fortuna che ero seduta. Sì, sarebbe stato il caso, ma statisticamente anche poco probabile, visto che l’unico in grado di suscitarmi qualcosa era proprio lui.

«Sì.» risposi.

«C’è qualcuno che ti piace davvero?» disse e deglutì. La sua voce sottile mi stordì come un petardo, anzi come un grande orgasmo (immagino che stordisca un orgasmo, no?). Mi guardava dritto: il suo tono aveva tradito dell’impazienza, così come stavano facendo i suoi occhi verdi petrolio. Sudavo e avevo la tremarella, lo stomaco era in subbuglio.

Non potevo credere a quanto fosse bello. Lui, mio fratello, che condivideva i miei stessi geni e la stessa passione per la pizza e il calcio, era bello da impazzire. Il motivo per cui Aaron mi trovasse attraente, di sicuro, risiedeva nel fatto che negli anni avevo assorbito di luce riflessa il fascino di mio fratello. Assunsi inconsapevolmente la smorfia della demenza: lo fissavo a bocca aperta. Comunque, lui sembrava non essersene accorto.

«Ehm…», analizzai le sfumature dorate dei suoi capelli. Aveva un’eleganza tutta sua, i suoi tratti erano irregolari ma pazzescamente seducenti; le labbra, forse, erano un po’ troppe rosse e piene e… Dio, il suo naso era uno strazio, era come se qualcuno non avesse fatto altro che prenderlo a pugni in faccia dalla nascita. «Sì, effettivamente qualcuno che mi piace davvero c’è»

Le sue spalle erano larghe e il suo petto era incredibilmente ampio, le sue braccia, benché avesse una struttura longilinea, erano possenti; persino le sue mani erano attraenti. Non avevo mai colto l’armonia e la bellezza di un corpo tutta quanta insieme, prima di lui. Voglio dire, l’avevo notata anche prima la struttura fisica maschile ma non l’avevo mai compresa in tutto il suo significato.

Daniel si schiarì la gola, tuttavia gli uscì poco più che un sibilo. «E chi è il fortunato? Si può dire?»

Una fitta feroce mi bucò le tempie. «Sei Tu.»

Rise sguaiato e non interruppe il contatto visivo, sintomo che cercasse indizi su quel probabile scherzo dalla natura perversa a cui lo avevo appena sottoposto. «Ah, sì, dai non è divertente, Melinda.»

Ma siccome non replicai, tentò in qualche modo di spiegare la risata, scuotendo la testa e chiarendo questa storia. «Sono un po’ sorpreso che tu dica cose così, insomma… Con questa leggerezza… Insomma, ma sei seria? No, che non sei seria… Diamine, no… Basta giochetti, d’accordo?»

Scoppiai a piangere. Daniel mi piaceva davvero. Mio fratello mi piaceva davvero. Mi guardò con un misto di stupore e sfinimento e quella che gli attraversò gli occhi fu una sorta di folgorazione. Non stavo scherzando, lo aveva capito. Oltre alla genetica, condividevamo la stessa anima che era stata recisa per adattarsi a due corpi diversi, a due mondi biologicamente diversi. In qualche modo, ci capivamo.

Mi abbracciò, mi massaggiò la schiena, tentava di tranquillizzarmi da quella verità che mi scuoteva dall’interno come una malattia. Alzai piano la testa verso di lui. Le nostre fronti si scontrarono, sembrava così stanco, e mi prese il viso con entrambe le mani; il suo respiro caldo e inquieto mi solcava la pelle. I suoi occhi verdi tormentati erano a pochi centimetri dai miei. La sua voce era sul filo dell’udibilità. «Va tutto bene, non è successo niente di grave, va tutto bene, puoi stare tranquilla con me.»

Non potevo resistere ancora in quell’abbraccio che sapeva di buono. Lo baciai. Le nostre labbra aderirono perfettamente. Mi avrebbe respinta con disgusto presto, ne ero certa, e invece, dopo un primo momento di esitazione, Daniel ricambiò il mio bacio in modo appassionato. Il suo profumo era delicato e intenso, il sapore della sua bocca era così familiare e sconosciuto allo stesso tempo tanto da riaffiorare in me istinti primordiali…Le nostre lingue si toccarono con incertezza e crollammo sul divano. Non mi staccai dalle sue labbra screpolate nemmeno per respirare.

Daniel mi mise una mano tra i capelli e portò la mia guancia contro il suo petto. Tutto aveva acquisito un senso profondo, ora. La sua ira nei miei confronti al mio compleanno, la mia ira nei suoi confronti al mio compleanno. Adesso avevo la certezza di amarlo e che lui mi ricambiasse, e che tutto questo fosse abominevole. «Dan, andiamo in camera tua, ti va? Se mamma e papà dovessero improvvisamente tornare…», non feci in tempo a finire la frase che Daniel si alzò e mi prese la mano, conducendomi nella sua stanza e io ribollivo dentro, perché ero convinta che avremmo fatto l’amore.

Ci buttammo sul letto, la finestra era aperta e la scrivania era piena di erba. «Sei fatto?» gli domandai, incredula. Mio fratello non poteva essere fatto nel momento più importante della nostra vita. Rise e mi abbracciò forte, per distogliere la mia attenzione sulla sua aria da imbarazzato. «Ma no, Mel, non fare il gendarme: ho dato solo un paio di tiri»

Continuammo a baciarci nel suo letto, lui si mise sopra di me e, anche se era un po’ ingombrante per quel materasso a una sola piazza, a me sembrava di avere tutto lo spazio del mondo. Le nostre lingue si intrecciarono e ci volevamo come se avessimo vissuto le nostre vite solo in funzione di quel momento. Eravamo una cosa sola e i contorni dei nostri corpi non erano più distinguibili e, probabilmente, non lo erano mai stati. La sua mandibola si muoveva allo stesso ritmo della mia e fu come se la stessi muovendo io. Ero viva anche nel suo corpo. O, almeno, era così che mi sentivo. Questo era il grado di familiarità che sentivo di aver raggiunto con mio fratello, benché non ci fossimo mai baciati prima.

Noi ci appartenevamo dalla nascita, eravamo stati creati per unirci e nessuna cellula del mio corpo provava repulsione per quello che stavamo facendo.

Poi ci fermammo, parzialmente sazi. La luce che filtrava dalle tendine di lino gli illuminava il viso e i suoi occhi erano due vividi smeraldi lucenti; la barbetta incolta mi graffiò la pelle quando si avvicinò per strapparmi un ultimo rapido bacio.

Sembrava un angelo cacciato dal paradiso.

Abbassai lo sguardo sui suoi jeans e notai un rigonfiamento curioso; lui indossò il sorriso di chi era stato appena colto con le mani nel sacco. Chissà cosa avrei dovuto farci con quella parte gibbosa del suo corpo. Daniel mi afferrò il polso e portò la mia mano verso la sua zip. Non feci resistenza, perché mi fidavo di mio fratello. Al contatto freddo e metallico con i bottoni sussultai: avrei dovuto slacciarglieli ma non ero in grado di muovermi, così lo fece lui al posto mio e le nostre dita si sfiorarono.

Toccai un tronco di pelle liscia e sensibile. Lui era mio fratello e non avrebbe mai potuto farmi del male, allora perché ero così spaventata? Eravamo due persone così vicine emotivamente tanto da soffocarci a vicenda. Dentro di me c’era solo asfissia.

Ritrassi la mano e nascosi la faccia nel suo petto; si tirò i jeans fino alla vita, con vergogna. Rimase immobile per minuti, sembrava morto, rigido come una mazza, e fui io a rompere il silenzio. «Ora come ci comporteremo davanti a mamma e papà, Daniel? Voglio dire, come faremo a comportarci normalmente?»

I suoi occhi si intorbidirono e si alzò dal letto, lasciandomi frastornata sulle sue coperte. Prese l’erba dalla scrivania e si girò una sigaretta. «Non doveva succedere, fino a questo punto… Puoi… Puoi farmi una cortesia? Fai conto che non sia successo, d’accordo?»

«Ma cosa dici, come faccio a fare finta che non sia successo niente? Perché? È per via della domanda che ti ho fatto su mamma e papà? Guarda che non mi interessa di loro, li possiamo gestire… Non dirò niente, te lo prometto, Daniel.»

«Vai in camera tua, Mel».

«Ma non voglio andare in camera mia, per favore…»

Spalancò le ante e si mise seduto sul davanzale. Dalla sua finestra si poteva uscire fuori sul tetto e, un paio di volte quando eravamo piccoli, lo avevamo anche fatto. Evitò di guardarmi negli occhi mentre fumava e io lo fissavo allibita. «Cos’hai, perché ti chiudi sempre in te stesso? Perché fai sempre così, quando le cose si mettono male? Che problemi hai, me lo dici?»

Diede una boccata intensa. Una nuvola di fumo perlaceo lo circondò. Piansi. Era l’unica cosa che riuscivo a fare con competenza, dal mio compleanno: ero ufficialmente una mocciosa piagnucolona, era ovvio che non gli piacessi. E il fatto che fossi sua sorella non c’entrava per nulla, anzi era un ulteriore effetto collaterale e non potevo biasimarlo. I miei piagnistei avrebbero fatto perdere la pazienza a chiunque. Trattenne una boccata di fumo e si voltò, lo sguardo che bucava come l’acido: «Vattene, Melinda» disse secco.


Note.
Carissimi Lettori, grazie perché state dando tanta forza a questa storia, siete la linfa vitale! Perciò, se non è troppo vi chiederei di lasciare una piccola recensione: così io capisco se state gradendo o meno la lettura.
A presto.
Con tantissimo affetto,
JSGilmore.
   
 
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