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Autore: Evali    13/12/2021    0 recensioni
Un villaggio isolato, un popolo spezzato in due in seguito ad una terribile calamità, due divinità da servire, adorare e rispettare in egual modo: Dio e il Diavolo.
"- Io amo gli uomini.
- E perché mai io sono andato nella foresta e nel deserto? - replica il santo. – Non fu forse perché amavo troppo gli uomini? Adesso io amo Iddio: gli uomini io non li amo. L’uomo è per me una cosa troppo imperfetta.
- È mai possibile! Questo santo vegliardo non ha ancora sentito dire nella sua foresta che Dio è morto!"
Genere: Fantasy, Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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La maledizione di Imogene
 
- Che cosa è successo là sotto?
Quella domanda che fuoriuscì dalle labbra di Rolland zittì tutti quanti.
Era notte fonda oramai, e loro sembravano tutti dei giudici, disposti in semicerchio, intenti a processare un accusato.
L’unica differenza, era che i loro sguardi erano quasi tutti sbiancati dalla preoccupazione.
Blake era l’unico seduto su una sedia, in mezzo a loro, con uno sguardo annoiato che stonava con l’intera situazione in cui si trovavano.
Finalmente gli era ritornato il senno in seguito al miracoloso intervento di Judith dentro la fucina, e tutti gli altri dovevano molto alla ragazza, in quanto, se non fosse arrivata lei per caso in quella casa, nessuno di loro si sarebbe accorto di nulla, e chissà come sarebbe andata a finire.
Probabilmente il ragazzo sarebbe morto avvelenato, forse senza neanche rendersene conto.
Ma, nonostante tutto, Blake sembrava calmo, il suo sguardo aveva delle tinte perfettamente coscienti e anche scocciate, a causa della posizione in cui si ritrovava, ma non sembrava particolarmente a disagio o innervosito, in quanto si rendeva conto di aver sbagliato e che ci fosse qualcosa che non andasse in lui, padre Craig lo conosceva abbastanza per poterlo dire.
Dunque, il ragazzo non osava protestare.
In sostanza, accettava di trovarsi in giudizio, messo sotto torchio, ma manifestava comunque il suo lieve disappunto con il suo sguardo da nobile caduto in disgrazia, costretto ad ascoltare qualcosa che non voleva sentire, di malavoglia.
Malgrado l’estrema preoccupazione che provava, padre Craig fu intensamente felice di vederlo tornato in sè, di nuovo il vecchio Blake che amava e odiava allo stesso tempo; in quanto Judith aveva raccontato loro che lo aveva trovato in uno stato che l’aveva spaventata non poco, completamente fuori di sè, come fosse in un’altra dimensione.
Nonostante l’atteggiamento tranquillo del ragazzo, dal suo corpo si poteva perfettamente notare che qualcosa non andasse, in quanto sembrava appena uscito da un incendio e da un incidente in cui era stato calpestato da una mandria di belve: gli occhi erano stanchi, stravolti, le occhiaie enormi e viola, le guance scavate, la pelle macchiata di nero, e i vestiti leggeri anche, erano in uno stato talmente pietoso da non essere quasi più indossabili.
Era incredibile, e anche a dir poco frustrante, notare come, nonostante tutto ciò, la bellezza di Blake non fosse stata minimamente scalfita. Anzi.. si ritrovò a pensare padre Craig.
- Allora? Vuoi rispondere a tuo padre? – rincarò Heloisa, avvicinandoglisi, tremante di ansia e preoccupazione. – Ti rendi conto che, se non fosse stato per la tua dolce metà, saresti probabilmente svenuto o morto là sotto? Stai cercando di avvelenarti, per caso?
Padre Craig non era sorpreso dalla sconsideratezza di Blake nei confronti della propria salute.
Ricordava con precisione lampante, quasi spaventosa, il suo secondo giorno a Bliaint, quando Blake lo aveva subito portato a fargli vedere la galleria, e si era tolto il panno per proteggersi il respiro dentro quel buco asfissiante e dall’aria tossica, come se niente fosse, sotto i suoi occhi sconcertati.
Dunque non era strano che fosse entrato in contatto col mercurio in maniera tanto stupidamente audace, anche se lo avesse fatto coscientemente.
- Oggi andrò a chiamare il medico per controllare il suo stato di salute e accertarci che non abbia subìto un avvelenamento da mercurio – disse Rolland.
- Bene, digli che venga il prima possibile! – rispose Heloisa.
Quaglia guardava il ragazzo ammutolito, mentre Ioan muoriva letteralmente dalla voglia di abbracciare il fratello ma, capendo la gravità della situazione, se ne restava zitto e buono, in attesa del momento propizio.
Judith, dal canto suo, era ancora visibilmente scossa da quel che aveva appena vissuto, e se ne stava in disparte, in silenzio.
Padre Craig non poteva biasimarla.
- Blake?
- Non lo so cosa è successo, papà. Non lo so neanche io. Ho sprazzi di ricordi di quando ero là sotto, ma tutti poco chiari – si decise a rispondere il ragazzo.
- Come ci siete finito? – domandò improvvisamente padre Craig, prendendo la parola e attirando gli sguardi su di sè. – Insomma, ci siete andato di vostra volontà oppure qualcos’altro vi ha spinto...? – gli domandò incerto, terrorizzato dalla sua stessa domanda, memore dell’episodio sopra la galleria, in cui Blake aveva iniziato a sentire delle voci che non esistevano, più di una volta.
Il ragazzo lo guardò con uno sguardo indefinibile, senza dire nulla.
Padre Craig, nei suoi occhi, lesse che desiderava rassicurarlo in qualche modo. Ma, evidentemente, non aveva alcuna parola rassicurante per lui.
- Di mia iniziativa – rispose infine Blake, facendogli salire un groppo in gola.
Non sapeva se lo stesse dicendo solo per non allarmare i suoi genitori più di quanto già non fossero, e tenerli all’oscuro delle sue allucinazioni, oppure perchè era la verità.
- Io non credo che sia così grave come sembri – intervenne immediatamente Quaglia facendo impietrire tutti. - Insomma, magari la cosa gli è sfuggita di mano e l’avvelenamento da mercurio ha solo fatto il resto.
Blake sorrise di sottecchi con quel suo inconfondibile sorriso furbo, macchiato dalla stanchezza, mentre guardava Quaglia quasi teneramente. – Vedete? Finalmente qualcuno che ragiona – disse, sapendo di star per ricevere le occhiatacce praticamente di tutti, a tali parole.
- Finchè non ne sapremo di più, il medico non ti avrà visititato e tu non ti sarai calmato... – cominciò Rolland in tono autoritario. – .. rimmarai qui in casa e uscirai solo e solamente per lo stretto necessario, e solo se accompagnato da qualcuno. Intesi? E, ovviamente, la porta del seminterrato sarà sbarrata, e io terrò la chiave.
- Cosa...? E cosa dovrei fare tutto il giorno chiuso in casa..? – domandò contrariato il ragazzo.
- Potrai sbrigare le faccende domestiche. Potrebbe servire a schiarirti la mente, sai? – gli rispose a tono Rolland.
Quaglia sorrise divertito di sottecchi, all’idea di vedere Blake tutto il giorno chiuso in casa a svolgere faccende domestiche.
- Non puoi tenermi in catene.
- Non l’ho mai fatto e guarda dove siamo finiti – rispose zittendolo e voltandogli le spalle, per allontanarsi, sfinito dallo spavento, e dalla mezza nottata passata insonne.
Per una volta, il padre aveva avuto l’ultima parola sul figlio, un evento che sarebbe passato alla storia nella mente di padre Craig.
- Quindi significa che potrai stare tutto il giorno con me e potremo passare un sacco di tempo insieme come ai vecchi tempi!! – esclamò il piccolo Ioan saltellando come un fringuello, felice come non lo era mai stato. Il ragazzino si gettò finalmente sopra il fratello, saltandogli addosso e abbracciandolo, venendo prontamente ricambiato da lui.
Padre Craig, Quaglia e Judith sorrisero teneramente di fronte alla reazione del fanciullino.
- Cara, non vi ringrazieremo mai abbastanza per quello che avete fatto – Judith venne riscossa dalle mani calde e riconoscenti di Heloisa che strinsero le sue. – Dopo stanotte, non potrei essere più felice che mio figlio abbia scelto voi come sua futura consorte. Non avevamo ancora avuto occasione di presentarci e di conversare a dovere. Mi spiace che la circostanza del nostro incontro qui, in casa nostra, sia stata proprio questa.
- No, non dispiacetevi, Heloisa. Sono immensamente rincuorata di averlo trovato io.
Heloisa le sorrise dolcemente. – Si vede che tenete molto, l’una all’altro. Non potrei esserne più lieta. Sento anche di dovermi scusare per la spiacevole situazione creatasi al nostro primo incontro, davanti alla cattedrale, settimane fa. Ho avuto una reazione esagerata, non da me, perciò vi prego di perdonarmi.
- Me ne ero già dimenticata, non temete e non scusatevi.
- Bene. Ad ogni modo, potete tornare qui quando volete, siete la benvenuta in casa nostra. Inoltre, diremo al medico di visitare anche voi, per controllare che voi e il bambino stiate bene e non abbiate risentito degli effetti dell’aria tossica.
Judith annuì, per poi sciogliere la presa tra le loro mani, e tornare a guardare Blake.
Il ragazzo si alzò in piedi. – Dunque l’assemblea è sciolta? – domandò conferma, per poi rivolgersi a Judith. - Grazie. Per tutto – le disse semplicemente, tre parole che fecero rabbrividire entrambi.
Lei gli sorrise di rimando. – Mi farò viva presto – lo salutò, poi avvicinandoglisi e dandogli un bacio sulla guancia. Padre Craig restò a guardarli come in trance, per poi ricevere un sorriso di saluto confidenziale da parte di Judith e vederla avviarsi verso l’uscita dell’abitazione.
 
- “Non c’è pace!
Non c’è mai pace ...
Perchè voi, siete giunta qui da me?
Non è forse per deridermi?
Mi guardate e indugiate..
Vi tenete alla larga da me, eppure siete qui.
Perderemo troppo presto, ascoltate le mie parole.
E solo troveremo piacere nei gusci di qualche morto ricordo” – pronunciò la piccola Edith, con voce pregna di sentimento, facendo eccellere la sua memoria impeccabile.
- “Deriderti..?
Questo io non l’ho mai voluto, tutt’altro.
Ma tu sei troppo effimera.
Ora sei qui, ma ho paura che domani non ci sarai più.
E che dire di me?
Volo e perdo me stessa, negli occhi e nelle vite di tutti.
Vorrei trovarti, vorrei averti, ma quando ti afferro svanisci.
In quel velo azzurro senza cuciture
Vorrei svanire anche io e ...” – la voce melodiosa di Gwen si bloccò. La bambina si grattò il mento combattuta.
- Cosa c’è, Gwen, non ti ricordi le tue battute? – le domandò dolcemente Hinedia, la quale era rimasta ad ascoltarle fin dall’inizio. – Se vuoi, posso ripetertele. Le so tutte a memoria anche io, Judith me le ha insegnate.
- No, mi ricordo tutto.. è solo che.. – sospirò sconsolata, avvicinandosi alla serva del Creatore.
- Dimmi cosa ti turba – la incoraggiò lei.
- Non capisco cosa lei prova nei suoi confronti – disse, rivolgendo lo sguardo a Edith, che invece sembrava aver azzeccato perfettamente la sua parte.
I ruoli erano stati distribuiti, e ogni piccolo attore aveva avuto l’opportunità di scegliersi la sua parte da interpretare.
Edith era l’ira e Gwen l’invidia.
Hinedia le sorrise dolcemente. – Non stai avendo dei ripensamenti sul vizio che ti sei scelta, vero?
- No, no, assolutamente. Solo, voglio capire cosa prova, nei confronti dell’ira.
- Lei la vorrebbe avere. Come amica e come motivazione – Hinedia si bloccò, cercando di trovare le parole giuste per spiegarle. – Lei è il suo fulmine a ciel sereno, un tornado che le serve a che mira a raggiungere. Per liberarsi in qualche modo. Per permetterle di sfogare fuori tutto quello che ha dentro, che la opprime e la affligge.
- Lei la vuole avere. Ma l’Ira crede invece che lei si voglia allontanare, che nessuno voglia avere a che fare con lei. Si completano, ma finiscono sempre per cercarsi senza mai trovarsi – venne in suo aiuto anche Edith, parlandole con pazienza e comprensione, guardandola fiduciosa.
Hinedia si sorprese non poco di quanto potessero essere profondi e sensibili quei bambini. Di quanto potevano esserlo i bambini in generale.
Li conosceva solo da pochi giorni e già era fierissima di loro.
Edith era una bambina sicura di sè, mentre Gwen era una fanciullina dolce, estramamente sensibile, in cui Hinedia si rivedeva. Credeva di non essere all’altezza di quel ruolo, ma pretendeva molto da sè e le piaceva sperimentare, perciò aveva voluto sfidare se stessa scegliendo un vizio complicato come quello dell’invidia.
Hinedia era certa che, grazie alla profondità e introspettività che la caratterizzavano, sarebbe sicuramente riuscita a renderla al meglio, emergendo.
La serva del Creatore si voltò anche verso gli altri bambini.
Quelli davvero in difficoltà erano altri, in realtà: Kilian, May e Sorie. Nonchè Accidia, Lussuria e Hybris.
Il primo se ne stava seduto con la testa riversa in giù e le mani strette tra i capelli. Sembrava molto in difficoltà nell’entrare in comunione con il proprio ruolo.
Ogni bambino aveva avuto la possibilità di scegliersi la propria parte, perciò nessuno era davvero scontento della scelta. Ma un conto era la voglia e l’eccitazione della scoperta, un’altra era la pratica nell’entrare in contatto con un ruolo particolare. Hinedia poteva comprenderlo, dovette ammettere che l’accidia era una bella gatta da pelare.
D’altra parte, c’era May, che si era scelta il vizio più difficile da interpretare per una bambina, il vizio più “da grandi”. Cosa poteva saperne un esserino così piccolo della lussuria?
Neanche Hinedia stessa sapeva se lo conoscesse davvero, il brivido di quel vizio sulla pelle.
Eppure, la sfida contenuta nello spettacolo creato da Judith consisteva proprio in questo: entrare in contatto con il mondo dei grandi, scoprendo e comprendendo che, in realtà, nulla è solo “da grandi”.
Infine, c’era Sorie, che la stessa Hinedia non sapeva proprio come aiutare.
D’altronde, non aveva a sua volta la minima idea di come poter rendere e interpretare un vizio raro e misterioso come quello dell’hybris, perciò Sorie aveva tutte le ragioni per essere in difficoltà.
I rimanenti, invece, nonchè Ioan, Jogger e Dionne, sembravano non avere problemi con il proprio ruolo.
Dato che Edith e Gwen sembrava stessero prendendo il via da sole, Hinedia si rialzò in piedi, dirigendosi verso il piccolo Kilian, per offrire il suo aiuto anche a lui.
Ma venne sorpredentemente anticipata da uno dei monaci del Creatore, il quale si avvicinò al bambino e gli chiese che cosa lo preoccupava e come poteva aiutarlo.
Hinedia per poco non si fece prendere dalla commozione, osservando la scena.
Un monaco del Creatore, che aiutava e conversava amabilmente con un piccolo servo del Diavolo.
Una scena che non si vede tutti i giorni, tutt’altro.
Eppure, i monaci del Creatore erano i più restii all’inizio, all’idea di quello spettacolo tenuto da Judith con quei bambini servi del Diavolo.
Invece, nel giro di pochi giorni, non solo avevano deciso di ospitarli nella propria cattedrale per le lezioni, ma si stavano addirittura aprendo timidamente a loro, avvicinandosi con cautela, e approcciandosi.
Hinedia li guardò ancora, fiera e commossa, avvicinandosi a Judith, la vera artefice di tutto ciò.
Quella mattina la ragazza sembrava assente, distratta.
Se ne stava in disparte in un angolo, fissa in un punto, senza dire nulla.
Eppure, solitamente lei era la prima ad aiutare i bambini come poteva non appena li vedeva in difficoltà.
Quel giorno si era solamente limitata a recitare loro qualche riga del copione scritto da lei, ad ognuno in base ai ruoli scelti, per poi lasciarli sperimentare e lavorare da soli.
Si pose accanto a lei, ma la ragazza non sembrò neanche accorgersi della sua presenza.
- Devo farvi i miei complimenti – esordì Hinedia, attirando finalmente la sua attenzione, come risvegliandola.
- Per che cosa? – le domandò Judith.
- Il copione che avete scritto. So che sono solo poche righe per ognuno sinora, e che c’è ancora molta strada da fare, e non sarà facile per loro.
Ma, sinora, mi piace molto ciò che avete scritto.
Mentre recitavate ad ogni bambino la propria parte da imparare, vi ascoltavo e sono rimasta positivamente colpita. Insomma, non è facile rendere ogni personaggio così sfaccettato, complesso, e al contempo semplice da interpretare e comprendere per un bambino.
Si adatta bene a loro, alla loro ingenuità, eppure siete riuscita a carpire degli aspetti dei vizi capitali davvero intensi e insoliti, rendendo il tutto affascinante e molto poetico.
Judith accennò un piccolo sorriso dinnanzi a quei complimenti. – Vi ringrazio, ma non ho fatto nulla di speciale. Quel poco che ho scritto sinora, l’ho scritto di getto, in una notte, senza neanche pensarci – ammise. - Io mi devo complimentare con voi piuttosto.
Hinedia la guardò interrogativa. – E perchè mai?
- Vi ho vista prima, con i bambini. Siete entrata molto in sintonia con loro, siete perfetta come insegnante.
All’inizio vi approcciavate a loro in modo timido e impacciato, mentre ora sembrate nata apposta per questo.
I bambini vi amano.
- Mai quanto amano voi.
Le due sorrisero, per poi fissare gli occhi su padre Petrit, che era ancora tutto impegnato ad aiutare il piccolo Kilian. Tutta la sua attenzione era sul bambino, e sembrava addirittura sorridergli ogni tanto.
- In dieci anni che sono qui, avrò visto padre Petrit sorridere massimo sei volte – commentò Judith, guardandoli sorpresa e intenerita a sua volta.
- Ora, invece, guardatelo. Quel bambino sembra avergli sciolto il cuore.
- Ci pensate, a cosa siamo state in grado di fare? – riflettè ad alta voce Judih. – Il desiderio di eliminare, un giorno, le tensioni e le discriminazioni tra servi del Diavolo e del Creatore, era un sogno nel cassetto che avevo con padre Cliamon. Sono diversi giorni che egli è distante, ultimamente. Sparisce di frequente, riesco poco a vederlo.
- È a causa sua che siete turbata oggi? – le domandò finalmente Hinedia.
- Turbata? Io? Vi sembro turbata?
- Sembrate distratta, come in preda a pensieri turbinosi. Sapete, potete parlermene se volete.
So che ci conosciamo da poco, ma mi trovo davvero bene a trascorrere del tempo con voi, Judith. Motivo per cui spero vivamente che, in futuro, io possa definire il legame che ci lega “amicizia”.
Il cuore di Judith si scaldò nell’udire tali parole, soprattutto pronunciate da una serva del Creatore, e sorrise di rimando. – Oh, Hinedia... potete chiamarlo così già da ora.
Hinedia sorrise a sua volta, rincuorata, guardandola in attesa che lei parlasse, che le confidasse cosa teneva la sua mente occupata.
Quegli occhi sinceri la scrutavano, in aspettativa.
Judith avrebbe davvero voluto dirle cosa fosse accaduto quella notte, ma venne frenata.
Ora che ci pensava, Judith non sapeva che tipo di legame ci fosse tra Hinedia e Blake.
Sapeva che i due si fossero incontrati un paio di volte, per caso, ma che Hinedia sembrava cercarlo con gli occhi ogni volta che sentiva solo pronunciare il suo nome, mentre Blake pareva averle concesso una confidenza che non concedeva mai a nessuno solitamente.
Chissà come avrebbe reagito la ragazza, se avesse saputo cosa gli fosse accaduto.
Raccontandoglielo, non solo avrebbe esposto Hinedia ad una preoccupazione che non sapeva fin dove si sarebbe potuta spingere, ma avrebbe anche rivelato qualcosa di estremamente intimo, confidenziale e riservato che riguardava Blake, ad una persona pressocché semi-sconosciuta per lui.
Tutti motivi più che validi per spingerla a tenersi tutto per sè, senza dirle nulla.
- Nulla di preoccupante: il bambino nel mio grembo sta crescendo e sta cominciando a farsi sentire, senza farmi chiudere occhio. Tutto qui.
Improvvisamente, le porte della cattedrale si aprirono, e una nuova presenza inaspettata fece il suo ingresso nell’immenso edificio.
I suoi passi rimbombarono sul pavimento con imponenza, attirando l’attenzione dei bambini, delle ragazze e di padre Petrit, il quale la squadrò infastidito.
- Non temete, padre, non starò molto – gli disse inacidita la donna, senza neanche voltarsi a guardarlo, mentre manteneva la traiettoria della sua camminata fissa verso Judith.
- Myriam...? Cosa ci fate qui? – le domandò la ragazza alzando un sopracciglio.
In risposta, la strega guardò prima lei, poi posò lo sguardo sulla serva del Creatore accanto a lei, squadrandola.
- Chi è costei? – domandò, facendo impallidire Hinedia, che riusciva a malapena a reggere il suo sguardo giudicante.
- Costei è una mia amica, Myriam. Che cosa cercate? – le rispose a tono, riattirando lo sguardo della strega su di sè.
 - Dunque è così? Oltre che con i monaci, siete solita socializzare con i servi del Creatore in generale? Perchè non diventate una di loro e vi battezzate al Creatore, ordunque? – le domandò in tono di scherno, senza lasciarle neanche il tempo di rispondere, in quanto la superò, sussurrandole: - Vi aspetto di sopra, nelle vostre stanze. C’è qualcosa di cui dobbiamo parlare.
Dopo di che, la strega si diresse verso le scalinate.
Riprendendosi dalla sorpresa, Judith si rivolse a Hinedia. – Pensate voi ai bambini per oggi. Io mi assento per un attimo – le disse, per poi dirigersi a sua volta alle scalinate.
Prese a camminare verso la propria stanza, entrandovi e trovando Myriam già accomodata sulla sedia dinnanzi al tavolo che sottostava allo specchio.
- Come avete fatto ad entrare? La porta era chiusa a chiave – le domandò Judith richiudendosi la porta dietro di sè. – Cosa ve lo chiedo a fare, oramai? – aggiunse sospirando, sapendo che non avrebbe ricevuto risposta.
Non fece in tempo a sedersi a sua volta, che Myriam arrivò subito al dunque:
- Cos’è successo stanotte a Blake?
Judith si voltò a guardarla, scorgendo la preoccupazione distorcere i suoi lineamenti solitamente glaciali e serafici.
- Come sapete che gli è successo qualcosa? Dove eravate? Nascosta tra le crepe di qualche muro della sua casa? – domandò pentendosene un secondo poco, poichè, anche a quello, non avrebbe ricevuto risposta.
Tuttavia, ella invece avrebbe dovuto necessariamente rispondere ad ogni sua domanda senza fiatare.
Ciò non le andava bene. Affatto.
Se la strega avesse voluto sapere di Blake, lei avrebbe dovuto dirle qualcosa a sua volta.  
Non avrebbe spifferato quelle informazioni come se niente fosse a qualcuno di cui sapeva poco o nulla, soprattutto non sapendo per quale motivo ella desiderasse tanto sapere di lui.
- Come avete conosciuto Blake?
- Potrei rivolgervi la stessa domanda. Chissà perchè, ogni volta che provo ad avvicinarmi a lui o a scoprire qualcosa su di lui, spuntate fuori voi, Judith. Siete praticamente ovunque – le disse fingendo un’esperazione che in realtà non provava.
- Sono stata io a porgervi la domanda. Voglio sapere cosa si cela dietro tutto questo interesse.
Myriam abbassò lo sguardo, per la prima volta. – Dovrà essere lui a dirvelo. Se lo vorrà, se lo riterrà opportuno e si fiderà di voi. Non sarò certo io a farlo – si limitò a dirle.
Judith comprese le sue ragioni, ma non era ancora soddisfatta.
- Perchè non andate a chiederglielo voi stessa? Perchè siete venuta da me, invece che andare da lui?
- Perchè voi avete assistito in prima persona a ciò che gli è accaduto.
Inoltre, ora è circondato dai membri della sua famiglia. Non posso farmi vedere da loro.
Non c’è modo che io possa incontrarlo da sola, al momento, per sapere come sta e cosa gli è successo - rispose sinceramente.
Judith la guardò quasi con compassione.
- Facciamo un patto – le propose. – Voi risponderete ad una delle mie domande. E, in cambio, io vi dirò cosa è successo a Blake. Potrebbe essere fattibile, per voi?
A ciò, Myriam le sorrise divertita. – Siete una persona interessante, Judith. Mi incuriosite.
- Allora? La vostra risposta?
- Accetto. A patto che voi mi descriviate per filo e per segno che cosa è accaduto questa notte.
- Vi ho già detto che lo farò.
- Bene. Dunque? Qual è la vostra domanda?
Judith vi pensò su, scovando nella sua mente qualcosa a cui la strega sperava avrebbe potuto rispondere, senza tirarsi indietro. Voleva sapere qualcosa in più su di lei e sulla sua enigmatica figura.
- Mi avete fatto capire di aver tentato di tutto, in passato, per rendere il vostro ventre fertile e poter avere un bambino vostro. Che cosa avete tentato? E perchè avete fallito?
Myriam impietrì per un attimo.
Dopo di che, sorrise sfrontata, un sorriso che, tuttavia, nascondeva qualcosa di torbido e profondo.
- Mettetevi comoda, Judith, se volete davvero ascoltare questa storia.
Una storia che risale circa a sei anni fa.
La storia della donna che ho amato e odiato sino ad impazzire.
Detto ciò, la strega iniziò a narrare:
Candice Lilitbeth fece il suo ingresso dentro l’isolata dimora, circondata solamente dai rumori del bosco, al tramonto.
La giovane strega appartenente alla famosa compagnia di stregoni eremiti di Bliaint, tuttavia, non era sola questa volta. Difatti, la fanciulla si trascinava dietro due furiosissime e forsennate creaturine con una zazzera di capelli biondi scompigliati. Lilibeth, stava facendo fatica a reggerli da sola, una mano stretta al braccio di uno e l’altra al braccio dell’altro, che tiravano entrambi ognuno nella direzione opposta, facendola pericolosamente sbilanciare.
- Finitela, bastardi scalmanati che non siete altro!! A cuccia! – esclamò la ragazza, attirando l’attenzione delle altre tre presenze nella dimora.
Myriam si alzò dal suo giaciglio e raggiunse la stanza della casa in cui si trovava Lilibeth, nella quale vi erano già Selma, intenta a praticare chissà quale tipo di rituale, seduta a terra e circondata da dodici candele; e la più piccola tra loro, nonchè Beitris, che era impegnata a truccarsi gli occhi di quel penetrante color nero piombo che faceva sembrare le sue iridi smeraldo ancor più luminose di quanto già non fossero.
Le tre si voltarono in sincrono a guardare Lilibeth, con le due nuove misteriose piccole presenze che scalpitavano come due bestioline selvagge e inferocite.
- Che cosa è successo loro? – fu Beitris la prima a parlare, con voce apparentemente indifferente, avvicinandosi cautamente.
I due bambini ringhiarono in risposta ribellandosi ancor di più alla presa di Lilibeth.
- Per gli Inferi ... che cosa diavolo hanno vissuto per essere così esagitati? – intervenne anche Selma.
- Me li ha mollati Ephram lungo la strada, dicendomi di portarli a casa – rispose scocciata la ragazza, iniziando a prendere delle corde per legarli, costretta a farlo, se non voleva farsi spezzare un braccio dalle due belve in miniatura.
Mollò uno dei due a Myriam, e cominciò a legare i piccoli polsi dell’altro.
Myriam lo afferrò con fermezza per tenerlo fermo, reggendo la presa sulle sue braccia e osservandolo.
I loro vestiti era larghi, luridi e semistrappati, la loro pelle era ferita in diversi punti, mentre la folta chioma di capelli impazziti che si muovevano di qua e di là non lasciavano modo di osservare i loro volti infervorati.
Myriam gli afferrò la mascella con la forza di una mano, e gli alzò il volto verso di sè, per osservarlo senza quegli ingombranti ciuffi davanti: grandi occhi di miele, una bocca che pareva disegnata. Tutto, in quella creaturina, faceva pensare di trovarsi davanti ad un angelo, se non fosse stato per i suoi dentini furiosamente digrignati. – Sono entrambe femmine? – domandò Myriam, continuando a tenergli la mascella stretta tra le dita, nonostante la bestiolina tentasse di ribellarsi.
- In realtà, credo siano entrambi maschi – rispose Lilibeth terminando di legare i polsi dell’altro dietro la schiena, costringendolo in ginocchio, per poi afferrargli i capelli con la mano e tirargli su la testa, per far osservare il suo volto inferocito anche alle altre tre.
Myriam osservò anche l’altro. – Dai volti, sembrano due femmine – commentò, poi realizzando qualcosa. - Sono identici. Sono gemelli.
- Esatto. Un evento alquanto raro, non trovate? – disse Lilibeth iniziando a legare i polsi anche dell’altro.
- Come si chiamano? – domandò Beitris avvicinandosi e osservandoli, improvvisamente incuriosita. – È strano trovare dei gemelli.
- Non lo sappiamo, non lo vogliono dire. La donna da cui Ephram li ha comprati non ce lo ha detto.
- Li ha ...comprati...?? – esclamò Selma incredula, alzandosi finalmente in piedi a sua volta. – E con quali soldi??
- Nessun soldo. Li ha comprati per un sacchetto di semi e una dozzina di capre.
- Chi diavolo ha venduto due bambini per un paio di semi e una manciata di capre?? – esclamò Beitris interdetta e dispiaciuta.
- Scusami ... quali capre? Non dirmi che ha usato le ultime capre che avevano come nostre ultime riserve per superare l’inverno ... – azzardò Selma esasperata, timorosa di udire la risposta. – Con cosa diavolo ci nutriremo?! Con questi due bambini??
- Avanti, non essere grottesca! – la rimproverò Beitris, per poi tornare a guardare i bambini, che continuavano a scalpitare e a ribellarsi seppur legati.
- Cos’ha in testa quel folle?? Per quale motivo ha venduto tutte le nostre capre per comprare queste bestioline inferocite?? Che cosa ce ne dobbiamo fare di loro? A cosa ci servono? E poi, lo ha fatto senza neanche consultarci, senza dirci nulla! – si lamentò di nuovo la più matura delle quattro.
Myriam la guardò. – Lo sai che Ephram non ci dice mai niente, Selma. Agisce e basta. Se ne frega di noi, in realtà. Fa quello che vuole e poi lascia noi a risolvere i suoi danni. Non si è neanche degnato di presentarsi qui a portarceli lui stesso questi bambini che ha comprato. Inoltre, stiamo pur sempre parlando di un ragazzo molto, troppo giovane.. per quale motivo a capo della vostra compagnia c’è un ragazzino volubile, volete spiegarmelo? – sputò acida.
-“Nostra”. Ti ricordo che ci sei dentro anche tu oramai.
- Beh, la nostra Myriam si è unita a noi solo da qualche mese, eppure non si può dire che non abbia già inquadrato Ephram perfettamente – commentò Lilibeth ghignando divertita.
- A proposito, tu non eri a intrattenerti con quel tipo nel tuo letto fino a poco fa? – domandò Selma a Myriam. - Hai intenzione di lasciarlo stare qui tutto il giorno, o lo rispedirai da dove è venuto? Non voglio che nessuno esterno alla compagnia si impicci dei nostri affari.
- Come se Ephram non se ne portasse tre diversi ogni sera, qui, con il doppio o il triplo dei suoi anni! – prese le sue difese Beitris.
- Chi è quel tipo con cui sei stata oggi? – domandò Lilibeth.
- Un cliente – commentò atona Myriam. – Tra poco se ne andrà.
- A te non piacevano solo le donne, o sbaglio? – chiese confusa Lilibeth.
- Sbagli – le rispose semplicemente Myriam, rivolgendole un ghigno malizioso. – Mi piace tutto.
- Tornando al tema principale – riprese la parola Selma massaggiandosi le tempie. – Queste bestioline.. queste “faccini da bambola”. Cosa ce ne facciamo?
- Io direi più ... – rispose Lilibeth osservandoli per bene. – “Faccini d’angelo”.
- Sono d’accordo – confermò Myriam.
- A cosa potrebbero esserci utili? Potremmo ... addestrarli? – propose Beitris.
- Addestrarli a fare cosa? A rubare? Già lo facciamo. A fare incantesimi, a farli diventare due di noi?
- Perchè no? Potremmo crescerli con noi ..
- Ti correggo: dovremo crescerli con noi. Ormai sono nostri. E di certo non potremo abbandonarli per strada.
- Ma perchè Ephram li ha voluti così tanto anche a costo di dare via i nostri ultimi viveri? Cosa vuole farsene?
- Cosa credi che ne sappia?
- Credo li voglia addomesticare – rispose Myriam avvicinandosi ai due. – Vedo molto potenziale in loro.
- Beh, d’altronde noi siamo il meglio che poteva loro capitare, no? Considerando che chi li ha venduti, lo ha fatto per una manciata di capre e di semi, credo sarebbero diventati orfani nel giro di qualche giorno se nessuno li avesse comprati. E sappiamo tutti che fine fanno gli orfani nel nostro villaggio – commentò la piccola Beitris. – Posso trattarli come dei fratellini minori. Non sarebbe male come idea, avere dei fratellini.
- Buona fortuna allora! Spera solo che non ti stacchino quel bel sorrisino dal viso a morsi! – esclamò Lilibeth ridendosela. – Questi faccini d’angelo sono gli esserini più scapestrati che abbia mai visto. Però, effettivamente, se addestrati a dovere, potrebbero tornarci molto utili per incantare i più ingenui. Sono certa che se stessero zitti, calmi e buoni, nessuno resisterebbe ad un loro battito di ciglia.
- Secondo me si agitano tanto perchè hanno fame. Dovremmo prendere loro qualcosa da mangiare, chissà da quanto non mangiano – ipotizzò Beitris.
- Che bello. Non vedevo l’ora di avere due marmocchi pestiferi in casa – commentò Selma con umor nero. - Gestire i capricci di quella marmocchietta di Beitris mi bastava e avanzava.
- Ehi! – si lamentò la succitata. – Non sono piccola, ho già tredici anni!
Myriam sorrise divertita.
Le piaceva l’equilibrio che avevano creato insieme, lei e quelle tre.
- Si può sapere chi è la persona che li ha venduti? Cos’era per loro? La madre? La nonna? Una qualche sorella?? – domandò Selma.
- Ephram mi ha detto delle cose strane su di lei, ora che ci penso – rispose Lilibeth, attirando la curiosità delle tre. – Sembra che i genitori di questi bambini siano morti di recente in circostanze misteriose e particolari. La persona che li ha venduti dice di essere la zia, la sorella della loro defunta madre.
- Come può una donna fare un atto tanto terribile alla sorella, ai figli della sorella..? – commentò Beitris attonita.
- Non so i motivi per cui li abbia voluti vendere dopo la morte della sorella e del marito della sorella. Lei è una donna molto particolare, a detta di Ephram.
Gli ha narrato che sua madre era in rapporti intimi con una sciamana straniera, praticante di una magia arcaica e sconosciuta, con cui ha istruito anche sua madre.
- Cosa si intende per rapporti “intimi”?
- Molto intimi – ribadì Lilibeth, facendo comprendere a tutte le implicazioni di quelle parole. – Sembra infatti che la nascita dei gemelli sia il frutto di quella magia sciamanica. Gli sciamani del culto di cui faceva parte l’amante della madre credevano che i gemelli fossero un miracolo, una benedizione ultraterrena, praticamente delle divinità. Motivo per cui sua madre voleva che almeno una delle due figlie avesse due gemelli. E ha fatto in modo che accadesse.
Ora che ci penso ... quella donna potrebbe aver venduto i loro nipoti perchè li odiava. Perchè era lei che voleva averli avuti, al posto della sorella – concluse Lilibeth attirando immediatamente tutta l’attenzione di Myriam, le cui orecchie si aguzzarono nell’immediato.
- Da cosa lo deduci? – domandò subito quest’ultima.
- Ephram ha detto che lei ha sempre cercato di avere figli ma non vi è mai riuscita.
Sembra che il suo ventre sia sterile e che stia cercando di avere un figlio da anni, tramite l’aiuto di quella magia antica e sciamanica che le è stata tramandata.
Anch’ella vive isolata dal villaggio, in mezzo alla natura, come noi.
Non parla con nessuno e non socializza con nessuno.
Le parole “sta cercando di avere un figlio da anni tramite l’aiuto della magia antica e sciamanica che le è stata tramandata” risuonarono nella mente di Myriam come campane.
Era la sua occasione. Forse la sua unica e ultima occasione per tentare in ciò in cui aveva da sempre fallito.
Ora che si era dovuta necessariamente allontanare da colui che era diventato la sua ragione di vita, e che quel dolore così recente scottava sulla sua pelle come un fuoco rovente, doveva concentrarsi con tutte le sue forze su quello che era il suo obiettivo da quando aveva avuto il primo sangue per la prima volta: avere il suo agognato figlio proprio, sangue del suo sangue.
Motivo per cui quella donna e quei gemelli erano piombati nella sua vita proprio nel momento giusto, quasi come se il Signore avesse ascoltato tutte le sue preghiere.
- Come si chiama la donna? – domandò con urgenza.
- Imogene. Non ha voluto dire il suo primo nome. Solo Imogene.
- E dove posso trovarla?
- Vive nella parte più nascosta della palude. Se vuoi trovarla, buona fortuna.
- Se ci è riuscito Ephram, sta’ certa che posso riuscirci anche io.
Detto ciò, si mise in viaggio la mattina seguente, fresca e riposata, decisa e determinata più che mai a trovare quella donna nascosta chissà dove, che forse sarebbe stata la sua salvezza, la soluzione ad ogni suo problema.
Quasi, ad ogni problema.
Sicuramente non a tutti.
Si tolse dalla testa il pensiero del piccolo Blake, e proseguì nel suo cammino.
Dopo un intero giorno di cammino tra le anguste strade paludose e fangose, si chiese come Ephram, con la scarsa pazienza che lo caratterizzava, fosse riuscito a trovare quella casa dimenticata dal Diavolo.
Inoltre, vivendo talmente tanto isolata e lontana dal villaggio, si chiese come la donna si procurasse cibo e viveri.
Evidentemente, si nutriva di ciò che la natura aveva da donarle, così come facevano loro nella compagnia.
Quando trovò la piccola abitazione, illuminata da alcune lampade ad olio poste fuori dalla porta, era quasi notte fonda e pensò che si dovesse trattare per forza della casa di Imogene.
Iniziò a bussare compulsivamente, sperando di svegliarla, nel caso dormisse.
Di certo non avrebbe dormito fuori dalla porta, dopo aver trascorso un intero giorno a camminare nel fango.
Bussò e bussò di continuo, fin quando la porta non venne aperta.
Davanti ai suoi occhi comparve la donna più bella che avesse mai visto.
Percepì un brivido lungo tutta la schiena, che raggiunse anche le sue zone intime.
Gli occhi di lei l’avevano inchiodata sul posto, inconsapevolmente e irrimediabilmente sedotta soltanto guardandola.
Il suo sguardo, era qualcosa che la giovane strega non aveva mai visto.
Dinnanzi a lei, vi era una giovane donna poco più grande di lei; i lunghissimi e ondeggianti capelli biondo miele le scendevano lungo la schiena in un’imponente e luminosa cascata; la pelle lievemente ambrata sembrava morbida e tenera anche solo alla vista; gli occhi dal taglio affilato e sensuale erano la parte di lei sicuramente più incantatrice, grazie alle ciglia lunghe e bionde che li incorniciavano alla perfezione, e alle iridi di un meraviglioso color oro; le labbra carnosissime, rosse e gonfie, forse per il sonno; il viso tondo e il corpo... un corpo da far scatenare la fantasia di chiunque.
Forse era troppo tempo che Myriam non trascorreva un momento intimo con una donna. Forse era per quello che quel corpo, quel corpo alto, sin troppo formoso e stupendamente curvilineo, con i seni che quasi strabordavano all’interno della sua tunica da notte, fu in grado di attrarla come una calamita.
- Che cosa volete? – la voce chiara e indisposta di lei la fecero risvegliare e ricordare il motivo per cui si trovasse lì.
- Imogene?
- Sì, sono io. Chi mi cerca?
- Myriam. Mi chiamo Myriam.
- Cosa volete da me?
- Sono qui per farvi delle domande. Riguardo i gemelli – fu la prima cosa che le venne in mente, come primo approccio.
A ciò, la donna la squadrò da capo a piedi con diffidenza.
Solo dopo diversi minuti, ella fece un lieve ghigno quasi impercettibile, e le fece spazio per entrare in casa. - Avete fatto tutta questa strada per arrivare qui ... immagino sarebbe molto scortese da parte mia farvi tornare indietro.
Myriam entrò in casa, trovandola piccola ed estremamente in disordine.
Anche la loro dimora non era il luogo più ordinato del mondo, ma pur essendo in molti a convivere insieme, cercavano almeno di darle una parvenza dignitosa.
Invece quella casa era un vero soqquadro, colma di erbe, piante, pietre, cristalli, recipienti in legno colmi di poltiglie che emanavano un odore a dir poco penetrante sparsi ovunque.
- Purtroppo devo informarvi che non ho una vasca – disse Imogene per nulla dispiaciuta, accendendo due o tre lampade ad olio in più. – Siete sudicia, Myriam. Permettete che lavi il vostro corpo – le disse facendola accomodare su uno sgabello in legno, per poi iniziare a riempire un grosso recipiente di acqua, e poggiarlo sopra il fuoco del camino acceso, per scaldarla.
In seguito, prese un panno pulito e una saponetta.
Quando l’acqua fu abbastanza tiepida, la donna riprese il recipiente, vi infilò la saponetta dentro, mischiò un po’ e iniziò ad inzupparci il panno, per poi strizzarlo per bene. – Spogliatevi – la esortò, quasi fosse un ordine, e Myriam obbedì.
Dopo di che, si avvicinò a lei, inginocchiandosi e iniziando a passarle il panno bagnato sulla pelle sporca di fango.
- Avete riservato lo stesso trattamento anche ad Ephram, quando è venuto qui? – le domandò, vedendola accennare un sorriso.
- No, non l’ho fatto. Con gli uomini non ho un bel rapporto.
- Con gli uomini in generale?
- Con la maggior parte – rispose serafica, iniziando a passarle il panno sulle spalle e sui seni con lentezza esasperante.
Myriam sospirò, lieta.
- Siete giunta sin qui solo per farmi delle domande sui miei nipoti? – le domandò all’improvviso, andando dritta al punto. – Immagino facciate parte della compagnia di stregoni di Ephram. E immagino anche che il loro improvviso arrivo deve avervi oltremodo scombussolata. Non sono dei bambini facili. A proposito, come stanno?
Quello strano interessamento confuse e sorprese Myriam. – Perchè li avete venduti se continuate ad interessarvi a loro?
- Non ho mai smesso di interessarmi a loro. Sono i figli di mia sorella, d’altronde.
- E avevevate un bel rapporto con vostra sorella?
Imogene non rispose subito, continuando a pulirla delicatamente e accuratamente col panno, giungendo alla schiena. – Drusilla era la sola persona con la quale stessi davvero bene a questo mondo – disse, e Myriam comprese si stesse riferendo alla sorella.
- Era più giovane di me. Io mi sono sempre presa cura di lei, sia prima che dopo che la malattia ha stroncato nostra madre, e la sua amante ci ha lasciate abbandonate a noi stesse.
- La sciamana?
- Noto che Ephram vi ha raccontato già molte cose su di me.
- E voi le avete raccontate ad Ephram, a quanto pare.
- Quel ragazzo sa essere molto persuasivo. E fastidiosamente insistente.
Ad ogni modo sì, la sciamana. Ci ha abbandonate quando nostra madre è morta.
- E vostro padre?
- Mai conosciuto. Diciamo che nessuna donna della nostra famiglia ha mai avuto un bel rapporto con gli uomini, nè ne è mai stata attratta. A parte Drusilla.
Per quanto mi riguarda, posso dire che l’unica eccezione, è sempre e solo stato Maringlen.
- Chi è Maringlen?
- Uno dei due gemelli.
- Dunque è vero che sono due maschi. Quando ho visto i loro volti la prima volta, ho subito pensato fossero due bambine, ma i loro vestiti e i loro atteggiamenti ci hanno fatto ricredere. Non abbiamo avuto modo di controllare, nè di avere conferma da loro, dato che ancora non ci parlano.
A ciò, Imogene sorrise, per la prima volta.
Un sorriso bello, ammaliante e a suo modo genuino, pensò Myriam beandosene.
- Hanno a malapena sei anni, è normale che il loro aspetto non riveli il loro genere con esattezza. Ad ogni modo, sono entrambi. Maschio e femmina. Maringlen è un bambino, Maroine è una bambina.
Myriam si sorprese ancor di più all’udire tale informazione.
Ripensò al volto di quei fanciullini e riflettè sul fatto che avrebbe potuto tranquillamente affermare che fosse Imogene la loro madre, considerando la strabiliante somiglianza.
- Cos’è accaduto tra vostra sorella Drusilla e suo marito? Come mai sono morti entrambi?
- Siete venuta qui davvero per sapere tutto – commentò Imogene lievemente seccata, passando dalla schiena di Myriam alle sue gambe, ponendosi di fronte a lei e aprendogliele.
La sua intimità si rivelò dinnanzi agli occhi attenti, seduttori e indefinibili di Imogene, facendo rabbrividire Myriam di una strana aspettativa.
- Avete un corpo androgino, Myriam. Eppure riuscite comunque ad essere femminile – commentò Imogene, senza una particolare inflessione nella voce. Poi, i suoi occhi di miele, dalla sua intimità si spostarono al suo volto, perforandole lo sguardo. – Volete davvero conoscere questa storia..?
Myriam annuì, improvvisamente curiosa.
- Bene.
Quando aveva quindici anni e io diciannove, Drusilla si innamorò di un ragazzo suo coetaneo, conosciuto al villaggio, durante una delle tante funzioni nella cattedrale del nostro Signore.
Passava sempre più tempo fuori casa, solo per stare più tempo con lui, e nostra madre e la sua amante non approvavano affatto questo comportamento.
Lui non è mai stato gradito in casa nostra.
Forse perchè, già da allora, nonostante Drusilla fosse al settimo cielo, mia madre riusciva già a scorgere i tremendi pericoli di quel rapporto tossico.
Non dando retta a nostra madre, Drusilla fece di testa sua e sposò Zane, questo era il suo nome, dopo solo un anno che si conoscevano. I due andarono a vivere insieme per conto loro, in una casa al villaggio.
In quell’anno, nostra madre si ammalò gravemente e morì, e Guadalupe se ne andò, tornandosene da dove era venuta.
La morte di mia madre fu un duro colpo, ma per Drusilla non lo fu quanto lo fu per me, in quanto mia madre l’aveva disconosciuta da quando aveva deciso di sposarsi con Zane, ed ella nutriva ancora dei sentimenti di odio molto profondi verso di lei.
Io decisi di rimanere a vivere qui, da sola, in mezzo alla palude, ma andavo a trovare mia sorella ogni giorno.
Inutile dire che Drusilla rimase gravida immediatamente, e mise al mondo due gemelli.
Quando li vidi, capii subito che fosse merito di Guadalupe.
- L’amante di vostra madre?
- Esatto. Guadalupe giunse a Bliaint spinta dalla curiosità e dalle leggende che girano sul nostro misterioso e “prodigioso” villaggio, dalla divisione di Allister Chaim. Ella era una figlia dell’Est, praticante di culti pagani, di religioni che noi definiamo arcaiche e antiche, ma che nella sua terra sono ancora il centro pulsante della vita spirituale. Una vita spirituale sconosciuta a noi, che utilizza un tipo di magia a noi estranea, fondamentalmente basata sullo sciamanesimo.
Giunta qui, lei e mia madre si innamorarono quasi immediatamente e lei venne a vivere da noi.
Motivo per cui mia madre decise che saremmo andate a vivere lontane dal villaggio, in mezzo alla natura, alla palude, quanto più isolate dal centro pulsante della vita di Bliaint, per proteggere Guadalupe.
Ella ci ha trasmesso tutte le sue conoscenze, istruendoci con quel tipo di magia che nessun altro nel villaggio praticava o conosceva.
Secondo il culto sciamanico di Guadalupe, i gemelli sono una benedizione della terra e del cielo, sono degli déi sotto forma di uomini o donne, creature miracolose da amare e adorare.
Motivo per cui, quando eravamo piccole, sia io che Drusilla fummo sottoposte ad un rito sciamanico che avrebbe dovuto darci la capacità di partorire due gemelli, nel caso in cui fossimo rimaste gravide.
Tale benedizione, ricadde ovviamente su Drusilla.
Tornando a lei e a suo marito... egli, dopo solo qualche mese dalla nascita dei gemelli, si rivelò per il mostro che era sempre stato.
Myriam impietrì, iniziando a realizzare con orrore. – Per quale motivo Maroine e Maringlen sono così rabbiosamente diffidenti e spaventati da chiunque...?
- Per il motivo che state già immaginando. Li picchiava a sangue. Così come picchiava a sangue Drusilla.
Ma Drusilla era troppo buona, troppo innamorata, troppo accecata.
Ha commesso l’errore più grande che una donna sottomessa potrebbe commettere.
Ogni volta che andavo a trovarla cercavo di convincerla in ogni modo possibile di abbandonarlo e di tornare a vivere con me con i gemelli, nella casa nella palude.
Ma lei non mi ha mai ascoltata.
Iniziai ad inasprirmi contro di lei.
Ogni volta che entravo in casa loro, trovavo un livido e un’ematoma in più sul suo corpo, e delle ferite in più nei volti di Maroine e Maringlen.
Myriam percepì il sangue ribollirle nelle vene a quel pensiero.
Se solo avesse trovato un solo graffio sulla pelle di Blake quando andava a badare a lui, o avesse anche avuto il minimo sospetto che Rolland lo picchiasse, lo avrebbe preso con sè e portato via da quella casa senza pensarci due volte.
Riusciva ad andare fuori di testa persino quando erano i monaci a picchiarlo, per disciplinarlo.
Dunque non osava neanche immaginare quanta rabbia potesse aver provato Imogene nell’osservare sua sorella e i suoi nipotini venire sgretolati ogni giorni di più.
- Come andò a finire..? – ebbe il coraggio di domandarle.
- Accadde l’inevitabile – lo disse con una freddezza che spaventò quasi Myriam. – Se l’è cercato. Lo ha voluto lei. Se solo mi avesse ascoltata sarebbe ancora viva – aggiunse con durezza, iniziando a lavarle le gambe.
- Cosa accadde?
- Quel giorno, la colpa della sua morte fu di Maringlen.
Drusilla odiava quando Zane toccava i suoi figli. Faceva sempre loro scudo con il suo corpo.
E, chissà il perchè, ma con Maringlen era ancora più violento di quanto lo fosse con Maroine e con Drusilla stessa.
Quella mattina, quando entrai in casa loro, mi trovai dinnanzi una scena raccapricciante: il corpo di mia sorella giaceva a terra senza vita, in una pozza di sangue. Dal canto suo, Zane era seduto su una sedia, tremante e con la testa tra le mani, uno sguardo stralunato e disperato.
I bambini, invece, erano seduti a terra, con gli occhi vuoti e lo sguardo perso.
Zane alzò il volto su di me con sguardo colpevole e mi parlò con voce tremante: “Si è messa in mezzo... si è messa in mezzo per difenderlo ...” sussurrò indicando il piccolo Maringlen con il dito. “Se non si fosse messa in mezzo ... se non si fosse messa in mezzo non sarebbe finita così.”
Myriam schiuse le labbra, sconcertata. – E poi? Come andò a finire?
Imogene sorrise di sottecchi a quella domanda. – Come credete che possa esser finita? Ho fatto ciò che mia sorella avrebbe dovuto fare da molto tempo: un albero cadde “miracolosamente” sulla testa di Zane all’improvviso, uccidendolo, e io presi i bambini e li portai a vivere con me alla palude.
- Ed ora, perchè avete deciso di sbarazzarvene?
- Perchè chiunque potrebbe dare loro una vita migliore di quella che potrei dare loro io.
Inoltre, guardarli mi ricorda ogni giorno Drusilla.
Sono identici a lei e non riesco a sopportarlo.
- Non è solo questo, vero? C’è un altro motivo? – domandò Myriam, venendo quasi immediatamente zittita da Imogene che, ancora inginocchiata dinnanzi a lei, le riaprì le gambe con le mani all’improvviso, facendola paralizzare.
- Sono stanca delle vostre domande. Sono stanca di parlare.
Voglio sapere anche io qualcosa di voi – sussurrò con voce pericolosamente sensuale e melliflua, iniziando a far risalire le dita fameliche all’interno delle coscie scure della giovane strega, fino ad arrivare alla sua intimità.
La perforò con le dita, senza delicatezza, facendo mozzare il respiro a Myriam.
Avvicinò il volto al suo, incatenandola a sè e al suo profumo. – Ma ora tappatevi la bocca. Non è più il momento di parlare – le disse, muovendo le dita dentro di lei e sorridendo diabolica.
Myriam era totalmente assuefatta da lei.
Sentiva che avrebbe potuto fare qualsiasi cosa lei le avesse chiesto.
Finalmente, annullarono le distanze e Imogene invase la sua bocca con voracità e quasi brutalità.
Il sesso non fu passionale o dolce, bensì violento, affamato, insaziabile.
Si ritrovarono ansimanti e stese sulle pellicce, a terra, davanti al fuoco del camino, nude, sudate e soddisfatte.
Imogene era un tornado irrefrenabile, un vulcano di emozioni e di oscuro mistero, che Myriam era tutta intenzionata a scoprire fino in fondo. Si voltò verso di lei e osservò la sua pelle perfetta illuminata dal fuoco, la curva dei suoi grandi seni semicoperti dalla pelliccia, il ventre piatto che si alzava e abbassava, il fiore tra le sue gambe ancora umido e invitante, le cosce lunghe e carnose abbandonate a terra, mentre i raggi di sole che aveva al posto dei capelli erano meravigliosamente sparsi intorno al suo viso, invadendo anche gli spazi di Myriam.
Quest’ultima si voltò verso di lei e la guardò sorridendo.
Non era mai stata una tipa da smancerie, bensì molto pratica e concreta.
L’unico in grado di scioglierla, di farle desiderare di coccolarlo e di suscitare il suo lato affettuoso e morbido che neanche sapeva di avere, era sempre stato solo il piccolo Blake.
Invece, in quel momento non riuscì a resistere all’impulso di prenderla per i fianchi e di trascinarla a sè, per far entrare i loro volti, i loro corpi in contatto, per sentirsela addosso in tutto e per tutto.
Imogene sorrise, ancora sudata e ansimante, poggiandole una mano sui capelli ricci e scuri. – Siete stata una stupenda sorpresa, Myriam.
- Lo stesso posso dire di voi.
Imogene sorrise di nuovo in quel suo modo inaspettato e bellissimo, carezzandole la guancia.
- I gemelli... ricordano cosa è accaduto loro? Ricordano cosa faceva loro il padre o cosa è accaduto alla loro madre? – domandò improvvisamente Myriam.
- Non credo. Hanno rimosso. Il loro corpo ricorda il dolore subìto ma la loro mente no. Per salvaguardarsi - rispose, poi guardandola seria. – Motivo per cui non dovete raccontare loro nulla dei loro genitori, neanche quando ve lo chiederanno. Voi siete l’unica a sapere come sono andate davvero le cose. Maroine e Maringlen devono rimanere nell’ignoranza, è l’unico modo per farli soffrire meno.
Myriam accennò un sorriso malinconico. – Tenete molto a loro. Riesco a vederlo dai vostri occhi. Eppure, li avete abbandonati.
- Vi ho già spiegato il perchè.
- Sono certa che avrebbero preferito vivere mille vite con voi seppur nella più totale miseria, piuttosto che vivere lontani dall’unica famiglia che è loro rimasta.
Prima avete pronunciato una frase: “La benedizione di partorire due gemelli, ovviamente, è capitata a Drusilla”.
- Non vi sfugge niente.
- Perchè “ovviamente”?
- Non siete venuta qui per sapere solamente dei gemelli, vero?
- Ho saputo che voi non riuscite ad avere figli. Esattamente come me – rivelò, lasciandola attonita. – Ho saputo anche che state cercando di averne, utilizzando la magia sciamanica che Guadalupe vi ha insegnato - disse strusciando tra le pellicce e infilandosi in mezzo alle sue gambe, puntando i gomiti di fianco ai suoi seni e prendendo a guardarla da quella prospettiva. – Voglio che ci proviate anche con me. Oramai ho tentato di tutto e non ho nulla da perdere. Anche nei vostri occhi leggo la mia stessa disperazione. Lo struggimento di una donna che desidera ardentemente ciò che tutte la altre donne posseggono. Voi non avete venduto i gemelli per far avere loro una vita migliore, non è vero? – domandò, sentendola irrigidirsi. – Lo avete fatto perchè volevate che fossero vostri. Siete sempre stata gelosa di Drusilla perchè è riuscita ad avere dei figli e voi no, e averli sempre dinnanzi agli occhi vi avrebbe ricordato costantemente che non fossero vostri, e che non avreste potuto averne di vostri. Mi sbaglio?
- Sarei curiosa di sapere se tutto questo intuito sia dovuto al vostro eccellente spirito di osservazione, o se riuscite a leggere e a scavarmi nella mente – sibilò Imogene muovendosi sotto di lei.
- Credete che la magia sciamanica funzionerà?
- La pratico da anni, oramai, assiduamente, e posso affermare che sì, con molto impegno, sono certa che porterà ai risultati sperati. Mi sottopongo ogni giorno a riti costanti, per far sviluppare la mia fecondità.
- Non avete bisogno di un uomo per appurare se la magia ha guarito la vostra sterilità? – le domandò baciandole un seno.
- Non ho bisogno di alcun uomo – le rispose glaciale Imogene, infilandole una mano sulla nuca, attirandola a sè, e regalandole un lungo bacio bagnato da vertigini. Quando si staccò da lei, le sussurrò tra le labbra: - Vi aiuterò a restare gravida. Lo faremo insieme, se è quello che desiderate.
Myriam sorrise in risposta, sentendo che la sua vita sarebbe nettamente migliore d’ora in avanti, provando un’irrefrenabile voglia di baciarla e di fare l’amore con lei fino allo sfinimento.
- Ad ogni modo.. – proseguì Imogene prendendo a sussurrare dritta nel suo orecchio. – Non vi permetto di minimizzare o svalutare l’amore che provo per i miei nipoti. Credevate che fossi così sprovveduta da non aver pensato all’eventualità che qualcun altro potesse prendere il posto di quello schifoso carnefice del padre, e picchiarli o peggio, dopo averli venduti a degli sconosciuti?
Non permetterei a nessuno di far loro del male.
Per nulla al mondo.
Motivo per cui li ho maledetti..
Myriam sbiancò a tale rivelazione, attendendo che la dea che la stava trattenendo tra le gambe continuasse.
- Semmai qualcuno dovesse minacciare la loro vita ... una tremenda epidemia piomberà spietata su Bliaint, decimandolo fino a ridurlo allo stremo.
 
Le settimane trascorsero e Myriam passava sempre più tempo alla dimora di Imogene.
Si alzava la mattina presto e percorreva tutta la strada per giungere da lei, rimanendo fino al tramonto.
Facevano l’amore per la maggior parte del tempo, e per il restante parlavano, di tutto e di più.
Myriam le aveva raccontato la sua tragica storia, le aveva raccontato dell’esecuzione di sua madre quando era bambina, le aveva raccontato della separazione da Blake.
Si era aperta con lei interamente, in tutto e per tutto.
L’atto sessuale tra le due, inoltre, non era solo e unicamente un atto di piacere, ma era anche il mezzo per perpetuare il rito sciamanico che avrebbe permesso ad entrambe di rimanere gravide.
Tentarono, tentarono ogni giorno, sottoponendosi a quel rito che, più di una costrizione, era un evento di estremo, intenso, conturbante piacere per entrambe.
Tuttavia, Myriam fu lieta che, nonostante la cultura differente insegnatale da Guadalupe, Imogene non avesse abbandonato le consuetudini di Bliaint, e che pregasse e ringraziasse il loro Signore alla fine di ogni rito.
Quando Imogene le spiegò per la prima volta in cosa consistesse il rito, Myriam ne rimase ammaliata e agghiacciata insieme: Per prima cosa, le due si sarebbero dovute sottoporre all’inghiottimento del seme, deglutendo entrambe, nello stesso momento, il seme di un melo.
Dopo di che, avrebbero invocato le antiche e prime leggendarie streghe, chiedendo anche a loro la forza di agire.
In seguito, sarebbero passate all’atto concreto. Inizialmente, di fronte a tale prospettiva, Myriam storse il naso, ma poi dovette ricredersi. Il terzo passaggio consisteva nell’inserire un uovo di airone, intero e integro, nella propria apertura, prima di sottoporsi all’atto, e di consumare quest’ultimo con l’uovo dentro che, inevitabilemente, nella passione dell’atto, si sarebbe rotto, disperdendo i propri liquidi dentro di loro.
Appositamente per ciò, Imogene si prendeva cura sin da quando era bambina di un airone, nutrendolo e accudendolo con grazia.
Tuttavia, non era finita lì. Le uova di airone venivano immerse, per un giorno intero, all’interno di una sostanza densa, bianca e vischiosa che Myriam non fece fatica a riconoscere.
La strega le domandò di chi fosse quello sperma, e come fosse riuscita a conservarne in così grandi quantità.
Imogene non rispose mai a quella domanda.
Tuttavia, per quanto la magia sciamanica fosse una potente risanatrice per il ventre sterile e malfunzionante di una donna, era dall’origine del mondo che uomini e donne sapevano con certezza che, per concepire una vita, vi era necessariamente il bisogno del contributo di entrambi.
Avevano bisogno dell’indiretto “contributo” maschile per riuscire nella loro impresa.
Dunque, prima di ogni atto, le due si infilavano un uovo di airone impregnato di sperma dentro la propria apertura.
Infine, ultimo ma non meno importante, i loro ventri dovevano essere cosparsi di sangue di capra nel momento del loro massimo piacere.
Nonostante il rito di fecondazione le fosse scivolato liscio come l’olio addosso, Myriam rimase profondamente perplessa e turbata da un altro grande scheletro che Imogene si portava con sè.
Per la buona riuscita del rito, era essenziale anche che, durante tutto il periodo di tentativi, le due facessero crescere una piantina.
La piantina era verde e rigogliosa, e sembrava crescere a vista d’occhio nonostante loro non la annaffiassero.
Imogene la teneva ben esposta su un tavolino, contenuta in un vaso spazioso e decorato.
Ma quando Myriam scoprì da cosa avesse messo radici quella piantina, le si gelò il sangue.
A quanto pareva, senza che le condizioni del rito lo richiedessero, Imogene aveva posto, di sua spontanea volontà, un feto quasi del tutto formato, seppellito nella terra.
Da quel feto morto e mai nato, era nata e cresciuta quella piantina.
Imogene le raccontò anche la storia di quel feto, il suo dolore più grande, anche più della morte della sorella e della violenza sui nipoti. Un giorno di qualche anno prima, ella aveva giaciuto con un uomo. L’ennesimo, nel tentativo di rimanere gravida.
Aveva sottoposto anche lui ad un rito sciamanico di fecondazione e, a detta di Imogene, quell’uomo doveva essere molto, molto fertile, per esser riuscito a portarla ad un risultato simile: Imogene rimase finalmente incinta, come desiderava, e credeva che ogni suo problema fosse finalmente risolto.
Il bambino cresceva nel suo ventre e lei era più fiera e soddisfatta che mai.
Tuttavia, il suo ventre doveva essere talmente tanto arido e inospitale, da aver soffocato, avvelenato, il suo bambino.
Una notte, alla fine del settimo mese di gravidanza, Imogene si svegliò di soprassalto, provando un intensissimo dolore alla pancia. Quando guardò in basso, si accorse che stava giacendo in un bagno di sangue.
Il suo amatissimo bambino era morto, e lei era riuscita a tirarselo fuori da sè senza l’aiuto di alcuna levatrice.
Lo ripulì accuratamente di tutti i liquidi di cui era cosparso quel corpicino morto e con il cordone ombelicale reciso, e lo seppellì nella terra.
La pianta nacque e crebbe da sè.
Era la cosa più bella che Imogene possedesse, ed ella la venerava quasi fosse un dio, fissandola per ore intere talvolta.
Myriam provò una grande pena per lei. E proprio perchè la amava, la amava intensamente, avrebbe voluto realizzare il suo desiderio e il proprio il prima possibile, per crescere i loro figli insieme, come una famiglia, come avevano fatto la madre di Imogene e Guadalupe.
Desiderò così tanto una vita con lei ... da dimenticarsi, quasi, di tutto il resto.
Si immerse in quell’amore folle e totalizzante, per tentare di dimenticare il suo passato, nonostante due occhioni blu continuassero a farle visita in sogno.
Ricordava ancora, un pomeriggio, durante la decima o la trentesima di quelle infinite sessione di sesso consumate insieme, la divina figura di Imogene sopra di sè, seduta su di sè, con le loro intimità dilatate a contatto, brucianti e tremanti di piacere, con l’uovo al loro interno già rotto, che rendeva la consistenza del contatto tra loro appiccicosa e vischiosa oltremodo, un elemento che rendeva il tutto ancor più eccitante.
Il dolore dei gusci d’uovo rotti che graffiavano le loro pareti passava del tutto in secondo piano, divenuto abituale e passabile.
Un nulla, confrontato all’intenso piacere che ne veniva.
Imogene la cavalcava con passione, come una guerriera, un’amazzone dalla bionda chioma selvaggia che le ricadeva addosso scompostamente, coprendole a volte i seni, talvolta lasciandoli scoperti, in una danza di “vedo non vedo” che faceva ogni volta perdere la testa a Myriam.
Myriam le poggiò le mani sui fianchi morbidi, stringendoglieli convulsamente, sull’orlo del piacere, mentre ella continuava a muoversi sinuosamente e con potenza.
Proprio mentre stava per raggiungere il culmine, Imogene, con gli occhi quasi rivoltati indietro per l’intenso godimento, immerse una mano nel recipiente colmo di sangue di capra e cosparse quel liquido dall’odore penetrante sopra il ventre di Myriam, e poi sopra il proprio, muovendo le dita e i palmi circolarmente intorno al proprio ombelico, in un movimento sensuale e provocante, per poi fare qualcosa che portò Myriam a venire seduta stante: avvicinò le dita sporche di sangue alla bocca e iniziò a succhiarle.
Quando entrambe si erano liberate dal piacere, sfinite, ansanti, felici e speranzose, come sempre, Myriam la guardò negli occhi, per poi posare distrattamente lo sguardo sul crocefisso al contrario appeso sulla perete dietro Imogene, il quale si era lievemente inclinato.
- Secondo te ci riusciremo davvero? Entrambe...?
- Certo che ci riusciremo. Entrambe.
“Ce la faremo entrambe”. Era oramai diventato un mantra tra loro.
Poi, dopo qualche mese che si conoscevano, si amavano, consumavano e tentavano assiduamente, accadde il miracolo.
Ma, disgraziatamente, accadde solo per Imogene.
Con Myriam, neanche il rito sciamanico aveva funzionato.
Quest’ultima cercò sempre di mostrarsi felice per lei, in quanto sentiva di amarla davvero e di gioire veramente per il successo avuto; tuttavia, non poteva fare a meno di morire dentro, ogni giorno di più, durante la gravidanza di Imogene,
Moriva dentro di rabbia, di frustrazione, di malinconia e di odio verso se stessa e verso il proprio ventre.
Verso la Natura, matrigna crudele.
Fu in quel periodo che le capitò spesso di ripensare a sua madre.
Imogene le continuava a ripetere che ci sarebbe riuscita anche lei, che avrebbero trovato insieme un modo alternativo.
Ma oramai Myriam aveva perso le speranze.
La sua unica rassegnata prospettiva oramai, consisteva nel crescere il figlio di Imogene con lei, fingendo fosse anche il suo.
Fortunatamente, stavolta, la gravidanza di Imogene procedette senza intoppi, e Myriam le stette accanto sempre, dandole forza e coraggio in ogni istante.
Ma le due non tirarono un sospiro di sollievo sin quando il piccolo miracolo non uscì dal suo ventre, gridando e urlando a pieni polmoni, sana e salva.
Una meravigliosa bambina in salute. Bella quanto Imogene. Bella quanto Maringlen e Maroine.
La bambina sembrava stare davvero bene tra le braccia di Myriam, quasi da addormentarsi meglio con lei, rispetto che con la propria madre.
Myriam stravedeva per lei, nonostante avesse solamente qualche settimana.
Riusciva già a vederla grande, a immaginarla chiamarle “mamma” entrambe, come fossero tutte e tre una cosa sola.
La sua felicità non le fece rendere conto di qualcosa che stava gradualmente avvenendo e mettendo pericolose radici nel cuore della donna che amava.
Imogene era sempre più buia e tetra, man mano che le settimane passavano.
Myriam non riusciva proprio a comprendere come mai non traboccasse di felicità come lei per aver ottenuto finalmente ciò che desiderava da tutta una vita. Giustificò il suo atteggiamento attribuendolo alla stanchezza del doloroso e difficoltoso parto, non dandogli importanza e facendole ombra con la propria felicità.
Effettivamente, Imogene stava per perdere la vita durante quel tremendo parto.
Eppure, ora erano vive, sane e salve entrambe.
Myriam non riuscì a comprendere cosa infettasse e covasse il cuore di Imogene.
Non comprese mai, neanche quando una sera si ritrovarono da sole mentre la piccola dormiva placidamente.
Myriam le si sedette accanto e notò che gli occhi di Imogene fossero fissi e lucidi sulla pianta che cresceva sempre più.
- Non credevo che essere madre fosse così – sussurrò solamente, con voce stanca, rotta, distorta.
- E come credevi che fosse? – le domandò, non ricevendo mai risposta.
Poi cominciò l’estraniamento tra madre e figlia.
Qualcosa che addolorò Myriam fino a farle passare notti insonni, flagellandosi la mente nel chiedersi il perchè Imogene si comportasse così: quando doveva darle il latte e la bambina faceva i capricci, Imogene perdeva la pazienza immediatamente e la allontanava da sè, lasciandola piangere a squarciagola; non capiva i suoi bisogni, non sapeva quando aveva freddo o caldo, quando aveva fame o voleva dormire, quando doveva essere cambiata o lasciata in pace.
Era come una totale estranea per lei.
Il dettaglio che avrebbe sicuramente dovuto allarmarla di più, ma al quale non prestò attenzione, esattamente come agli altri, fu che Imogene rimandasse sempre la scelta dei nomi di sua figlia.
- Quali saranno i suoi due nomi? – le chiedeva spesso Myriam.
- Non lo so ancora – le rispondeva sempre Imogene con noncuranza.
Eppure entrambe non conoscevano rispettivamente il primo nome dell’altra.
Myriam riflettè su ciò, più di una volta.
Amava Imogene e avrebbe voluto conoscere il suo primo nome di battesimo, per poterla chiamare più intimamente, per avvicinarsi ancor di più a lei.
Ma Imogene non glielo aveva mai detto e non era intenzionata a farlo.
E lei invece?
Lei non glielo aveva detto non perchè non volesse, ma semplicemente perchè lei stessa non ricordava quale fosse il suo primo nome.
Il suo primo nome lo conosceva solo sua madre ed era il nome con cui la chiamava sempre quando era bambina, prima che morisse, e lei ricordava che la chiamasse con quel nome.
Ma, per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare quale fosse il nome.
L’unica altra persona che potesse conoscerlo era il monaco che l’aveva fatta nascere, ma lei aveva tagliato ogni contatto con i monaci da quanto questi avevano fatto ammazzare sua madre a sangue freddo, su quel soppalco.
Dopo la sua morte, Myriam era cresciuta per strada per qualche anno, senza incontrare nessuno che volesse prendersi cura di lei.
Aveva vissuto da sola e abbanonata a se stessa, sin quando non aveva incontrato la famiglia Rolland e aveva aiutato Heloisa a partorire Blake.
Da quel giorno, era stata sempre con loro.
E quando era accaduto quel che era accaduto con Heloisa, e questa l’aveva costretta ad andarsene minacciandola di morte, era scappata ancora, come aveva sempre fatto, unendosi alla compagnia.
Ed ora non sapeva ancora il suo primo nome, non sapeva ancora chi fosse.
Le settimane passavano e Imogene continuava ad alienarsi sempre di più.
Passava notti insonni, in cui Myriam la sentiva piangere sommessamente.
Non la riconosceva più.
Era come se, dalla nascita della bambina, non fosse più lei.
Myriam iniziò a preoccuparsi, ma iniziò a farlo troppo tardi, quando oramai il cuore di Imogene era una pozza sofferente e troppo colma di una serie di emozioni buie e negative impossibili da cacciare via.
Poi, una notte, accadde.
Accadde ciò che fece desiderare a Myriam di vedere morta la donna che amava.
L’evento che la portò ad odiarla come aveva odiato Heloisa.
Un rumore strano svegliò il sonno di Myriam, la quale ritrovò il giaciglio che condivideva con Imogene vuoto della presenza di quest’ultima.
Si alzò in piedi e camminò, fin quando non si paralizzò, dinnanzi alla visione che le si presentò davanti: Imogene era seduta e piangeva disperata, mentre abbracciava il feto grigio e spento disseppellito dal vaso.
Il tavolo era cosparso di terra e di capelli che si era strappata via.
Ma il primo pensiero di Myriam andò subito alla bambina, che giaceva nella culla di fianco a lei.
La giovane strega si fiondò dalla piccola, e la trovò immobile, con una cera cerulea, la pelle dura e fredda, gli occhi orribilmente aperti e vitrei, il nasino che non emetteva più alcun respiro.
- Che cosa ... che cosa hai fatto, Imogene?
- Non la smetteva più ... non la smetteva più di piangere ... non la sopportavo ... non ce la facevo più.
Non ce la facevo più ...
Non ce la facevo più ... – ripetè piangendo disperata, fuori di sè.
Poi, pronunciò una frase che fece agghiacciare Myriam ancor di più:
- Volevo essere la madre del mio bambino – sussurrò abbracciando stretto il feto che aveva tra le braccia.
Da quel giorno, Myriam giurò solennemente a Imogene che, se mai l’avesse rivista, l’avrebbe uccisa.
Dopo di che, se ne andò via da quella casa e non la rivide mai più.
La sua vita andò avanti con le streghe e gli stregoni della compagnia, e pian piano si dimenticò di lei.
Il volto di Judith era immobile, esterrefatto, in seguito a quel racconto.
Improvvisamente, malgrado la parte finale della storia avesse catturato la sua attenzione più di tutte, come lo sarebbe stato per chiunque, la mente di Judith si catalizzò su un’informazione in particolare, ricevuta all’inizio, e che l’aveva fatta tremare di rabbia da capo a piedi.
- Voi ... voi sapevate della maledizione di Imogene. Eravate l’unica a sapere che Imogene avesse lanciato una maledizione per proteggere i gemelli da chiunque minacciasse la loro vita! – esclamò infuriata, rialzandosi in piedi. – Siete stata voi! Siete stata proprio voi a minacciare la loro vita, pur sapendolo! Avete costretto padre Cliamon a togliere la vita ad uno dei due, altrimenti li avreste uccisi con le vostre stesse mani! Avete provocato voi la tremenda epidemia su Bliaint!!
- Lo so, e posso giurarvi che l’ho realizzato e me ne sono ricordata solamente quando tutto ciò era già avvenuto – le garantì la strega, addolorata.
- Come avete fatto a non ricordarvi di qualcosa di così importante??
- Quando ho scoperto che fosse stato proprio quel monaco a condannare mia madre, non ci ho visto più. Sono rimasta accecata dalla vendetta e ho smesso di riflettere, di pensare. Solo recentemente, quando l’epidemia era oramai svanita, mi sono resa conto del danno che ho provocato.
- Ho visto ... intere famiglie sterminate, soffocare nel loro stesso vomito e nella tosse.
La metà dei bambini che parteciperanno al mio spettacolo hanno perso un genitore, un fratello o una sorella a causa dell’epidemia!
Io stessa ho vissuto settimane nell’orrore che la mia vita e quella dei miei cari venisse stroncata prematuramente da quel flagello!
E, nel caso non ci abbiate pensato, vorrei informarvi che se Blake non fosse partito e non si fosse allontanato da Bliaint, si sarebbe potuto ammalare e morire anche lui a causa vostra!
E pensare che il villaggio voleva trovare un colpevole per la venuta dell’epidemia, e la colpa stava per ricadere su Blake! Il popolo credeva che la sua ricerca della polvere nera avesse fatto adirare i due signori...
Invece, era la maledizione di quella donna. La colpevole siete voi e voi soltanto!
- Lo so bene! Ora me ne rendo conto e, se solo potessi, tornerei indietro e non farei ciò che ho fatto.
Judith si calmò un po’, cercando di regolarizzare il respiro, ma non si risedette, del tutto intenzionata ad andare via il prima possibile. – E Imogene..? – ebbe il coraggio di chiederle. – Ora dov’è? Nutrite ancora del rancore nei suoi confronti?
A tale domanda, a Myriam tornò in mente la conversazione avuta con padre Cliamon solo il giorno prima, nel difinire le condizioni del loro patto:
- Allora? Volete dirmi il nome della persona a cui dovrò togliere la vita? – le aveva chiesto con un fil di voce, dopo essere usciti dalla cattedrale dei servi del Diavolo durante la veglia, e aver selezionato il giovane prescelto che avrebbe ospitato l’animo di padre Cliamon una volta a settimana.
- Imogene. Questo è il nome di colei che dovrete uccidere.
Myriam ritornò alla realtà, posando lo sguardo su Judith. – La vorrei morta. Con ogni fibra del mio essere.
A ciò, la fanciulla le rivolse uno sguardo a metà tra lo schifato, il deluso e il compassionevole.
Girò i tacchi e se ne uscì dalla propria stanza con un groppo in gola, lasciando Myriam da sola.
- Avevate promesso che mi avreste raccontato di lui!! Judith!! Tornate qui!! – sentì tuonare la voce della donna dietro di sè, ma chiuse gli occhi, ignorandola e continuando a camminare, non riuscendo a fare a meno di pensare a quanto sentisse di essere simile ad Imogene.
 
 
 
   
 
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