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Autore: Adeia Di Elferas    13/12/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Peggio per lui, che si è fatto prendere perché ha fatto la spia! Potessi accopparlo io con le mie stesse mani!” sbottò Giovanni Antonio Acquaviva, mimando in aria il gesto di strangolare Bernardino Del Guado.

Giulio Cesare da Varano, che aveva accettato quel breve e segreto incontro con il suo complice, scosse con forza il capo. Gli sembrava impossibile che Bernardino avesse confessato il loro progetto con Oliverotto Euffreducci, spiegandogli che presto i fuoriusciti di Fermo avrebbero avuto qualcuno di molto importante su cui fare affidamento, ma che non avesse fatto ancora il suo nome, quello dell'Acquaviva, e quello, ancor più pesante, di Giovanna da Montefeltro.

“Vedrete...” borbottò cupo il signore di Camerino, stringendosi nella sua cappa e guardando verso il vetro incrostato della stanza d'osteria in cui si trovavano lui e Giovanni Antonio: “Sono tutte mosse di strategia... Di certo Oliverotto sa già di noi, ma sta pensando a come usare questa notizia a suo favore.”

“E in che modo potrebbe usarla a suo favore, se non venendoci a prendere e uccidendoci?” chiese, stupefatto, l'Acquaviva: “Senza contare che, finché non verrà catturato Piersante Evangelisti, che era il nostro uomo di collegamento coi fuoriusciti, sarà difficile collegarci davvero a tutta questa storia...”

“La userà a suo favore dicendolo al papa. Stai pur certo che al Santo Padre non interessa avere tra le grinfie Piersante! Gli basterà la parola di quel traditore di Bernardino Del Guado! Questa sarà la scusa per darci addosso e strapparci tutto!” esclamò Giulio Cesare, esasperato dall'apparente pochezza mentale del suo socio.

L'Acquaviva, che era zio del Marchese di Bitonto, fece una faccia scettica, e poi, con un tono calmo che all'altro parve del tutto fuori luogo, commentò: “Quando abbiamo deciso di andare contro a questo araldo dei Borja, voi eravate tra i più ferventi sostenitori della bontà della nostra azione. Appoggiare i fuoriusciti di Fermo e rovesciare il nuovo governo messo in piedi in fretta e furia da Oliverotto era davvero un'idea degna di stima e lode. Quell'uomo è un bruto e un tiranno: se non altro la nostra umanità è stata alla base della nostra azione.” sottolineò l'uomo, sollevando anche l'indice, per dare più forza alle sue parole: “E io credo che la sia ancora. L'Evangelista era un manigoldo e uno spergiuro e l'ha dimostrato. Lasciamo che si prenda lui le colpe, e noi stiamocene buoni...”

Giulio Cesare stava ancora pensando a come fosse stato proprio lui, in un impeto di spavalderia, a pretendere che Giovanna da Montefeltro prendesse parte alla congiura, anzi, che ne fosse, forse, la maggiore fautrice. Era stata lei, con il senno di poi, a voler calcare troppo la mano, ad accelerare troppo i tempi... Ma il Varano chi poteva incolpare per questo zampino femminile che aveva intralciato il suo piano? Solo se stesso, se stesso e la sua smania di far pesare la parentela con la Montefeltro, madre di sua nuora, Maria Giovanna Della Rovere, vedova di Giovanni Della Rovere, uno dei più grandi oppositori di Alessandro VI...

Gli era parso, facendo così, di coprirsi le spalle e di rendere finalmente utile la presenza della moglie di suo figlio Venanzio nella loro famiglia...

Anche se l'Acquaviva stava andando avanti a parlare per conto suo, Giulio Cesare non si trattenne dal dire, a voce bassa, ma con una cupezza che ebbe il potere di zittire il suo complice: “Il papa farà di noi tutti quello che ha fatto a Imola e a Forlì due anni fa.”

“Non siate così negativo...” fece Giovanni Antonio, cominciando, però, a sudare, malgrado il freddo pungente di quella sera: “E poi... Se... Se l'avesse davvero voluto fare, l'avrebbe già fatto. È assurdo, davvero, quello che dite... Sembrate quei pazzi che pensano che i Borja vogliano addirittura conquistare la Toscana!”

Siccome il Varano taceva, l'altro si fece prendere da una strana frenesia. Era come se, dimostrando a parole l'errore del compare, potesse realmente prevenire un'azione violenta da parte dei Borja.

“A Imola e Forlì la situazione era tutta particolare...” minimizzò, agitando una mano robusta e tozza in aria: “Il papa voleva spazzare via quella meretrice della Sforza, perché dicevano che era dai tempi in cui lei viveva a Roma che aveva in animo di distruggerla... Non a caso, prese le sue terre, il Valentino se n'è tornato in Vaticano a bere e mangiare come il diavolo che è...”

Capendo che nell'Acquaviva la paura era tanta da renderlo miope, Giulio Cesare decise che non era il caso di continuare la conversazione. Si finse convinto dalle parole di Giovanni Antonio e poi lo salutò, promettendogli di restare reperibile tanto per lui, quanto per gli altri loro complici, a patto di essere ripagato con la medesima moneta.

Quando lasciò l'osteria da due soldi in cui lui e l'Acquaviva si erano incontrati, il Varano annusò l'aria che odorava di neve e si mise in sella, nel buio della notte, sperando di arrivare presto a ricongiungersi con gli uomini che l'avrebbero scortato fino a casa.

Si sentiva stanco e spaventato, ma in un certo senso era molto più tranquillo del previsto. La sensazione di avere una scure pendente sulla testa non lo atterriva più di tanto. Era qualcosa di così strano da lasciarlo quasi senza fiato, eppure, mentre intravedeva finalmente i due fidati soldati che l'attendevano sotto la neve sottile e gelida, gli venne da ridere. Lui, come tanti altri, si erano detti felici, anzi, entusiasti, quando Cesare Borja aveva spazzato via la Tigre di Forlì, riducendola in schiavitù e umiliandola pubblicamente, rendendo noto a tutta Italia cosa avesse fatto di lei, dopo averla spogliata – non solo metaforicamente – di tutto. E ora proprio tutti loro, tutti quelli che avevano segretamente brindato a quel feroce sopruso, si stavano avviando più o meno inconsciamente verso la stessa fine...

“Tutto bene, mio signore?” chiese uno dei due soldati, vedendo, alla luce biancastra di quella notte di neve, Giulio Cesare con un sorriso strano dipinto in volto.

L'uomo annuì e, dando un colpetto ai fianchi del cavallo, commentò: “Finché siamo ancora vivi, va tutto bene.”

 

Caterina era arrivata in convento da meno di un'ora, eppure le sembrava di essere alle Murate da mesi. Stava aspettando Suor Elena nello studiolo e, intanto, guardava fuori dalla finestra. I vetri colorati le rendevano difficile afferrare appieno il candore della neve in terra, ma quell'immagine le dava ugualmente una profonda malinconia.

Anche se era stata lei a chiedere con insistenza di poter tornare lì per poter incontrare Giovannino il più possibile, in un certo senso si sentiva come in prigione. Già la vita alla villa, per quanto comoda e piena di privilegi, le sembrava una costrizione... Quella delle Murate era proprio una sorta di purgatorio che si infliggeva volontariamente. Cercava di pensare ai lati positivi, ma ne trovava pochi.

L'attesa si stava prolungando più del previsto e, per ingannare il tempo, la donna si mise a pensare a quando Bianca aveva dovuto restare tra quelle quattro mura per mesi, in attesa che qualcosa cambiasse, vestendosi come una monaca e accudendo il fratello più piccolo e una nipotina che non aveva mai visto prima del suo arrivo a Firenze. Non doveva essere stato facile. Di rado accennava ad aneddoti riguardanti quel periodo e la Sforza non faceva nulla per invogliarla a farlo.

Ragionando su Bianca, la donna non poté non passare una volta di più a valutare il suo stato attuale. Quella gravidanza non sarebbe stata facile, se lo sentiva. Anche se fisicamente la figlia pareva stare bene – il medico mandato da Fortunati l'aveva rassicurata sulla fibra della ragazza, sostenendo che qualche fastidio in più era normale, essendo la prima volta che restava incinta – la Leonessa temeva per tutto il resto.

Anche se era la prassi, incontrare Suor Elena al suo arrivo in convento, Caterina quel giorno aveva desiderio di incontrarla anche per parlarle di Bianca. Non voleva entrare con lei nel merito del come e del perché fosse incinta, ma voleva capire se da lei poteva aspettarsi un aiuto.

Quando la Superiora alla fine arrivò, la milanese aveva in volto un sorriso molto particolare, che le era affiorato rievocando un breve scambio di battute avvenuto tra lei e la Riario poco dopo la visita del dottore.

“Che noia queste nausee...” aveva detto con uno sbuffo Bianca.

Caterina, ricordando come anche lei ne avesse sofferto all'inizio, aveva fatto un cenno d'assenso e poi, tornando con la mente a gravidanze più liete, rispetto alle prime, che invece aveva sopportato come una condanna, aveva commentato: “Però, almeno, è bello, quando si cerca di avere un figlio...”

La giovane era arrossita, ma poi, ridendo in risposta alle parole della madre, aveva soffiato un semplice: “Sì.” e tanto era bastato alla Tigre per rasserenarsi, certa che la Riario si fosse scelta davvero l'uomo che faceva per lei.

“Volevate vedermi subito... Scusatemi, se vi ho fatta attendere, ma avevo una cosa da risolvere con il giardiniere del convento.” fece Suo Elena, passando accanto a Caterina e andandosi a sedere sul suo scranno.

“Vi dà noia in qualche modo?” si informò, più per cortesia che per altro, la Tigre.

La Superiora sollevò appena il sopracciglio, come indecisa se rispondere o meno con sincerità, e poi optò per una giusta via di mezzo: “Diciamo che a volte va sgridato perché è troppo poco solerte, a volte perché lo è troppo.” poi sospirò e commentò: “Gli equilibri di un convento pieno di donne, molte delle quali veramente giovani, non sono facili da mantenere. Il mio lavoro è più complicato di quello che potete credere...”

La Sforza sollevò appena un sopracciglio, trovandosi abbastanza d'accordo con Suor Elena e chiedendosi se vi fosse poi tanta differenza tra la gestione di una comunità di suore di clausura e e quella di un gruppo di soldati spesso mezzi analfabeti e di rozza estrazione.

Per certi versi, concluse tra sé, probabilmente era stato più facile per lei a Ravaldino che non per la Superiora alle Murate.

“Volevate vedermi subito.” ripeté la monaca, questa volta con tono più fermo: “Posso sapere il perché? Se è per il vostro incontro con Madonna Salviati sappiate che ho già...”

“No, no, non è per quello.” si affrettò a dire Caterina, preferendo arrivare subito al nocciolo della questione: “So che vi ho già chiesto molto e che voi avete fatto e continuate a fare per me più di quanto io non meriti. Però c'è una cosa in più ancora che dovrei domandarvi.”

La Superiora parve incuriosita e al contempo preoccupata dal tono improvvisamente supplice della Tigre. Era vero che l'aveva conosciuta ormai vinta e ammorbidita, molto più docile e cauta nel parlare di quanto non fosse prima, o, almeno, così le avevano detto tutti, eppure quel modo di porsi così remissivo stonava con l'immagine che si era fatta di lei avendoci a che fare. Le parole pungenti e lo sguardo sulla difensiva avevano lasciato di colpo spazio a una voce più bassa e rotta e a due occhi persi e tristi.

“Che cosa vi serve?” chiese Suor Elena, rompendo il breve silenzio che si era creato.

“Mi serve la certezza di avere, tra qualche mese, un posto sicuro e una... Una levatrice fidata.” si risolse a dire la Sforza, abbassando lo sguardo.

Forviata dall'inveterata fama della Leonessa, la monaca la fissò per un lungo istante e poi i suoi occhi scesero verso il suo ventre. Quello spostamento di attenzione dal suo viso alla pancia non sfuggì a Caterina, che si rese conto di essere stata fraintesa. Era ormai abituata a considerarsi sterile, e in più, da che il Borja aveva fatto di lei ciò che voleva, nessun uomo l'aveva più toccata, dunque riteneva così assurdo pensare che qualcuno la potesse credere incinta da non aver nemmeno pensato di dover specificare con Suor Elena che la partoriente non sarebbe stata lei, ma sua figlia.

“Bianca – sospirò, sorprendendosi di quanto le risultasse difficile parlarne a voce alta – è incinta e dovrebbe partorire, se tutto va come deve, a ottobre o a novembre...”

La Superiora ascoltava in silenzio, perplessa come non mai da quella notizia. Aveva avuto modo di conoscere la giovane Riario e pur avendone scoperto lo stile di vita libero, le risultava difficile credere a quanto sentiva.

“Credevo – disse, senza riuscire a frenarsi – che la pozione la cui ricetta avete insegnato voi stessa a vostra figlia funzionasse.”

“Funziona, infatti.” si irrigidì Caterina, rendendosi conto di come la donna che aveva davanti conoscesse Bianca molto più del previsto: “Ma solo se la si assume.”

Suor Elena comprese finalmente la situazione e, ligia al suo ruolo, non volle fare altre domande, ma si offrì subito come sostegno: “Datemi qualche tempo per organizzare tutto, ma sappiate che vi sosterrò con ogni mezzo.”

“Mi fa molto piacere sentirvelo dire.” sorrise la milanese, mentre il cuore tornava a battere regolare e il laccio che le aveva chiuso lo stomaco le si allargava a poco a poco: “Mia figlia è giovane, e non ha un vero marito... La sua situazione è delicata. Se facessi venire una levatrice alla villa, qualcuno dei servi la vedrebbe e non sono tutti servi fidati... Che cosa direbbero? A chi, soprattutto, lo direbbero? Non posso permettermi che uno scandalo la travolga... E non posso nemmeno permettermi che pensino che la gravida sia io. Darei un pretesto a mio cognato Lorenzo per dire che vivo nel peccato e che non sarei mai e poi mai una buona madre per Giovannino, e troverebbe una volta per tutte il pretesto per levarmelo...”

“Non c'è necessità che aggiungiate altro.” la rassicurò subito Suor Elena, allungando una mano e posandogliela sul braccio: “Qui troverete sempre una casa sicura per voi e per i vostri cari.”

La Tigre avrebbe voluto abbracciare la Superiora, ma prima che potesse concedersi quello slancio di gratitudine, la donna cambiò bruscamente discorso.

“Ho fatto preparare per voi una cella confortevole, che potrete usare ogni volta in cui sarete nostra ospite – le disse, avviandosi alla porta e facendo cenno di seguirla – non è lussuosa, ma è un po' più comoda di quella delle altre...”

“Non dovevate disturbarvi tanto... Mi bastava una cella identica a tutte le altre.” sussurrò Caterina, standole vicina lungo il corridoio.

“Voi non siete una suora di clausura – la corresse Suor Elena, sollevando l'indica – e anche se dal nostro buon piovano Fortunati che a voi andrebbe bene anche un misero lettuccio da soldato, non posso dimenticare che siete stata una Contessa e che siete la figlia di un Duca.”

La Leonessa capì che non era il caso di contraddirla ulteriormente, così mormorò un ringraziamento e continuò a seguirla.

“Quest'ala delle Murate è tranquilla – le spiegò la Superiora, aprendo la porta della sua nuova sistemazione – ma appena lì avanti ci sono le celle delle consorelle più anziane, così non vi sentirete troppo isolata. Più tardi, se volete, manderò Suor Ubbidienza con vostra nipote Costanza.”

Caterina, che stava rimirando la sua cella, piccola, ma molto accogliente, la ringraziò ancora e, mal celando la sua scarsa voglia di vedere la piccola, rispose: “Va bene, la incontrerò volentieri...”

 

Alessandro VI si sentiva sollevato dall'aver già lasciato Roma alle sue spalle. Quel giovedì mattina gli sembrava che l'Urbe fosse più brutta che mai. Le sue vie strette e tortuose, la sua gente chiassosa, i suoi miasmi irrespirabili, perfino il gorgogliare stizzoso del Tevere, fiume che aveva inghiottito il suo figlio prediletto Juan, tutto, tutto gli risultava odioso.

“Speriamo che il tempo migliori...” borbottò Cesare, che cavalcava proprio accanto a lui: “Ci sono delle nuvole che minacciano pioggia e io non voglio trovarmi in nave con una tempesta...”

“Da qui a quando arriveremo a Corneto per salpare ne passa.” commentò a voce bassa il papa, trovando irritante le lamentele del figlio: “E poi per essere il diciassette febbraio, non c'è brutto tempo.”

Il Valentino fece uno sbuffo spazientito e di voltò verso i sei Cardinali che cavalcavano vicino a loro, cercandone l'appoggio.

Rodrigo trovò quell'atteggiamento infantile e sciocco e così, al solo scopo di zittire il figlio e di farlo rimaner male, esclamò, a voce tanto alta da farsi udire da quasi tutti i centocinquanta famigli che li seguivano sulla strada: “Proprio tu, che hai fatto la guerra sotto la neve di dicembre e di gennaio, non ti lamenterai per qualche goccia di pioggia febbraina!”

Quell'accenno alla campagna in Romagna mortificò Cesare, che, seppur vincitore, sapeva bene quanto avesse deluso il padre, con le lungaggini dell'assedio e con l'ingente perdita di uomini, non proporzionata a ciò che alla fine aveva ottenuto.

Il pontefice guardò di sottecchi il figlio, interpretando quel silenzio non come un segno di imbarazzo o colpevolezza, ma come un'ulteriore dimostrazione di arroganza.

“Ti credi di essere a una gita di piacere?” gli sussurrò, quasi in un ringhio, non appena riuscì a cavalcargli un po' più vicino: “Se mi sono scomodato di persona per andare fino a Piombino assieme a te, è perché la situazione è seria.”

“Certo, padre, lo so.” soffiò il Valentino, non riuscendo a mascherare adeguatamente il suo tono un po' annoiato.

“Se dovrai conquistare la Toscana, Piombino ti serve. E non posso permetterti di sprecare mesi e mesi, come hai fatto in Romagna.” borbottò il papa, accalorandosi: “E spero per te che quel maestro... Maestro Leonardo che hai voluto assoldare a tutti i costi sappia davvero quello che fa...”

“Mastro Leonardo è un grandissimo esperto di ingegneria militare e di fortificazioni, ve lo posso assicurare... A Milano ha...” cominciò a dire Cesare, in uno slancio spontaneo in difesa del maestro fiorentino, ma il padre lo frenò.

“Qualsiasi cosa abbia fatto a Milano, non è bastata a fermare i francesi.” lo liquidò: “Che faccia di meglio per noi, o per campare si troverà a dover badare a maiali e galline in qualche fattoria.”

Il Valentino non volle alimentare ulteriormente la discussione e così, dopo poco, con un pretesto, disse che avrebbe raggiunto temporaneamente la coda del corteo e si dileguò.

Rimasto relativamente solo, il papa continuò a rimuginare sulle grandi spese che stava facendo, sia per finanziare quel viaggio, sia per l'ingaggio, appunto, di quel maestro fiorentino di cui il figlio pareva entusiasta. Aveva promesso loro bastioni, rivellini, torri, mura, fortezze, strade coperte, porti, rocchette... Troppo di tutto, secondo Rodrigo.

Aveva sentito dire che anche a Milano era arrivato promettendo fuoco e fiamme e, quando se n'era andato, alla chetichella, si era lasciato alle spalle poco più di un mucchietto di cenere spenta.

Con un sospiro, assecondando il cavallo che lo portava, ma maledicendosi per non aver voluto un più comodo carro coperto, il Borja lasciò libera la mente di vagare e, come sempre, essa andò di corsa al ricordo della sua Lucrecia.

Aveva letto missive entusiaste circa il suo incontro con Alfonso. Aveva sofferto come un animale ferito nel leggere di come lui l'avesse fatta sua più e più volte e, soprattutto, di come lei avesse ricambiato tale entusiasmo con gioia. Anche se lo rincuorava saperla felice, lo tormentava saperla felice con un altro uomo e, soprattutto, lontana da casa...

“Vostra Santità, state bene?” la domanda, del tutto innocua, anzi, quasi affettuosa, uscita dalle labbra del Vescovo di Narni, suonò, alle orecchie del papa, come invadente e indesiderata.

“Stavo pensando alle navi che ci attendono a Corneto – mentì – quante avete detto che saranno, alla fine?”

L'uomo, che non ne sapeva molto, si confrontò con altri Vescovi che gli stavano cavalcando vicino e poi rispose: “Come avete ordinato voi: sei galee, con equipaggi formati in parte da cittadini romani volontari e in parte da detenuti romani, quasi tutti, ovviamente, condannati per reati lievissimi.”

Rodrigo annuì, fingendosi molto compiaciuto. In fondo era stato lui a chiedere che fosse così, per una questione di sicurezza.

“Pescatori? Boscaioli?” indagò il pontefice, permettendosi di concentrarsi veramente su quei dettagli, lasciando finalmente un po' da parte lo spettro della sua amatissima Lucrecia: “Ne avete trovati in buona quantità, mi auguro...”

“Tanti e volonterosi: tutti imbarcati come avete richiesto.” assicurò il Vescovo e, cullato da quelle parole ossequiose, finalmente il papa si permise di rilassarsi e riuscì anche a non irritarsi troppo quando, più tardi, il figlio Cesare gli tornò accanto, lamentandosi ancora del freddo e del cielo che minacciava pioggia.

 

   
 
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