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Autore: settembre17    15/12/2021    12 recensioni
“Nessuno mai sulla terra
ha scoperto da parte d’un dio
un segno certo di ciò che sarà;
la cognizione del futuro è cieca.
Molte cose succedono agli uomini
contro il piacere; altri s’imbattono
in un vortice di pene
e mutano in breve il male
in un bene profondo”
(Pindaro, Olimpica XII)
Il temutissimo (per chi scrive) finale dell’episodio 28 e l’inizio dell’episodio 29. Da qui parte questa piccola storia. Nei primi capitoli il tempo scorre molto lentamente, più all’indietro che in avanti, poi la vicenda procederà secondo una strada diversa da quella originale.
Come sempre nei miei racconti, più introspezione che avventura.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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È un capitolo lungo e me ne scuso, ma proprio non si poteva spezzare.
Qui, in mezzo a un turbinio di pensieri, André si dedica anche al what if? e Oscar, col suo piglio deciso, dice addio.
Non succede niente, o forse succede tanto. A voi il giudizio!
A chi legge, a chi commenta, a chi segue, sempre e sempre grazie.
 

CAP. 4 Tornare indietro per andare avanti

 
André guardava i gabbiani e i gabbiani volavano sul mare con giri ampi e lenti. La giornata volgeva al termine e lui sentiva con piacere che il suo corpo era stanco, stanchissimo. Quella notte avrebbe dormito bene, pensò.
Era in Normandia da quindici giorni e stava sperimentando una solitudine che in alcuni momenti lo straziava, in altri lo rendeva lucido come mai gli era accaduto di essere. Cercava di svolgere gli incarichi che gli erano stati assegnati dal generale al mattino e nel primo pomeriggio, sfruttando le ore di luce in modo che il suo occhio non si dovesse sforzare eccessivamente. Poi, una volta libero, cavalcava in riva al mare, oppure camminava sulla spiaggia seguito dal cane dei custodi della villa, che gli scodinzolava tra le gambe e gli portava pezzi di legno perché lui li lanciasse lontano. A volte correva anche lui e incitava il cane, che mugolava di piacere per quell’umano che giocava con lui. E André sentiva il suo corpo come mai l’aveva sentito: libero, agile, scattante, obbediente a qualunque suo desiderio, che fosse correre, incitare il suo cavallo al galoppo, camminare fino ai punti più lontani all’orizzonte, un corpo resistente al freddo, al vento, un corpo forte. Anche l’occhio non l’aveva più tradito e, anzi, gli pareva che le cose intorno a lui gli rivelassero sempre più particolari. Forse il dottore aveva ragione, il riposo gli faceva bene.
 
Aveva impiegato qualche giorno per capire quella inattesa esplosione di vitalità, che gli pareva così in contrasto con i suoi pensieri, spesso inquieti, e con i suoi sentimenti, troppo spesso dolorosi. Il fatto era, però, e questo André faticò molto ad ammetterlo, che quella sera, quella sera che lui aveva maledetto mille volte, si era rivelata anche una sera benedetta per lui. Quella sera, inutile negarlo!, lui si era liberato di un peso che portava con sé da vent’anni: l’amore segreto che custodiva nel suo cuore, che non doveva essere rivelato a nessuno, che non doveva essere intuito da nessuno, che non doveva essere sospettato da nessuno, che non doveva manifestarsi e che anche lui stesso cercava di seppellire sotto i gesti della quotidianità era invece esploso e finalmente era stato confessato.
A lei.
Ora non aveva più segreti, ora lei sapeva tutto.
E il suo corpo si sentiva liberato, riconoscente per quel fardello troppo a lungo celato e ora finalmente rimosso.
André respirò l’aria del mare facendola entrare nei polmoni, aprendo il petto e allargando le spalle.
Poi all’improvviso si incupì.
Certo, la possibilità che proprio per questo lei lo allontanasse per sempre c’era; la possibilità che lei, per ignorare quell’amore, decidesse di ignorare anche lui si era concretizzata l’ultima volta che l’aveva vista: era di spalle, aveva detto “preferisco dimenticare”, i tacchi, che nervosi battono sui fianchi del cavallo, e infine lei che sparisce.
Ma davvero si sarebbero ignorati per sempre? Non gli pareva possibile.
 
Forse stare lontani era necessario, forse sarei dovuto venire qui prima, pensò un giorno camminando sulla spiaggia.
Per uscire dalla routine, dalle giornate sempre uguali, dalle frasi di circostanza e dai silenzi assordanti… “Per quanto tempo ancora avremmo potuto continuare così?”
Si sentì quasi riconoscente verso il generale che l’aveva spedito lì in fretta e furia.
André stava iniziando a comprendere che quella lontananza forzata poteva essere un’opportunità, ma non l’opportunità a cui il generale aveva accennato, no: nella solitudine della Normandia, André realizzò che gli era stata data l’opportunità di scegliere ancora lei. Tornare o non tornare più? La risposta era una sola: tornare, tornare da lei.
E allora anche il fatto che lei l’avesse congedato era un’opportunità, si disse.
“L’opportunità di dimostrarti che sto vicino a te perché lo voglio, non perché devo.”
Poi si accorse che in tutti quei pensieri aveva trascurato qualcosa di importante, anzi di fondamentale e avvertì come uno schianto nel cuore.
Sorrise di sé stesso con amarezza: “Bravo, André, bravo. È vero, ti ha detto che non ce l’ha con te, peccato però che lei ti abbia congedato, peccato che lei non voglia te.”
Ma davvero non lo voleva? Si fermò a guardare le onde e si tirò il bavero della giacca sul mento. Si concentrò sul rumore dell’oceano per zittire una voce, fioca ma insistente, che da sempre, da quando erano ragazzi che si prendevano a pugni, sentiva in fondo, in fondo al cuore. Quella voce stava dicendo:
“non sei mai stato solo un attendente… anche lei, anche lei… e forse… adesso che sa… forse…”
Coprì quella voce con un fischio prolungato al cane e tornò a casa.
 
Ma la sera arrivava la parte più difficile della giornata, specialmente quando si avvicinava quell’ora. L’ora in cui lei gli aveva detto:
“non ho più bisogno di te”
La riviveva con un tormento ogni sera diverso: a volte prevaleva il ricordo dello schiaffo, di lei furiosa, furiosa contro di lui; altre volte aveva la meglio il rimorso per quello che le aveva fatto, il disgusto di sé per averla trattata con quella brutalità; altre volte si concentrava su quella follia di lei che vuole essere un uomo, come se bastasse volerlo per esserlo!
Ma poi, sempre, tutte le sere, quando ormai nella bottiglia non rimaneva più niente e lui poteva misurare nel silenzio che lo circondava la sua solitudine, lo sommergeva un languore senza fine.
Gli mancava da morirne.
Mancava al suo corpo, mancava ai suoi sensi: vederla, ascoltare la sua voce, sentire il suo odore, la concretezza del corpo di lei che occupa lo spazio intorno a lui… a volte si alzava in piedi di scatto e placava quel desiderio di averla vicino uscendo sul terrazzino della sua stanza a torso nudo. Quando, dopo qualche minuto, finalmente avvertiva il freddo penetrare al di sotto della sua pelle e sentiva che i battiti del cuore non erano più così accelerati, la mente riprendeva possesso del corpo. E trovava le forze per disciplinarsi, per prepararsi alle incombenze del giorno successivo convincendosi che un buon sonno l’avrebbe rimesso in sesto.
Ma per dormire era necessario stancarsi, molto. Che la stanchezza del corpo vincesse i tormenti del cuore e della mente.
Perché lei era sempre lì.
“Che cosa stai facendo, adesso, Oscar?”
 
Una notte, forse era sveglio, forse era un sogno, non lo sapeva nemmeno lui, si era immaginato tutta una storia alternativa su quella sera. Una storia così piena di dettagli da risultare quasi vera. Quasi.
In quella storia lei, dopo aver suonato il suo brano al pianoforte, dopo aver bevuto il tè, dopo aver appoggiato la tazzina sul piattino, gli diceva “Aspetta André…”, e in effetti gliel’aveva detto, ma… che cosa sarebbe successo se lei… se…
 
“Aspetta, André.”
“Che cosa c’è, Oscar?”, lui tiene ancora il gomito appoggiato alla mensola del camino e la guarda, la sua snella figura intera davanti a lui, e cerca di prolungare quel momento tutto per loro finché può.
Lei appoggia la tazzina su un tavolino, poi gli dà le spalle ed entra di un passo nella sua alcova, ma un po’ trema e lui in quel momento se ne accorge e allora si avvicina, solo di un passo, perché non la deve toccare, lui lo sa. Però sente che c’è un’atmosfera diversa dal solito, che lei non lo sta allontanando, che non gli dirà “No, non è niente, buonanotte”, no, non questa sera. C’è ancora qualcosa che deve accadere, così lui aspetta.
E lei, con una voce sommessa che raramente lui le ha sentito usare, fa un sospiro grande, come se volesse far uscire dai polmoni tutto il dolore insieme all’aria, e alla fine mormora:
“Non ce la faccio più, André…” e ha la voce spezzata, ma ancora si tiene dritta e ancora non si volta perché ha pronunciato parole che non devono essere sentite davvero. Parole che domani negherà di aver pronunciato, anche a sé stessa.
E allora lui, sempre in silenzio ma tutto proteso solo e unicamente verso la sua sofferenza, fa ancora un passo verso di lei e così davanti ai suoi occhi non c’è più la sua figura intera, ma solo il busto di lei: la camicia bianchissima che ondeggia leggermente sui lati, la schiena coperta dalla massa dei suoi capelli in cui intravede incastrata una piccola foglia della pianta vicina alla scuderia, la testa leggermente chinata di lato.
“Posso fare qualcosa per te?”
Lo sussurra piano, le parole dell’abitudine, ma il tono della loro intimità.
Lei allora, sempre di spalle, scuote con energia la testa per dire di no e prende fiato per dire qualcosa, ma non può farlo perché insieme alla voce le uscirebbero anche lacrime, forse un singhiozzo.
E allora lui fa ancora un passo. E lei è sempre lì, non si muove, non si gira e non si sposta. Come se aspettasse. E lui ora vede solo i suoi riccioli biondi, quella piccola foglia tra i capelli, il lobo di un orecchio, intravede il profilo del naso. E sente: il tremito, il calore del suo corpo.
E poi lei fa l’impensabile: si sbilancia poco, pochissimo indietro, giusto quanto basta perché la sua schiena prima sfiori e poi si appoggi e aderisca al petto di lui. E allora lui, piano, con delicatezza, come se non fosse sicuro di poterlo fare, apre le braccia e la stringe così, con le braccia incrociate un po’ sopra il petto di lei, le mani chiuse sulle sue spalle e la guancia che ormai ha raggiunto quella di lei.
E lei allora si aggrappa alle sue braccia e sempre di spalle, sempre senza guardarlo, finalmente, piange.
 
Ma non era andata così.
Due pessimi giocatori, avevano sbagliato tutte le mosse. “Ma io di più”, si disse.
 
E così ritornava il disgusto per quello che le aveva fatto, e anche l’inquietudine per quell’altro André che all’improvviso aveva preso il sopravvento su di lui.
Il fatto era che André sapeva da tanti anni che il suo amore era fatto anche di desiderio, lo aveva imparato molto presto, ma era sempre stato capace di soffocare e contenere la sua passione: da ragazzo aveva provato a farlo con ragazze facili, che non volevano altro da lui che un po’ di piacere. Ma poi, crescendo, la curiosità si era esaurita, il piacere era diventato nauseante e la considerazione di sé stesso era precipitata. A nemmeno ventitré anni, André Grandier aveva messo una pietra sopra all’amore carnale. O meglio, aveva sentito chiaramente che non c’era alcuna bellezza in quello strusciare di corpi. Che ne poteva fare tranquillamente a meno.
Che per lui quella pagina si sarebbe riaperta solo con la donna che amava. O mai più.
 
Si rivide con quel pezzo di camicia in mano: “Dio, che cosa ho fatto?”
Provò lo stesso ribrezzo che aveva provato una delle prime sere dopo che era arrivato.
Da una settimana era lì, quando una sera il nipote del custode della villa, un ragazzo di neanche vent’anni, aveva tanto insistito per portarlo al villaggio a bere. E lui ci era andato, anche se di malavoglia: gli piaceva la sua solitudine, starsene solo con i suoi pensieri, immaginare, ricordare. Invece l’avevano trascinato in un posto chiassoso, una delle taverne più sudice della zona che lui e Oscar avevano sempre evitato, un posto pieno di gente che si dava appuntamento lì ogni sera per dare una raddrizzata a giornate troppo dure, troppo amare, troppo pesanti. E poi quel gioco di ruoli: maschi che adocchiano femmine, femmine troppo truccate che si fanno adocchiare da maschi troppo disinvolti… e poi mani, mani che palpano, che sgusciano sotto la stoffa, che coprono possessive e lascive il cavallo dei pantaloni… André aveva sentito con una crescente nausea che non era posto per lui:
“Io vado, torno a casa”, aveva detto al ragazzo.
“Ehi! Che c’è? Non vuoi divertirti un po’?”
No, non voleva divertirsi, nulla in quella locanda lo divertiva. Aveva aperto la porta e se ne era andato.
La frescura della sera lo aveva ripulito da tutto quel fumo e da quell’odore stomachevole che aveva respirato ed era tornato con la mente a lei, a quel pezzo di camicia che aveva stretto tra le mani quella dannata sera: no, nemmeno quella sera si era divertito. Nemmeno per un istante. Non gli era piaciuto niente di quella sera, niente.
Si era messo a correre per mettere a tacere i pensieri ed era arrivato alla villa con il fiatone.
Non ti farò mai più una cosa del genere, te lo giuro.
“Non ti toccherò mai più. Le mie mani resisteranno, non si avvicineranno più a te. E anche io resisterò, resisterò, Oscar. Ma se un giorno lo vorrai, se un giorno qualcosa ti porterà da me, queste mani saranno tue, solo tue.”
 
**********
 
Quelle due scatole erano il segreto di Oscar François de Jarjayes. Un segreto di cui si sarebbe vergognata davanti a chiunque e che custodiva da anni nella sua biblioteca, in un’anta chiusa a chiave che nessuno a parte lei avrebbe mai aperto. Perché se qualcuno l’avesse aperta e se avesse trovato quelle due scatole e, infine, se le avesse aperte, avrebbe visto tutta la sua fragilità solo con uno sguardo.
Teneva la chiave nella tasca dei pantaloni e si sorprese più volte a rigirarsela tra le dita provando una sorta di strana attrazione per il segreto che quell’anta custodiva.
 
“Il camino in biblioteca è acceso, signore. Ora sistemo anche questo che si sta spegnendo.”
“…mh…?”
Non si era nemmeno accorta che era entrato un cameriere. Era così assorta… lo era spesso, in effetti.
Erano passati quindici giorni, ma veramente li aveva contati?, e a volte le sembrava impossibile che il tempo continuasse a scorrere come prima, indifferente a quello che era successo nella sua vita.
Che poi, che cosa era successo? Niente!
Le sue giornate, vuote dei soliti incarichi, trascorrevano nell’attesa di prendere servizio a Parigi; durante una serata al circolo militare, una delle idee di Girodelle invitarla lì: “Ci sono persone che vi devo presentare, madamigella. Persone che sarete contenta di conoscere. Vi prego, non dite di no”, le era stato presentato il comandante uscente dei soldati della Guardia, che non le era piaciuto, e sempre quella sera aveva conosciuto il colonnello d’Agoult, che le era piaciuto, che invece sarebbe stato il suo diretto sottoposto. Si era fatta dare da lui gli elenchi dei soldati del reggimento e quelli dei sottufficiali, aveva studiato le note di merito e di demerito dei soldati e ora conosceva a memoria nomi e cognomi di tutti.
Sorrise e si complimentò con sé stessa, si sentiva nata per quella vita.
Suo padre poteva essere orgoglioso di lei; ma suo padre non le parlava. Suo padre non era mai in casa, oppure era di fretta. Come se la stesse evitando di proposito.
“Vi ho deluso, padre? Non sono abbastanza blasonati questi soldati che comanderò? O forse mi evitate perché non volete che vi chieda di…” sorrise amaramente guardando il cameriere che da qualche minuto lottava con il camino del salotto perché il ceppo di legna prendesse fuoco.
Aveva provato a indagare sull’incarico in Normandia di André, ma, un po’ per non mostrare eccessivo interessamento, un po’ per non sentire cose che non voleva sentire, si era accontentata di quello che le aveva raccontato Nanny dopo che era arrivata una breve lettera di André un paio di giorni prima:
“Dice che sta bene, che tornerà entro la fine del mese… Una lettera così breve…”
Ora iniziava ad accorgersi che non le bastava più:
“Che cosa gli avete detto, padre?”.
“Che cosa stai facendo, André?”
 
Da giorni poi avvertiva che in quella perfetta vita da uomo le mancava qualcosa, o meglio, qualcuno. Ed era inutile che Girodelle e Jacques continuassero a girarle intorno, non potevano assolutamente riempire lo spazio lasciato libero da…
“Fersen…” mormorò come faceva un tempo. Niente. Attese qualche istante, poi lo disse ancora:
“Fersen…” Niente, nessuna emozione nel suo cuore. Solo un vago imbarazzo le fece abbassare lo sguardo e la costrinse a spostarsi dal vetro che rifletteva fiocamente la sua figura.
 
Allora si rimproverò per la sua debolezza, raddrizzò la schiena, aprì le spalle e poi infilò la porta con passi lunghi e decisi; quando arrivò alla scalinata ormai quasi correva e sicuramente stava correndo quando percorse il corridoio del piano nobile fino ad arrivare alla porta della biblioteca in cui entrò di slancio per poi chiudersi la porta alle spalle con decisione.
Andò diretta verso la parte bassa della libreria, quella quasi coperta dal tendone vicino alla finestra, prese una piccola chiave dalla tasca, si inginocchiò, aprì l’anta, estrasse due scatole che appoggiò, ancora una sopra l’altra, sulla scrivania di fronte alla finestra.
Si avvicinò alla vetrinetta dei liquori, versò del cognac in un bicchiere, poi si sedette alla sedia della scrivania e fissò la scatola più in alto.
 
Teneva la scatola rossa sulle ginocchia, ancora chiusa. C’era una certa ironia nel fatto che quella scatola aveva contenuto un tempo un regalo di Sua Maestà la regina e che ora conteneva…
Sorrise con amarezza e allungò la mano verso il bicchiere, bevve un sorso di cognac e poi si lasciò portare dai ricordi a un Natale di tanti, tanti anni prima. Erano gli anni in cui a corte le dame ascoltavano una sola donna: Madame Bertin. Arrivava con le sue commesse che reggevano pile di scatole di vestiti e accessori per la regina e per le sue dame di compagnia, che si contendevano piume e merletti con un’animosità e cattiveria che lei aveva raramente visto. Ricordava un barone che una sera durante un ballo nel fumoir aveva detto: “Se volete vedere persone spietate e disposte a tutto, non dovete andare nei bassifondi, mio caro duca, ma nel salotto di Sua Maestà la Regina quando arriva Madame Bertin!”.
Una volta André,
 
…André… André…, io ti amo, Oscarcredo di averti sempre amata
 
una volta, insomma, lui le aveva raccontato che la contessa di Polignac aveva mandato di nascosto una sua cameriera a rompere due stecche di un ventaglio, portato da Madame Bertin e ancora confezionato nella sua scatola, destinato a un’altra dama di compagnia della regina e lui,
 
… AndréAndréAndréAndré…, serrò gli occhi, poi scosse la testa e li riaprì,
 
le aveva raccontato che la contessa, nel congedare la cameriera, le aveva sussurrato: “E bada di non sbagliare, e di non farti scoprire. Ricorda che io conosco quella topaia in cui abitano i tuoi genitori…”
Pensò con sollievo che non avrebbe più messo piede a corte.
 
Poi tornò a guardare la scatola e si immerse nel ricordo: quel Natale la regina aveva tanto insistito perché lei accettasse un regalo e aveva voluto consegnarglielo di persona.
“Madamigella Oscar, decidete voi se preferite che sia un regalo di compleanno o un regalo di Natale, ma permettetemi di ringraziarvi con un piccolo dono per tutto quello che fate per me.”
Così aveva ricevuto tra le mani quella scatola rossa e dorata e l’aveva aperta con un sorriso leggero e pieno di riconoscenza e commozione: aveva visto, tra la paglia che riempiva il fondo, un paio di guanti di capretto, bianchi, foderati all’interno di velluto color glicine. Erano bellissimi. “Ho chiesto a Madame Bertin di farli appositamente per voi, madamigella, spero che vi piacciano.” Lei si era inginocchiata e aveva ringraziato, commossa per il dono. Forse per la prima volta aveva compreso la vanità femminile. Li aveva usati per anni, li indossava ancora ogni tanto come guanti di scorta dal momento che ormai si erano scuriti e in qualche punto consumati.
Aveva conservato anche la scatola. E l’aveva riempita.
 
La scatola del regalo della regina… era piena di resti dei regali di Fersen.
 
Scosse la testa dandosi della stupida, poi sollevò il coperchio e guardò: davanti ai suoi occhi un insieme confuso di biglietti e di tappi di sughero.
I regali di Fersen.
Ogni anno, il giorno della Vigilia di Natale, dal palazzo del conte di Fersen arrivava puntuale un cameriere in livrea azzurra e, tutto sussiegoso, consegnava una cassa di legno chiaro e una busta indirizzata “al Conte Oscar François de Jarjayes”. E lei, stranamente emozionata, ogni Natale aspettava l’arrivo di quella cassa e di quel biglietto e poi, durante le feste, quando almeno una bottiglia del pregiato champagne veniva stappata per un brindisi di fine pasto, magari la sera di Capodanno, lei, furtiva, recuperava il tappo rotolato sul tavolo o per terra e lo infilava in tasca. Ricordava che una sera di qualche anno prima, quando lui era in America ma la cassa era comunque arrivata puntuale come sempre, era andata a letto e aveva annusato quel tappo tra le lenzuola tenendolo stretto tra le dita, e al mattino l’aveva recuperato tra le coperte. Si era sentita molto sola. Poi era andata a riporre il tappo nella scatola rossa, dove aveva raggiunto tutti i tappi degli anni precedenti. E sempre in quella scatola aveva messo il biglietto di auguri, legandolo con una corda sottile a tutti gli altri.
 
Sospirò ancora e prese tra le mani i biglietti, tolse la corda che ormai si era quasi consumata e li sfogliò lentamente uno dopo l’altro: li conosceva a memoria, li aveva letti e riletti, a caccia di un segnale, di un indizio, di un qualunque incoraggiamento a sperare. Si era emozionata quando lui era passato, molti anni prima, dal firmarsi “Conte Hans Axel von Fersen” al più informale “Hans Axel von Fersen” e poi, poco prima di partire per l’America, al semplice “Fersen”. Ma in quei biglietti non aveva mai trovato altro che “stima”, “ammirazione”, “amicizia”. Del resto le regalava ogni anno una cassa di vino, i tappi di sughero erano lì, beffardi nella scatola di Maria Antonietta, a ricordarle che se Fersen avesse mai visto in lei una signora non le avrebbe di certo regalato una cassa di bottiglie di vino.
E anno dopo anno lui le dimostrava implacabilmente che non l’avrebbe mai, mai!, vista come una donna da amare, che lei era il “suo migliore amico”, che in lei cercava la complicità di una virile amicizia, non l’intimità di una compagna di vita e di letto.
Più lui la vedeva come un uomo, più lei si sentiva infastidita. Avrebbe voluto urlarglielo in faccia che lei era una donna! L’avrebbe anche preso a schiaffi in certi momenti, quando lui, senza nemmeno accorgersi di quanto fosse indelicato, buttava là frasi come “non vi sentite mai a disagio?”. Ma una parte di lei, una parte che aveva provato a zittire mille volte, non sentiva ragioni e voleva disperatamente l’attenzione di quell’uomo, come se solo quell’uomo potesse legittimare la sua femminilità. E così, visto che lui proprio non capiva e non andava oltre quello che vedeva, aveva voluto fargli vedere che era donna nel modo più esplicito che poteva: si era lasciata vestire, truccare e pettinare, pettinare… ebbe un sussulto e deglutì, pettinare come una dama, e in un gioco che solo lei stava capendo, aveva nascosto il colonnello sotto l’aspetto della bellissima dama in cui per una sera si era trasformata. Ma lui non aveva capito e quando infine, dopo molto ballare e troppo chiacchierare, aveva finalmente intuito la verità, non era riuscito a riunire in un’unica persona il colonnello e la dama. E così era finito tutto: tra le lacrime.
 
Gli aveva detto addio. Due volte.
La prima volta era da sola e l’aveva detto alla notte e al suo cuore di donna: piangeva e si era detta che doveva dimenticare quell’uomo che non l’avrebbe mai amata. Era appoggiata al bordo di una fontana, con addosso un vestito che ora trovava imbarazzante.
La seconda volta l’aveva detto a lui ed era stata straziante: aveva giocato a carte scoperte, ma poi aveva dovuto dargli le spalle, perché non poteva pensare di guardarlo negli occhi mentre gli confidava il suo amore e perché lui non doveva vedere le sue lacrime.
 
“Decisamente troppe lacrime”, disse rivolta alla scatola.
 
Appoggiò la scatola rossa sul tavolo, si alzò e si avvicinò alla finestra.
Più Fersen la vedeva solo come un uomo, più lei si sentiva infastidita.
Più André le ricordava che era una donna, più sentiva montare una rabbia sorda dentro di sé.
Si sentì confusa, incoerente, ingiusta.
 
Io ti amo, Oscar.
Mi hai mai visto come un uomo, André?
 
Credo di averti sempre amata.
Anche quando ti ho fatto male, André?
 
Si stupì di quanto il pensiero di Fersen fosse lontano da lei, di quanto la sé stessa innamorata di Fersen le fosse estranea.
E così, senza un’esitazione, con il suo tipico piglio deciso, prese tra le mani la scatola, si avvicinò al camino e poi, ad uno ad uno, fece cadere i biglietti tra le fiamme; infine, senza esitare, buttò nel fuoco anche i tappi di sughero, tutti tranne uno.
Non c’erano lacrime nei suoi occhi, solo un po’ di malinconia mescolata a uno strano senso di pace.
 
“Ora è davvero un addio, Fersen. E non fa male.”
 
Chiuse la scatola rossa con dentro l’unico tappo rimasto, la mise nello scaffale, ma la ripose in fondo al ripiano più basso, spostando dei vecchi disegni conservati lì alla rinfusa da anni. Li prese in mano, li guardò distrattamente e infine con noncuranza li appoggiò sulla scatola rossa. Chiuse l’anta e lasciò nella piccola serratura la chiave.
Non c’erano più segreti lì dentro, solo il ricordo di un tempo ormai lontano.
 
Poi da lì guardò la scatola color carta da zucchero che era ancora sulla scrivania.
“A noi due”, mormorò; la prese e, reggendola con il braccio e con la mano contro il fianco, si incamminò verso la sua camera da letto.
   
 
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