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Autore: holls    16/12/2021    7 recensioni
Alan ha solo venticinque anni quando la vita decide di giocargli un brutto tiro; il dolore e lo sconforto appiattiscono la sua esistenza, rendendola grigia e monotona, tanto da domandarsi se sia degna di essere vissuta.
Diviso tra casa e lavoro, osserva le sue giornate scorrere come un encefalogramma piatto, finché, una mattina, una rapina nel cuore di Manhattan lo costringerà a interrogare Nathan, uno dei testimoni.
Alan non tarderà a definirlo un ragazzino irritante per la sua vitalità e spregiudicatezza verso il mondo, per non parlare della malizia che sembra trasudare da ogni occhiata. Sembrerebbe l'occasione per riportare un po' di colore nella sua vita... ma, come in ogni storia che si rispetti, niente è come sembra.
Per nessuno dei due.
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Genere: Introspettivo, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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14. Amicizia

 

 

L’aria nell’ufficio di Edmond era irrespirabile.

La nuvola del sigaro gli ondeggiò sopra la testa, andando a coprire il cartello con la scritta “Vietato fumare”, che forse esponeva lì solo per bellezza. Il condizionatore succhiava l’aria e la risputava fuori, e le finestre erano ben chiuse. Di fatto, eravamo prigionieri di quella cappa nera.

Scosse appena il sigaro e briciole di cenere si adagiarono sul mucchietto già presente.

«E questo è Matthew Church. Sarà lui la persona a cui dovrete rispondere.»

Accanto a lui c’era un uomo sulla quarantina, dai primi capelli bianchi, giacca rifinita e occhiali rettangolari piuttosto schiacciati.

Io e Ash gli stringemmo la mano e, con un’occhiata complice, capii che aveva stretto da morire anche la sua.

«Da questo momento sarò io a coordinare le indagini. Se non vi dispiace, vorrei fare il punto della situazione con voi. In circostanze di questo genere ogni momento è prezioso, per cui propongo di cominciare subito.»

Si sistemò gli occhiali sul naso e non aspettò nemmeno una nostra risposta per incamminarsi verso la porta che dava sul corridoio. Lo osservammo mentre, con falcate ampie e sicure, usciva dalla stanza, lasciando me e Ash più attoniti che mai.

Il telefono di Edmond squillò. D’istinto mi voltai verso l’apparecchio, ma incrociai lo sguardo del capo; lui si sfilò il sigaro di bocca e mi rivolse un sorriso sornione.

«Volevate qualcuno di esperienza, no?»

 

Seguimmo Matthew in quello che era il suo ufficio. Si capiva subito che era stato rinnovato da poco, a cominciare dalle sedie girevoli che avevano la seduta ancora soffice e spessa, a differenza di quelle mie e di Ashton, dove i chiodi avevano cominciato a fare capolino.

Ci accomodammo davanti alla sua scrivania e, alle estremità, c’erano due cornici di cui non riuscivo a vedere le foto, ma che immaginai essere della sua famiglia; sul lato destro, un raccoglitore a bordo alto dove lessi DM14 - Ufficio Postale - Lexington Avenue: era il fascicolo della rapina. L'aria era riempita dal suo profumatore d'ambiente al muschio, pungente come lo era lui.

Nel momento in cui afferrò il fascicolo, mi sentii accorciare il respiro perché era il mio primo caso davvero importante. Lo aprì e notai i suoi occhi scorrere sulle informazioni raccolte, parola per parola, le sopracciglia sempre più aggrottate. Girò pagina dopo poco e si soffermò sull'inserto dove avevo riposto la foto del giornale scandalistico, con connesse informazioni sui due presunti protagonisti della foto. Dal modo in cui i suoi occhi si spostavano sulle parole, intuii che stava leggendo con attenzione, ma l'apprensione si trasformò in preoccupazione quando il suo sguardo si fermò, seguito da un sospiro.

Deglutii facendo rumore. In quel momento, il mio imbarazzo era palpabile in tutta la stanza.

«Facciamo un po' il punto.»

Drizzai la schiena, pronto a rispondere alle sue domande.

«Diciannove giorni fa è avvenuta una rapina all’ufficio postale di Lexington Avenue, compiuta da due uomini col volto coperto. Sul luogo di lavoro erano presenti Mirtha Jones e James McCain, mentre era assente un altro dipendente, Michael Cossner, dichiarato in malattia. Dal colloquio con i genitori di Michael, è emerso che il ragazzo era in realtà scomparso da due settimane, ma i genitori non ne hanno denunciato la scomparsa per rispondere a una diretta richiesta di Michael scritta su un biglietto, ritrovato in un quaderno nella sua camera. Fin qui è tutto corretto?»

Annuii senza pensarci e lo stesso fece Ashton, ma un attimo dopo mi domandai se non fosse stata una domanda trabocchetto.

«La prima domanda è la seguente: ci sono prove o indizi che lascino pensare che la rapina e la scomparsa di Cossner siano collegate?»

Ci pensai un attimo, riepilogando tutti gli elementi a nostra disposizione. La rapina aveva apparenti motivazioni economiche, ma non potevamo escludere niente.

«Ti ho fatto una domanda, Scottfield.»

Le mie sinapsi si scollegarono all'istante e sembrarono anzi travolte da una piena che le fece disperdere all'interno della mia mente, ma non senza lasciarmi la risposta giusta a quella domanda.

«Nessun collegamento diretto, ma c’è da notare il fatto che la rapina è avvenuta in un ufficio postale e non in una banca o in una gioielleria, e già questo farebbe presagire il fatto che oltre al fattore economico ci sia qualcosa di più. Inoltre, stando alle testimonianze dei dipendenti dell’ufficio, uno dei due rapinatori continuava a chiedere “Dov’è?”, ma non sembravano riferirsi a qualcosa di materiale. Per questo vorremmo approfondire la scomparsa di Cossner, potrebbe essere una pista.»

«Mh. Che cosa è stato fatto, finora, per rintracciare Cossner?»

I miei neuroni erano ancora naufraghi nei meandri della confusione per quelle domande a bruciapelo. Non mi veniva in mente niente e il suo sguardo di impellente attesa non migliorava la situazione. Gli occhi mi caddero sull'inserto con la foto scandalistica e qualche neurone riuscì a ritrovare la via di casa.

«Sul giornale Rumors è stata pubblicata questa foto, che ritrae William Clide e un ragazzo con un tatuaggio che sembra circondare una voglia sulla mano destra, che potrebbe essere quella che ha anche Michael Cossner.»

«E dunque?»

«Dunque vorremmo interrogare il leader del gruppo Wit Matrix, Clide, per capire se sa qualcosa di Cossner.»

Church sospirò ancora e alzò un sopracciglio, gesto che mi fece venire i sudori freddi.

«Sulla base di cosa? Di questa foto?»

La estrasse dall'inserto e la schiaffò sul tavolo, facendomi sobbalzare appena.

«Potrebbe essere Michael.»

Mi accorsi che il volume della mia voce stava diminuendo sempre più.

«E cosa state aspettando a interrogarlo? Avete richiesto i loro tabulati telefonici?»

Non ebbi il coraggio di dire di no, ma non fu necessario. Church alzò gli occhi al cielo, scocciato.

«Vi sembra questo il modo di lavorare? Voglio che richiediate i tabulati di Clide e Cossner, subito

Io mi limitai ad annuire, Ashton tentò invece di dare spiegazioni.

«Di Clide non abbiamo ancora il numero e--»

«Lo trovate, il numero! Vi devo forse ricordare che ci sono di mezzo una rapina e una scomparsa? State perdendo tempo! Se fosse stato un serial killer, avreste fatto uccidere altre due o tre persone!»

Abbassai gli occhi, ma non la testa. In fondo, io e Ashton eravamo due novellini mandati allo sbaraglio da un capo incompetente. Tra noi calò un innaturale silenzio e sperai in cuor mio che la ramanzina fosse finita, ma cantai vittoria troppo presto.

«E se Clide non sapesse niente di Cossner? E se invece sapesse qualcosa e non volesse rivelarlo? Avete già preparato una strategia per questa eventualità?»

A entrambi uscì un "no" con un filo di voce.

«Per lunedì al massimo voglio i tabulati e che mi diciate come avete intenzione di procedere, anche in base alle informazioni che riusciremo a ottenere. E adesso, filate.»

Io e Ashton annuimmo, senza che nessuno dei due fiatasse. Church si alzò, si scrollò i pantaloni - forse per darci il tempo di vedere quanto fossero costosi - e si diresse verso lo scaffale alla sinistra della sua scrivania. Da una cartellina estrasse un libro e, nel momento in cui lo depositò sul tavolo, capii di cosa si trattava.

Aveva la copertina in pelle rosso bordeaux e riportava, in lettere dorate, la scritta “Facoltà di architettura”.

«Questo è l’annuario della facoltà di architettura che avevi chiesto, Scottfield.»

Lo afferrai famelico, ma, nel momento in cui sfogliai la prima pagina, ebbi come un fremito di paura. Dentro quelle pagine poteva esserci la verità sul rapinatore, ed era certamente una verità legata a Nathan.

«Stiamo cercando una conoscenza di Hayworth, giusto? Probabilmente una di quelle che hai incontrato alla festa universitaria.»

Risposi in modo affermativo.

Cominciai a osservare attentamente le foto di tutti i ragazzi presenti su quell’annuario, alla ricerca dell’uomo dagli occhi di ghiaccio. Sperai fortemente che il rapinatore non avesse cominciato a frequentare dal secondo anno, magari per via di un trasferimento, perché sarebbe stato alquanto problematico.

Tutti i ragazzi sembravano avere gli occhi azzurri o marroni, o almeno era ciò che si distingueva da quelle immagini poco più grandi di una fototessera. Da come li aveva descritti Nathan, dovevano essere occhi molto particolari - lui aveva detto “glaciali”.

Girai ancora le pagine, finché non incappai in qualcuno con gli occhi verdi; il mio cuore perse un battito, ma la delusione si fece strada in me, quando notai che quel qualcuno era solo Nathan. Aveva lo stesso sguardo di sempre, ma i tratti erano un po’ più giovanili. Notai che era di un anno più vecchio di tutti gli altri ragazzi nella sua stessa pagina, forse per via del brutto periodo, come lo aveva definito lui.

«Trovato qualcosa, Scottfield?»

Io mi riscossi dai miei pensieri e mi sentii avvampare.

«No, mi scusi. Continuo a cercare.»

Continuai a scorrere gli occhi sulle foto, ma mi resi conto di star guardando in modo superficiale. Cercai di riacquisire professionalità e di osservare quelle immagini con l’attenzione che meritavano. Mi accorsi, dopo essere arrivato quasi a metà, che gli alunni erano divisi per numero di matricola, e mi domandai perché non avessi fatto richiesta di quei numeri, piuttosto che dell’intero annuario.

Ero ormai a tre quarti e sentivo lo sguardo di Church su di me e il mio corpo sembrava una fucina di calore, pronto a trasformarsi in sudore e a fuoriuscire da ogni poro della mia pelle.

Girai la pagina successiva con la sensazione di aver sbagliato tutto e di aver avuto un’intuizione errata, quando i miei occhi furono catturati da un altro paio di un verde che avrei potuto definire glaciale.

Lessi il nome riportato sotto la foto: Ryan Stephen Goldwin.

Il mio respiro si accorciò.

Ryan era uno dei ragazzi presente alla festa universitaria, ne ero sicuro.

Sfogliai velocemente l’annuario fino alla fine, facendo scorrere gli occhi con un’adrenalina che mi permise di arrivare in fondo in un batter d’occhio.

Quando ebbi finito, tornai alla pagina contenente la foto di Ryan. Puntai il dito sulla sua foto e alzai lo sguardo verso Church.

«È lui.»

Il mio responsabile allungò il capo verso l’annuario, poi lo girò verso di sé e osservò.

«C’è qualcosa che può fartelo affermare con assoluta certezza?»

Esitai. Avevo indicato la sua foto perché corrispondeva alla descrizione di Nathan, eppure ero sicuro che, tra i miei ricordi, ci fosse un dettaglio che poteva aiutarmi.

Ripensai alla festa, al momento in cui avevamo salutato i suoi amici, a quando mi aveva presentato Ryan…

… e lui mi aveva stretto la mano mollemente, perché aveva un bel livido sul braccio destro.

«Ci sono!»

Mi uscì senza un reale motivo, così come la fiumana di parole che sparai subito dopo.

«Goldwin aveva un livido sul braccio destro. James McCain, il direttore dell’ufficio postale, ha lanciato un fermacarte addosso a uno dei rapinatori e l’ha colpito al braccio destro, ne sono certo.»

Sia Church che Ashton schiusero appena le labbra.

Pensavo che una contraddizione sarebbe uscita ben presto dalla bocca del mio responsabile, invece rimase zitto. E quando non proferì parola per più di quindici secondi, capii che avevo fatto centro.

Lui richiuse la bocca e cominciò ad annuire.

«Hai ragione, Scottfield. Questa deduzione potrebbe dare una svolta alle indagini. Però i rapinatori erano due.»

Sentii la rabbia montare. Che bisogno c’era di mettere sempre i puntini sulle i?

«Quindi?»

Mi resi conto che avevo parlato con un tono un po’ stizzito.

«Quindi non dobbiamo far trapelare queste informazioni. Arrestare Goldwin adesso sarebbe troppo rischioso, perché come dicevo i rapinatori erano due e non abbiamo la certezza che abbiano agito da soli. Dietro di loro potrebbe esserci un’organizzazione, e un arresto in questo momento non sarebbe la mossa più saggia. Vedremo tra quanto uscire alla scoperto.»

Ancora una volta, dovetti ammettere che l’obiezione di Church era corretta. Forse avrei dovuto imparare ad avere più rispetto delle autorità e a essere meno pieno di me.

«Adesso, voglio che chiediate i tabulati di Cossner e, a questo punto, di Goldwin. Per favore, evitate di perdere tempo anche questa volta! Filate.»

Non ce lo facemmo ripetere due volte. Ci alzammo da quelle sedie, su cui sperai di non sedermi più, e uscimmo dalla stanza, lasciando che il muschio pungesse soltanto lui.

 

«Ma quanto è stronzo quello là, da uno a dieci?»

Ashton aveva appena finito un giro di telefonate per richiedere i tabulati di Michael. Afferrò un foglio cartonato e si sventolò, poi si alzò per aprire la finestra.

«Sicuramente ha superato la sufficienza.»

Ash si sedette di nuovo, lo sguardo perso a rincorrere imprecazioni che vedeva solo nella sua testa.

«Ci ha trattati come dei pezzenti. Mica è colpa nostra se ci hanno lasciato soli! Se fosse stato un serial killer, avreste fatto uccidere altre due o tre persone. Sì, e io conosco già una delle vittime. E poi, abbiamo pure identificato uno dei rapinatori, cosa vuole di più?»

Lo osservai sventolarsi per spegnere quelle sue guance infuocate, poi mi venne un'idea.

«Stavo pensando a una cosa. Nel caso in cui ci fosse un rapporto di qualche tipo tra Clide e Cossner, siamo sicuri che non utilizzino un cellulare secondario? È possibile che dai tabulati non emerga niente, ma credo che sia auspicabile andare più in profondità. Quantomeno, prima che ce lo dica quel Matthew...»

Ashton rise e mi resi conto che era la prima volta che lo faceva per qualcosa che dicevo. In quel momento, mi apparve quasi simpatico.

«Stasera siamo di nuovo al Webster Hall, potrebbe essere l'occasione per fare qualche domanda in giro.»

«Pensi che basterà chiedere se conoscono Michael e William?»

«Figurati. Gli sventolerò qualche bigliettone sotto il naso, sempre se il dipartimento mi autorizza. A proposito, c'è anche Nathan, stasera?»

Quel nome richiamò alla mia mente una serie di ricordi con cui avevo fatto a cazzotti negli ultimi giorni. Che cosa avrebbe detto Ash se avesse saputo di quel bacetto innocente? Avrebbe chiacchierato di noi e così avrebbero fatto tutte le altre persone. Saremmo stati sulla bocca di tutti.

«Sì, e io me lo dovrò pure sciroppare dal pomeriggio. Ha bisogno di qualcuno che lo aiuti con lo studio.»

Finsi di essere interessato a un filo di carta che mi giravo intorno all'indice. Anche se non la vedevo, sapevo già qual era l'espressione sul suo viso, sicuro che si stesse già immaginando chissà cosa. Gliel'avevo detto solo perché, se non lo avessi fatto io, ci avrebbe pensato sicuramente Nathan.

«Ti scoccia?»

Da come avevo parlato, sembrava proprio che fosse così. Era una mezza verità: mi piaceva stare con lui, ma non volevo che altri sapessero dei nostri incontri, anche se non capivo il perché. Quando si trattava di Nathan, c'erano diverse cose che non capivo.

«No, solo che a volte è un po' molesto.»

Ashton scoppiò a ridere, annuendo quando si fu un po' calmato.

«Ti stuzzica perché gli stai simpatico, fidati.»

Io non avevo l'abitudine di baciare per gioco chi trovavo simpatico, ma a quanto pareva ero io quello strano.

Tante cose lo erano, a dire il vero, e non sapevo dove mi avrebbero portato; ma forse era proprio per quello, pensai, che stavo ritrovando la curiosità.

 

Tornai a casa mentalmente stremato. Con Ashton fissammo qualche punto della nostra strategia: lui avrebbe chiesto informazioni in giro, io avrei osservato qualunque comportamento sospetto all'interno della discoteca e a sperare in un incontro con Ryan, oltre a tenere a bada Nathan, che eravamo costretti a portarci dietro. Lui era infatti convinto che andassimo lì per accompagnarlo, perché voleva scoprire qualcosa in più sul suo amico. Io e Ash eravamo stati al gioco e avevamo prenotato un tavolo al privé per tutto il gruppo, approfittando anche del fatto che, secondo Nathan, Ashton aveva più di un motivo per andare in quella discoteca.

Nel momento in cui finimmo di dividerci i compiti, provai un senso di soddisfazione seguito da uno altrettanto forte di ansia. Era quello che si aspettava il capo o ci avrebbe sgridati un'altra volta? Ero adulto e vaccinato e le strigliate le avevo lasciate all'infanzia, ma l'idea di sentirsi inadeguati faceva lo stesso effetto a tutte le età.

Mi infilai le ciabatte, poi mi rilassai un attimo sul divano. Nathan sarebbe arrivato di lì a poco, ma era cambiato qualcosa tra noi? Sapevo che non avrei potuto guardarlo senza ripensare a ciò che era successo, un gesto a cui non avrei dovuto dare alcun peso, nonostante mi ostinassi a fare l'opposto.

Era stato un gioco e in un qualche remoto passato mi sarei arrabbiato per una cosa del genere. In quel momento mi lasciava indifferente, e forse era proprio questo che mi generava tutta quella confusione in testa.

L'unica cosa che era cristallina era che stare solo mi faceva pensare troppo.

Questo era certo, sì.

 

Nathan suonò dopo poco. Sentivo i suoi passi sulle scale e la voglia di chiudergli la porta in faccia cresceva sempre più.

Non avrei saputo dire cos'è che mi facesse tremare dentro in quel modo, sapevo solo che avrei voluto starmene in pace, pensare all'indagine, senza altre distrazioni.

Quando spuntò sul pianerottolo, mi ricordai della promessa che mi ero fatto: non avevo detto che avrei dovuto chiudere i ponti con lui, dirgli addio?

E com'era che, anche se lo cacciavo fuori dalla porta della mia vita, faceva sempre capolino da qualche finestra di cui non ricordavo l'esistenza?

Ormai era troppo tardi per cancellare quell'appuntamento. Mi ripetevo che avrei potuto fare in modo di non vederlo più, di diradare i nostri incontri, ma in fondo sapevo che non era possibile. Nel momento in cui accettavo di incontrarlo, di vederlo o anche solo sentirlo, era come se non fossi io il padrone delle mie azioni. Quando si trattava di Nathan, ero controllato da qualcun altro, un qualcun altro che in quel momento aveva deciso di darsela a gambe, lasciandomi nell'imbarazzo più totale nel momento in cui lo feci entrare in casa.

Aveva la sua tracolla da università che, a giudicare da come lo sbilanciava, doveva pesare parecchio.

Si sfilò gli occhiali da sole e li incastrò nello scollo della maglietta, poi mi rivolse il solito "Ciao".

Presi del tempo e chiusi la porta dietro di lui, sentendomi, per la prima volta, preoccupato all'idea di essere soli.

«Dove ci mettiamo?»

Gli indicai la cucina senza dire una parola. Avevo la gola secca e il martellare del cuore non mi aveva ancora abbandonato. Fu nel momento in cui si sedette al posto di Oliver che un'intuizione mi attraversò la mente, ma non riuscii a catturarla.

Forse l'avevo lasciata scappare?

Nathan e Oliver non avevano niente in comune, e lo ribadii con forza finché la mia voce interiore non si placò, insieme al cuore che tornò a battere a un ritmo regolare.

Oliver era l'unico e il solo della mia vita e sapevo che ci sarebbero voluti anni prima che qualcuno riuscisse a ricucire quella ferita così profonda.

Non avevo niente da temere e mi sentii stupido per aver pensato diversamente, anche solo per un momento.

«Ok, cosa devi studiare?»

Nathan tirò fuori dalla tracolla un pacco di dispense, le posò sul tavolo e le osservò con uno sbuffo e uno sguardo sconsolato. Si chinò ancora ed estrasse un astuccio, che posizionò tra il suo posto e il capotavola, dov'ero io; poi lo aprì, razzolò e prese un paio di evidenziatori, se li passò tra le mani, poi razzolò di nuovo.

«Lo credo che non riesci a studiare, se fai sempre così.»

La testa gli crollò sopra il cumulo di dispense e gli evidenziatori finirono sul tavolo.

«Non ho voglia! Uffa.»

«Forza, apri quella roba e dimmi cosa devi studiare.»

Ruotò la testa verso di me, ancora appoggiata al mucchio.

«Tutto, purtroppo. Non ce la farò mai.»

Aspettai che la smettesse di lamentarsi e facesse qualcosa per cominciare la sua sessione di studio, ma senza successo; gli sfilai quindi una dispensa da sotto la testa, che cadde sui fogli sottostanti.

«Ahi!»

Lo ignorai e osservai quello che aveva da studiare.

«'Materie plastiche'. Sembra interessante.»

«Non quando devi imparare a memoria i legami chimici!»

Sfogliai rapidamente le dispense e notai che dei tanto famigerati legami chimici ce n'erano solo cinque o sei.

«Quante storie per quattro disegnini. Va bene, vediamo un po': sapresti darmi una definizione di 'materie plastiche'?»

Finalmente, rizzò il capo dalla pila di carta e pensai che gli fosse venuta voglia di fare sul serio.

«Sì: roba da bruciare.»

Decisi di tentare la carta della crudeltà: sbattei le dispense sul tavolo e gli rivolsi lo sguardo più minaccioso che ero in grado di fare. A giudicare da come si fece seria la sua espressione, ebbi l'impressione di aver fatto centro. Allungai una mano verso di lui.

«Forza, dammi le sigarette. E se non lo fai, me le prendo.»

«Non ce le ho, lo giuro!»

Fu sul punto di uscirmi un "Non costringermi a perquisirti", ma poi immaginai la scena, le mie mani sul suo corpo, dentro le tasche dei pantaloni.

«Lo giuro, davvero. Sono passato ai drum.»

Ritirai il braccio.

«Ai cosa?»

Si chinò ancora sulla borsa e pensai che fosse l'ennesima perdita di tempo. Tirò fuori un piccolo sacchetto pieno di cilindretti bianchi, insieme ad altre due confezioni.

Nathan aprì quella più grande e me la porse.

«Tabacco. Costa meno e ci sono meno schifezze. Figo, no? Dopo ti faccio vedere come si fa.»

Capii che il sacchetto conteneva i filtri e l'altra confezione le cartine. Non appena ne ebbi l'occasione, sequestrai tutto e lo misi nella sedia accanto alla mia, in modo che non riuscisse ad arrivarci.

«Un'ora di studio in cambio di quella roba.»

Nathan sgranò gli occhi e mi meravigliai ancora una volta di quanto fossero buffe certe sue espressioni. Come sempre, quando si parlava di sigarette, sembrava sull'orlo della disperazione.

«Mezz'ora.»

«Tre quarti d'ora», replicai.

«Quaranta minuti.»

Ci pensai un attimo, poi accettai.

«Riproviamo: cosa sono le 'materie plastiche'?»

Assunse una posa dritta e un'espressione fin troppo seria per lui, poi si schiarì la voce.

«Le materie plastiche, dette anche materiali polimerici o resine plastiche, sono sostanze formate da macromolecole, derivanti dall'unione di molecole più piccole, dette monomeri.»

Mentre ripeteva, lessi nei suoi occhi l'unico briciolo di impegno di cui era capace, ma non era quello che gli faceva ripetere quella banale definizione; sembrava, piuttosto, spinto da motivazione che non riuscivo a capire e mi resi conto ancora una volta di quanto poco lo conoscessi.

«Va bene, saltiamo un po' qua e là, voglio solo vedere a che punto sei. Oh, interessante questo: cosa si ottiene dal monomero stirene?»

«Il polistirene, anche impropriamente chiamato polistirolo.»

«Chissà perché ha due nomi.»

Provai a cercare la risposta nelle dispense, ma non ce ne fu bisogno.

«Si preferisce la prima denominazione perché la desinenza -olo si utilizza per gli alcoli.»

Ricontrollai ancora sulle dispense, ma ero sicuro che non ci fosse scritto, almeno non nei pressi di quella definizione. Alzai gli occhi verso di lui, ma portò il suo sguardo sulle pagine.

«Sei bravo.»

Lui non rispose e si limitò a un’alzata di spalle, seguita da un sorriso timido.

Saggiai ancora la sua preparazione, che vacillò solo in corrispondenza dei legami chimici - che, dovetti ammettere, erano un po’ più di cinque o sei.

«Su, dimmi di nuovo tutte le gomme.»

«Le ho già rifatte due volte!»

«L’ultima, su.»

Guardai l’orologio e notai che era già passata un’ora, ma Nathan non si era ancora lamentato e, anzi, aveva già preso la penna in mano per rifare tutti i legami che non sembravano volergli entrare in testa.

Quando era concentrato, gli spuntavano una serie di rughe d’espressione, che lo facevano sembrare più grande di quello che era. Si passava una mano tra i capelli per cercare concentrazione e non per fare colpo su qualcuno; i suoi occhi si fissavano su quelle lettere nella speranza che gli dicessero il segreto che celavano e che il legame chimico si formasse da sé; poi, senza dire una parola, i suoi occhi si illuminavano e prendeva a scrivere tutto il legame fino alla fine, finché un sorriso non gli si apriva al compimento della sua impresa.

Quando ebbe finito, si lasciò andare sulla sedie trionfante, insieme a un grido sommesso di vittoria.

«Dimmi che non hai voglia di vederli ancora.»

Mi scappò un sorriso, perché avrebbe avuto bisogno di scriverli almeno un’altra volta, ma gli lasciai credere che bastasse a me e a lui.

«Ora puoi avere il tuo premio.»

«Quale? Ah, sì! Giusto.»

Gli resi tutto il suo kit e lui si avventò sui filtri.

«Adesso ti faccio vedere come si fa, così poi mi aiuti.»

Mi scappò una risatina. Io che lo aiutavo a fare sigarette era proprio il colmo.

Si mise un filtro in bocca e pensai al fatto che quelle labbra, io, le avevo sentite. E quell’odore che si trascinava sempre dietro non mi aiutava a dimenticare quel tocco secco e troppo caldo per via dell’afa. Se anche io mi fossi leccato le labbra, come aveva fatto lui, sarebbe stato un bacio più morbido e forse anche più degno di essere chiamato tale.

Le cose, però, erano andate diversamente e quella non poteva che essere una fortuna.

Tornai a guardarlo che stava già spargendo il tabacco sulla cartina, poi lo strizzò un po’ per dargli una forma allungata. Si sfilò il filtro dalle labbra e lo infilò a un’estremità, poi arrotolò la sua creazione per darle la sembianza di una sigaretta. Tirò fuori la punta della lingua e cominciò a leccare l’intera l’estremità come si farebbe con un francobollo. La fece scorrere avanti e indietro più e più volte e mi domandai come diamine facesse a essere provocante pure nel chiudere una sigaretta.

I miei pensieri si spinsero oltre la decenza e mi sentii scuotere da un tremito; ma in quel momento non ero io a comandare, per cui, quando mi propose di aiutarlo a riempire il pacchetto vuoto, io gli chiesi se poteva farmi vedere di nuovo come fare.

Sbuffai dentro di me, aspettando che finisse di schiacciare il tabacco e che arrivasse alla chiusura il più in fretta possibile; ma, quando lo fece, alzò gli occhi verso di me e catturò il mio sguardo.

Io non riuscii a guardare altrove, così rimasi fisso su di lui e lui fece altrettanto; un altro secondo e ci saremmo guardati troppo a lungo per non volerci dire qualcosa, e il secondo passò, e un altro ancora, senza che nessuno dei due riuscisse a distogliere lo sguardo l’uno dall’altro, senza che nessuno dei due si scusasse per quell’occhiata troppo prolungata. Troppi erano i secondi passati per poterla definire involontaria, troppi divennero per continuare a scherzare come se nulla fosse. Niente avrebbe potuto salvarmi da quell’imbarazzo se non l’ammissione che stavo guardando lui e non quella stupida sigaretta fai-da-te e niente avrebbe impedito a entrambi di ricordare quel contatto tra le nostre labbra, che, ormai ne ero certo, aveva cambiato qualcosa tra noi.

La sua bocca era schiusa, ma i suoi occhi incerti; cercava di capire le mie intenzioni, perché lo stessi guardando così. Anch’io stavo facendo lo stesso, su di me.

Squillò il telefono di casa.

Mi voltai verso l’ingresso e poi tornai a guardare lui, che ora fissava la copertina delle altre dispense.

«Scusa. Arrivo subito.»

Mi alzai e mi diressi verso il telefono, nell’ingresso.

«Pronto?»

Seguì un attimo di silenzio.

«Ciao, Alan. Sono Nelly.»

E come avrei potuto non riconoscere la sua voce, così simile a quella di Oliver?

Mi rifugiai nel piccolo corridoio che portava alla zona notte e feci scorrere la porta.

«Ciao.»

Non riuscii a dire altro. Ai vecchi tempi, le avrei forse chiesto come andava alla libreria e se le erano capitati altri clienti assurdi, ma in quel momento non ci riuscii.

«Non sei più passato dal negozio, è un peccato.»

Sospirai.

«Sì, scusa.»

Avrei voluto dirle qualcosa di più, perché Nelly ormai era diventata una sorella anche per me, ma non riuscii a trovare niente che non fosse stupido. Erano tutte frasi di circostanza.

«Ti ho chiamato per sapere come stai. È tanto che non ci sentiamo e sono davvero in pensiero per te.»

L’aspetto negativo del chiudersi nella propria tristezza è che devi occuparti anche di coloro che si preoccupano per te, con la conseguenza che non puoi davvero isolarti dal mondo. Io avrei voluto vivere nel mio guscio ovattato, e invece dovevo pensare a non far preoccupare Nelly, a tenere a bada le battute di Ash e a non farmi sommergere dalla sfilza interminabile di false promesse di cui mi riempiva mia madre ogni volta. Per non parlare di quello sconosciuto che avevo incrociato per strada e mi aveva rivolto un: “Su con la vita!”. Pensai che dovevo sembrare proprio depresso, se perfino una persona qualunque si era mossa a compassione.

«Un po’ meglio rispetto ai primi tempi. Il lavoro mi tiene molto impegnato.»

Mi ricordai di Nathan e mi accorsi che forse ero stato sgarbato nel chiudermi la porta alle spalle in quel modo, ma, quando tornai in cucina, di lui erano rimaste solo le dispense e i sacchettini per fare le sigarette. Oltre il vetro della finestra, intravidi una scia di fumo portata via dal vento e capii che era andato fuori in terrazza.

«Ti andrebbe di vederci?»

Una delle ultime volte che avevo visto Nelly per poco non ero fuggito. Le pose e le movenze erano le stesse di Oliver, così come il colore dei capelli. Capii che era lei solo perché alcune ciocche le ricaddero sulle spalle, mentre altre venivano sospinte appena dalla brezza. Oliver se n’era andato da sole sei settimane.

Più volte ero passato dalla libreria in cui lavorava, dopo aver smontato; ma più le parlavo, più rivedevo Oliver, ed era insopportabile, e parlavamo sempre delle stesse cose, di quanto stessi male e di quanto tutto si sarebbe aggiustato. Da quando ero entrato nella fase di voler iniziare a dimenticare, a lasciarmi tutto alle spalle, quelle conversazioni erano una tortura.

«Va bene.»

Osservai ancora il fumo oltre il vetro e pensai che sì, in quel momento avevo bisogno di Oliver. Per tanto tempo mi ero illuso di non averne più bisogno, di voler cercare qualcosa di nuovo. Niente e nessuno sarebbe stato come lui, di certo non qualcuno che giocava a sedurmi, che fingeva di non saper studiare solo per divertirsi e che si accendeva sigarette per farmi un dispetto. Perché l’avevo fatto entrare in casa? Perché l’avevo fatto entrare nella mia vita?

«Adesso saresti libero?»

«Ora no. Sto dando ripetizioni a un ragazzino.»

Nelly ridacchiò.

«Da quando dai ripetizioni?»

«Non lo so, ma sarà sicuramente l’ultima volta. È un cretino.»

Lei rise ancora.

«Va bene, non preoccuparti. Io sono sempre in negozio, tanto. Puoi passare quando vuoi. Più che altro, volevo darti alcune cose di Oliver.»

Anche lei aveva cominciato a chiamarlo per nome. Niente nomignoli affettivi, solo “Oliver”. Avevo preso a farlo anch’io.

«Mi manca, Nelly.»

Non volevo che Nathan rientrasse. Non volevo che calpestasse le orme di Oliver, che sedesse al suo posto, che respirasse la sua stessa aria. Si era preso troppe libertà, perché io glielo avevo permesso, ma era tempo di cambiare rotta.

E non avevo mai detto a nessuno quanto mi mancasse. Perché in quel momento mancava come l’aria. Perché niente aveva più un senso. Perché l’unica cosa che aveva una ragione era la pistola che tenevo sotto il cuscino. Come sarebbe stato dire addio a tutto quanto, non soffrire più? Nessun dolore da affrontare, nessuna persona con cui avrei dovuto per forza sostituire Oliver – perché era questo che tutti si aspettavano, no? -, nessun ennesimo ostacolo a rendere le mie giornate più difficili di quanto non lo fossero già. Le indagini sarebbero potute andare avanti senza di me; qualcuno forse avrebbe sofferto per la mia mancanza, ma non così tante persone in fondo.

Sicuramente non Nathan, che aveva finito di fare i suoi comodi e che si era fermato sulla soglia della porta finestra, intento a fissarmi.

Nelly stava dicendo qualcosa, ma non me ne importava più niente. Mi salutò e io feci altrettanto, ma non mi sentii in colpa per non averla ascoltata.

Nathan si mosse piano piano, finché non fu davanti a me. Mi guardava con la stessa preoccupazione con cui mi guardavano tutti gli altri, altri silenzi che avrei dovuto giustificare, altri pensieri che non volevo condividere con nessuno. Me li sarei portati nella tomba.

Cercava di guardarmi dentro, ma io non glielo permisi.

«Passerà.»

Ah-ha, certo. Quant’era facile essere Nathan.

«Sono nove cazzo di mesi che non passa. Non è tutto così semplice come per te, sai?»

Lui spalancò prima gli occhi, poi la bocca.

«Semplice? Ah, quanto mi piacerebbe! Pensi di essere l’unico ad avere dei problemi? Forse credi che il mondo giri intorno a te?»

«Sono solo stufo di tutti voi che non fate altro che chiedermi come sto!»

«Oh, scusa! Scusa, davvero! La sai invece una cosa? Se mi dovessi ritrovare nella tomba, sai chi verrebbe a piangere per me? Nessuno! Tu hai un lusso che nemmeno ti accorgi di avere. Persone che ti vogliono bene e che addirittura snobbi come scocciatori! Ci fosse stata almeno una persona che mi avesse mai chiesto come sto! Una!»

Rimise gli evidenziatori nell’astuccio, lo afferrò insieme alle dispense e si diresse verso la borsa in salotto. Cacciò tutto dentro e se la mise a tracolla, poi in poche falcate fu alla porta. Con uno scatto, riuscii a bloccarlo prima che la aprisse.

«Voglio andarmene. Tanto fai schifo come insegnante. Anzi, forse fai schifo in generale.»

Fece male. Lo avevo deluso. Mi dispiacque.

«Hai ragione. Scusa. Non volevo dire quello che ho detto.»

«Però lo hai fatto.»

«È vero.»

Per la prima volta, i suoi occhi mi giudicavano. Lui, che era sempre stato così scapestrato e inconcludente, ora aveva tutta l’autorità di chi aveva ragione; e io mi sentivo un cagnolino bastonato, perché a essere in torto ero io.

«Forse è il caso che tu scenda dal tuo piedistallo.»

Non riuscii più a guardarlo negli occhi. Che vergogna.

I suoi occhi mi chiedevano di mettermi a nudo.

Lo feci.

«Vai in camera, Nathan. Guarda sotto il mio cuscino, quello verso la porta.»

«Perché?»

«Vai e basta.»

Mosse qualche passo all’indietro, continuando a guardarmi; poi, quando fu convinto, camminò verso la camera e vi sparì dentro. Lo sentii razzolare per qualche secondo, per poi bloccarsi all’improvviso. L’aveva trovata.

Quando uscì dalla stanza, non era più arrabbiato. Lo leggevo dal suo sguardo, molto più disteso, benché più preoccupato.

Sentii l’emozione salirmi su fino in gola, sempre più a ogni passo che muoveva. Quando arrivò davanti a me, capii che non ce l’avrei fatta ancora a lungo.

«Quando dico che la tua vita è semplice, intendo dire che forse non sei arrivato a questo punto.»

Le lacrime uscirono da sole. Non ricordavo nemmeno più l’ultima volta che lo avevo fatto davanti a qualcuno, o del calore di un abbraccio vero, di chi è preoccupato per te. Le sue braccia mi diedero conforto e rimpiansi di averlo trattato male, perché sapevo che lo avevo ferito e che aveva messo da parte quei sentimenti solo per occuparsi dei miei. Mi tenne a sé senza alcun risentimento e io cinsi il suo corpo con una forza pari alla gratitudine che provavo.

Nathan generava in me un turbinio di emozioni senza nome, tranne una che riuscii a identificare con l’amicizia che ci legava.

Era l’unico con cui riuscivo a parlare dei miei tormenti e così facemmo, per un altro paio d’ore.

Lui non si fumò nemmeno una sigaretta.

 

Finimmo, non so bene come, a riempire il suo pacchetto di drum, come li chiamava lui. Vederlo leccare la cartina non mi fece più alcun effetto, a riprova del fatto che il nostro rapporto non andava oltre la semplice amicizia. Quel pensiero mi rincuorò.

Eravamo seduti sul divano, io composto, lui seduto in direzione della lunghezza. All’improvviso, allungò i piedi e poggiò le gambe sulle mie cosce.

«Comodo?»

Lui rise, ma non gli dissi niente. Non mi dava fastidio.

«Ti posso chiedere una cosa?»

Mi prese alla sprovvista, ma annuii subito dopo.

«Che ci facevi sveglio a quell’ora, stanotte?»

Sparì tutto quello che apparteneva a Nathan e comparve tutto ciò che riguardava Oliver. La sua faccia imbrattata di sangue, il volto ridotto a brandelli e quel grido muto che diventava uno stridio di ruote frenate sull’asfalto.

«Avevo fatto un incubo.»

Il viso di Oliver a un passo dal mio, i suoi occhi che rispecchiavano la mia colpa, il mio riflesso sempre più lontano, il suo corpo che sussultava un’ultima volta, per poi lasciarsi andare alla morte.

«Scusa.»

Oliver in cucina che prepara qualcosa, che si volta e non è più lui. Non c’è più amore e comprensione, ma solo un odio che gli esce dagli occhi, solo il freddo che avvolge me, come ha avvolto lui mesi prima. Oliver che arriva a un centimetro dal mio naso, il suo sangue che gocciola sulle mie ciglia, che scorre sui miei occhi e mi riga le guance.

Sussultai, come avevo fatto quella notte.

«Scusa, non volevo.»

Feci un respiro profondo: non c’era niente di reale, erano solo immagini.

«Ormai è un po’ che succede. Prima era dolce, mi diceva di non preoccuparmi, che le cose sarebbero cambiate in meglio. Poi ha cominciato ad apparirmi in questa nuova forma.»

«Perché, secondo te?»

«Forse mi rimprovera perché ho creduto in quello che mi diceva.»

Finì di leccare il drum appena creato, poi lo mise nel pacchetto di sigarette.

«Quindi vuol dire che le cose vanno meglio?»

«Diciamo così. Però forse non lo accetto davvero.»

I miei sogni cominciarono ad avere un senso. Finché ero stato solo con Oliver, lo vedevo come una figura positiva; ma nel momento in cui avevo ricominciato a prendere il largo, qualcosa dentro di me si era scombussolato. Quei sogni erano solo una protezione, un tentativo di farmi tornare dov’ero. Fermo.

«E tu che ci facevi, sveglio a quell’ora?»

Spruzzò il tabacco che aveva in mano nel sacchettino, come si fa col sale. Lo rimise sul tavolo e sospirò.

«Mi ha svegliato Harvey.»

Immaginai il perché e ridacchiai.

«Capisco.»

Lui scosse il capo.

«No, non è quello.»

Il suo sguardo si perse nel vuoto, come la volta in cui era venuto qui, deluso dalla serata con Harvey. Ancora una volta, era lui il problema.

«Ho paura che si stia cacciando in qualche guaio.»

Aspettai che dicesse qualcos’altro, ma si limitò a puntare i suoi occhi sui miei, come se potessero dargli delle risposte.

«Lui è l’unica cosa che mi è rimasta della mia vecchia vita.»

Portai una mano sulla sua coscia e l’accarezzai.

«C’è una cosa che ho imparato in questi nove mesi, ed è che il passato non può tornare. Per quanto ti sforzi di tornare negli stessi posti, di stare con le stesse persone… Non sarà la stessa cosa. Non può.»

«Ma il mio passato è tutto quello che ho.»

«Forse perché non ti sforzi abbastanza di crearti un presente nuovo.»

Adagiò la testa sul divano.

«Ci provo a uscire con gente nuova, ma le cose non vanno.»

«E sono persone che avrebbe frequentato il Nathan di ora o quello di tre anni fa?»

Il suo sospiro mi fece intuire la risposta.

«C’è qualcosa che stona quando stai con Harvey, vero?»

Nathan sorrise.

«Esci subito dalla mia testa, grazie.»

Ridemmo entrambi e ne fui felice, perché subito dopo il suo viso si rabbuiò ancora. Si mordicchiò il labbro e intuii che non trovava soluzione.

«Per quel che può valere, io ci sono.»

«Sì, certo… Finché non decidi di fare cazzate.» Dalla sua espressione, capii che stava pensando alla pistola.

«Ah!», e per la sorpresa sollevò le gambe, tanto che per poco non mi colpì. Si rimise composto a modo suo, frugò nelle tasche dei pantaloni finché non ne estrasse un pezzo di carta stropicciato e macchiato. «Guarda qui.»

Presi in mano il fogliolino con un pizzico di ribrezzo e, quando ebbi eliminato le pieghe più importanti, cominciai a osservarlo.

Era un pezzo di carta che sembrava strappato da un blocchetto e che riportava, nell’intestazione, un simbolo che avevo già visto da qualche parte. Sotto, c’erano due colonne: la prima mostrava delle parole, la seconda una serie di numeri, una data e un luogo. Intuii subito che la lettura corretta era quella per righe.

«È una sorta di tabella, così a prima vista.»

Nathan avvicinò la sua testa alla mia, per vedere meglio di cosa stessi parlando. Portai il dito sulla prima parola e lo feci scorrere fino alla cifra.

«Vedi? A ogni parola corrisponde un numero. Forse una corrispondenza in denaro. Il luogo e la data potrebbero indicare il dove e il quando della vendita.»

Nathan continuò a fissare il pezzo di carta.

«Mmh, interessante.»

Non era la prima volta che vedevo parole del genere: mi ricordavano dei nomi in codice, ma il problema era capire a quale ambito si riferissero realmente.

Osservai ancora il simbolo, cercando di ricordare dove lo avessi già visto; e quando un’intuizione mi sfiorò i pensieri, mi diedi dello stupido per non averlo capito prima. Il disegno nell’intestazione era davvero molto simile a quello che i vandali avevano lasciato sulla macchina di Michael.

In quello stesso istante, mi resi conto che forse non era più il caso di parlare di vandali.

«Dove l’hai trovato?»

«In un fast food sulla trentaquattresima. Mi ci ha portato Harvey.»

Conoscevo bene quel posto, lo conosceva bene chiunque fosse nelle forze dell’ordine. Era un covo di tossici, che però non davano fastidio a nessuno e, soprattutto, erano facilmente controllabili; questo era l’unico motivo per cui la polizia non ne aveva ancora ordinato il sequestro e lo sgombero.

Nathan mi spintonò appena la spalla per richiamare la mia attenzione.

«Lo conosci? Ci sei stato?»

Non sapevo proprio se dirgli la verità o meno, anche se era altrettanto vero che il fatto che Harvey lo avesse portato lì non implicava un conseguente utilizzo di stupefacenti.

«Lo conosco, sì, e diciamo che le crocchette di pollo non sono l’unica cosa che vendono.»

Nathan abbassò lo sguardo e lo puntò verso il sacchetto di tabacco sul tavolo.

«Lo so.»

«Lo sai?»

Rimise su lo stesso sorriso di sempre e lasciò che il turbamento della mia affermazione volasse via in un soffio.

«Non è difficile intuirlo, basta vedere le facce di chi è seduto ai tavoli.»

Annuii e fui rincuorato dalla sua affermazione. Tuttavia, in quei suoi occhi lessi una verità che forse doveva rimanere nascosta e mi imposi, per rispetto, di non seguire il suo filo di pensieri.

Distolsi lo sguardo, ma lui continuava a lottare con i suoi demoni; poi ricominciò a parlare, con un sussurro.

«So che sei molto impegnato e che la cena non si prepara da sola, ma vorrei cercare di scoprire qualcosa di più su questi bigliettini. Ti andrebbe di venire con me a dare un’occhiata, nei prossimi giorni?»

Il fatto che avesse detto ‘bigliettini’, al plurale, mi diede da pensare. Ne aveva trovati più d’uno? In ogni caso, feci finta di niente e assecondai la sua richiesta. Non era il caso di subissarlo di domande, non in quel momento, almeno.

«Vuoi andare in quel locale?»

Lui annuì.

«Sì, si può fare. Potremmo andare mercoledì prossimo, che ne dici? Mi potresti raggiungere alla fine del turno.»

Dal suo viso sparì ogni preoccupazione e mi parve quasi di scorgere un guizzo di eccitazione. La vita di un poliziotto sembrava sempre molto interessante, dall’esterno.

«Perfetto, va benissimo! Grazie.»

Nathan batté le mani sulle cosce, pronto per cominciare qualcosa.

«Allora, come ti vesti stasera? Mica hai intenzione di venire così?»

Mi guardai e non notai niente di strano nel mio abbigliamento.

«Qual è il problema?»

Si alzò dal divano, poi mi tese le mani per invitarmi a fare altrettanto, ma ci pensai da solo.

«Devo partire dalla camicia nei pantaloni o dai polsini chiusi?»

Quanto poteva essere insolente? Eppure mi venne da sorridere.

Senza nemmeno chiedere il permesso, mi mise le mani sui fianchi. Subito dopo cominciò a tirare la camicia per scalzarla dai pantaloni. Mi sfiorò la pelle con un polpastrello: aveva le dita fredde e quel tocco mi fece sussultare appena.

«Non ti emozionare troppo, eh.»

«Hai le dita ghiacciate.»

Mi sistemò la camicia alla meno peggio, ma non sembrò infastidito dal fatto che, nella parte inferiore, era parecchio raggrinzita.

«Sì, scusa. È sempre così, d'estate e d'inverno.»

Mi afferrò la mano e seguii il movimento delle sue dita mentre mi sbottonavano i polsini. Ogni volta che mi sfiorava la pelle, ero scosso tra un tremito freddo. Arrotolò la manica più o meno fino al gomito, poi indietreggiò un attimo e sorrise soddisfatto.

«Molto, molto meglio. Quanto manca?»

Risposi senza nemmeno guardare l’orologio.

«Troppo.»

Mi fece una linguaccia.

 

Caciara, nuvole di fumo, spintoni: il Webster Hall era esattamente come lo ricordavo.

Fuori, la situazione era invivibile come al solito: quella era la serata universitaria e il cortile era pieno di ragazzi scalmanati. In più c’era anche l’afa serale che non voleva staccarmisi di dosso. Dovetti ammettere che con la camicia di fuori e le maniche arrotolate stavo piuttosto bene, ma non ne feci parola. Dare soddisfazione a uno come Nathan era il primo passo verso errori di cui ci si pente facilmente. Lo osservai e, ancor prima che lo vedessi, lo beccai a fumarsi uno dei drum che avevamo fatto insieme; poi mi girai verso Ash e lo trovai con lo sguardo perso. Prima di pensare che erano entrambi un’ottima compagnia, puntai gli occhi nella stessa direzione di quelli di Ash e capii cosa stava osservando. Due uomini, uno basso e dai tratti messicani, l’altro un ventenne con un cappellino, si stavano scambiando qualcosa per denaro. Il messicano aveva sputato fuori qualcosa dalla bocca, probabilmente ovuli di eroina o cocaina.

Quando la scena fu finita, rivolsi un’occhiata ad Ash e lui capì subito dove volevo andare a parare. Non avevamo alcuna certezza, ma le persone non spariscono nel nulla se non hanno davvero un buon motivo e al Webster Hall sembrava esserci un giro di droga. Se fosse una faccenda assidua o meno era ciò che dovevamo scoprire quella sera.

Ash mi tirò per un braccio e capii che stava approfittando di un momento di distrazione di Nathan.

«Io vado a fare un po’ di domande a quelli là» e indicò lo spacciatore e il ragazzino, che intanto si era allontanato, «tu distrai Nathan. È venuto per quel suo amico, no? Se lo vedi, seguilo. Dagli spago, potrebbe tornarci utile.»

Annuii, anche se mi sentii in colpa per Nathan: sembrava una grande presa di giro nei suoi confronti. Be’, in fondo un po’ lo era e mi dispiacqui quasi al pensiero di mentirgli.

Lo osservai mentre lasciava bruciare la sigaretta tra le dita. Il sigarettometro colpì ancora: Nathan era preoccupato. Non lo avrebbe mai fatto, vista la sacralità che rappresentava per lui.

Pensai ad Ash e mi resi conto che lui non avrebbe mai saputo capire la preoccupazione di Nathan come avevo fatto io e, forse, non ne sarebbe stato capace nessun altro essere al mondo. Osservai ancora il suo profilo e notai un piccolo, invisibile filo che partiva dal suo cuore e arrivava al mio. Il filo era trasparente e pulsava, perché da quel filo passavano tutte le sue emozioni, che solo io potevo vedere; guardando un po’ meglio, però, mi accorsi che di fili ce n’erano due, e il secondo, trasparente come il primo, partiva dal mio cuore per arrivare al suo.

Non sapevo chi l’avesse legato, ma sapevo quanto avrebbe rivelato nel momento in cui Nathan si voltò verso di me. Lui non aveva un sigarettometro, forse non aveva niente, ma riuscì a farmi sentire nudo ancora una volta nell’esatto istante in cui i suoi occhi si posarono sui miei.

 

Entrai dentro e ricevetti la tesserina per le bevute, più una gomitata sul fianco che restò senza autore. Mentre ci dirigemmo verso il privé, intercettai un'occhiata di Ash che mi suggeriva di distrarre Nathan in qualche modo. L'idea era di fare domande in giro per ottenere eventuali informazioni su Michael, ma il problema era individuare qualcuno che poteva sapere qualcosa, anche se avevamo provato a ipotizzare che la ragione della sua scomparsa potesse essere legata al denaro.

Il privé era come un altro mondo. Riuscivo a sentire le parole di Ash e a non farmi accecare dalle luci psichedeliche della pista. Era un ambiente molto sobrio, arredato tutto in una tonalità ghiaccio, con lustrini che scendevano sulle pareti e riflettevano le luci della pista.

Percorremmo il corridoio che divideva le due aree di tavolini e ci dirigemmo verso quello che ci avevano riservato; poco dopo arrivò un cameriere a prendere le ordinazioni, ma solo Nathan si buttò su qualcosa di alcolico.

 

«Allora, Ash, speri di trovarla?»

Lui fu preso alla sprovvista e non feci in tempo a suggerirgli la risposta.

«Chi?»

Soltanto dopo mi guardò e gli rivolsi un'occhiata di intesa.

«Parlo della tua tipa alta e bionda.»

Ash scoppiò a ridere e annuì.

«Non solo spero di trovarla, ma abbiamo pure un appuntamento.»

Nathan emise un gridolino e io mi domandai quanto fosse vera quell'affermazione.

«Motivo per cui vi abbandono tra pochissimo.»

Buttai un’occhiata al suo drink: lo aveva giusto assaggiato. Ero certo che fremesse dalla voglia di andare in giro a fare domande su Michael.

«Poi vogliamo sapere tutto, mi raccomando.»

Ash si alzò dal divanetto, diede un’occhiata intorno e poi ci salutò. Nathan lo seguì con lo sguardo, finché non se ne fu andato.

Rimanemmo soli. Adagiai la testa sul divanetto e mi lasciai frastornare dalla musica in lontananza. Il volume era accettabile, ma il ritmo era davvero terribile. Ruotai il capo verso Nathan e notai il suo sguardo perso. Non sapevo se si stesse arrovellando con qualche pensiero o se stesse aspettando il momento buono per cercare il suo amico, ma mi resi conto che dovevo sbloccare la situazione. Era strano vederlo così diverso dal solito.

«Andiamo?»

Lui si voltò verso di me come se mi avesse a malapena sentito.

«Dove?»

Staccai la schiena dal divanetto.

«Non eravamo venuti per Ryan?»

Come sentì quel nome, vidi il suo sguardo congelarsi. Non si lasciò andare a nessun tipo di reazione, se non un cenno con la testa che arrivò dopo un po’. Capii che era spaventato dall’idea di ciò che avrebbe potuto scoprire, ma non disse niente a proposito. Si era chiuso nel suo mutismo e sembrava felice di starci, forse perché impediva agli eventi di avanzare.

Avrei voluto rassicurarlo in qualche modo, ma non seppi come farlo senza risultare inopportuno. Il suo sguardo rimase vacuo e lasciò che la tempesta gli si scatenasse dentro; ripensai al filo che avevo intravisto all’uscita, ma mi resi conto che si era spezzato. Non brillava e non pulsava: semplicemente non c’era più. Nathan voleva tenermi fuori da ciò che lo stava turbando in quel momento ed ebbi come l’impressione che non dipendesse da me, ma che facesse così con tutti.

Mi spostai leggermente verso di lui, fino quasi a sfiorarlo col fianco. Solo in quel momento alzò lo sguardo e parve sorpreso, ma muto.

«A cosa pensi?»

Si leccò le labbra e provò a dire qualcosa, senza successo. Piantò i suoi occhi nei miei, come se potesse parlarmi in telepatia, ma non funzionò. Come se ne accorse, tornò a guardarsi i piedi.

Pensai a un modo per farlo schiodare di lì e non mi ci volle molto per farmi venire un’idea.

«Andiamo a fumare?»

Fu l’unico sorriso sincero che gli vidi affiorare quella sera. Aveva capito che lo facevo per lui.

Nathan, però, scosse il capo.

«Non mi va, scusa.»

Pensai che doveva stare proprio male e, al contempo, mi resi conto che non sarei riuscito a farlo sorridere. Mi sentii impotente di fronte a quel ragazzo, così attanagliato dai suoi problemi da non avere nemmeno la forza di parlarne. In quel momento avrei voluto avere sotto mano il “Manuale di Nathan”, capitolo primo: “Come tirargli su il morale quando anche le sigarette non funzionano”. Harvey ci sarebbe riuscito? Avrebbe saputo su quale lato di lui far leva, pur di togliergli dalla faccia quell’aria mesta?

C’era qualcuno, su questa Terra, che aveva quel potere; ma, mi resi conto, quel qualcuno non ero io.

Mi alzai in piedi, pronto a fare di testa mia.

«Dove vai?»

«A cercare Ryan.»

Se non potevo fargli tornare il sorriso, quantomeno potevo aiutarlo a prendere una decisione.

Lui mi guardava, un piede pronto a scattare, l’altro saldamente ancorato a terra.

Gli allungai una mano, aspettando che la prendesse. Mi rivolse ancora il suo sguardo, in cerca di una rassicurazione che gli comunicai con un sorriso.

Afferrò la mia mano.

 

Scovammo Ryan poco lontano dal nostro tavolino. Lo scorsi un attimo prima di Nathan, che si fermò un passo avanti a me. C’era della polvere bianca disposta a strisce su un tavolo e una banconota da dieci dollari arrotolata che la portava dritta dritta nel naso di Ryan.

Pensai che quello poteva rappresentare un enorme salto in avanti nelle indagini, ma, come osservai Nathan, mi sentii subito in colpa nell’aver pensato una cosa simile.

Lui infatti era turbato. Teneva gli occhi fissi sul suo amico, senza mai sbattere le palpebre. Mi sorprese la sua incredulità, forse perché lo avevo sempre immaginato come un ragazzo dei bassi borghi abituato a questo genere di cose; invece mi apparve sempre più chiaro il fatto che Nathan era niente più che un bravo ragazzo con cattive abitudini, forse troppo ottimista per credere che quello seduto al tavolo, che faceva sparire le piste di cocaina, potesse essere un amico con cui aveva condiviso giornate di studio.

Il suo petto si alzava e si abbassava con un’ampiezza maggiore del solito e sul suo volto riuscivo a leggere solo una smorfia di delusione intrisa di tristezza.

Mi avvicinai a lui, ma non reagì; e non lo fece nemmeno quando Ryan si alzò, in preda a un’euforia che certamente non gli apparteneva.

Lo osservammo dirigersi verso una porta secondaria e solo allora Nathan si mosse, ma io lo bloccai.

«Non facciamo mosse avventate.»

Lui si liberò dalla mia presa.

«Voglio vedere dove va.»

Si incamminò come un lupo solitario in cerca della sua preda e varcò quella porta da cui, qualche attimo prima, era passato anche Ryan. Ritenni che fosse più saggio non lasciarlo solo, così lo seguii.

Nel momento in cui aprii la porta, mi resi conto che il gesto di Nathan era stato davvero avventato, perché la porta doveva rappresentare un’uscita di sicurezza, che dava su una scalinata grigia e anonima.

Sentivo i passi di Nathan e udii, anche se solo per un istante, un altro paio di passi, seguiti dal cigolio di una porta chiusa in lontananza. Rimasi ad ascoltare per un’altra manciata di secondi e, quando fui certo che quegli scalini erano percorsi solo da Nathan, mi affrettai a raggiungerlo, incurante del rumore.

Come gli fui dietro, però, lui si voltò verso di me, con sguardo stizzito.

«Senti, è una cosa che riguarda solo me, va bene? Perché continui a seguirmi?»

Aveva ragione e mi accorsi che non potevo dirgli la verità. Non mi uscì nulla e rimasi lì davanti a lui, impalato e zitto.

«Non è che per caso hai qualche altro interesse?»

Quella verità mi gelò totalmente e lui se ne accorse. Lessi la speranza morirgli in viso, che si coprì di delusione, l’ennesima; ma io non volevo che pensasse questo di me, perché l’unico secondo fine che avevo era il lavoro e, tutto sommato, io stavo bene in sua compagnia. Non volevo che pensasse che fossi come tutti gli altri.

E proprio mentre lo osservai alzare un attimo le sopracciglia, come se si stesse rimproverando per essersi fidato, lo fermai prima che scappasse via e volasse lontano da me, sospinto dal vento.

«Hai frainteso, Nathan.»

«Mollami!», esclamò, per poi liberarsi dalla mia presa.

«Sono solo preoccupato per te, non voglio che tu faccia cavolate.»

«Vado solo a parlargli! Di cosa dovresti preoccuparti?»

La risposta mi venne al momento giusto.

«Devo forse ricordarti che l’altra volta non ci ha pensato due volte prima di metterti le mani addosso? Ti ha sbattuto contro il muro e per poco non cadevi contro il lavandino.»

Alzò gli occhi al cielo.

«Sai che roba. So badare a me stesso, grazie.»

Ripartì verso la porta che poco prima aveva aperto Ryan e la varcò senza nemmeno controllare chi o cosa ci fosse dietro. Persi un battito, ma lo recuperai quando mi accorsi che eravamo in un parcheggio sotterraneo e che non c’era nessuno.

Ogni passo rimbombava per tutto il perimetro del parcheggio, rimbalzava sui muri e si insidiava in ogni angolo; mi sembrava quasi di percepire il respiro ingrossato di Nathan e l’agitazione che trasudava. Nessuno dei due sapeva cosa aspettarsi, ma lui era quello che si sarebbe preso la delusione maggiore.

I nostri passi divennero asincroni. Io cercavo di seguire il suo ritmo perché non mi notasse, ma non avevo certo intenzione di nascondermi da lui, sarebbe stato impossibile; ma visto che sembrava rifiutare la mia presenza, provai a diventare la sua ombra. Tuttavia, l’agitazione gli impediva di seguire sempre lo stesso ritmo, che accelerava e decelerava sulla base della sua esitazione.

L’asincronia aumentò. I suoi passi venivano riempiti dai miei e viceversa, creando uno scalpiccio indefinito di suole sul linoleum, che presto gli diede sui nervi.

«Smettila di seguirmi. Non ho bisogno di una balia.»

«Voglio solo assicurarmi che non ti accada nulla.»

Passi.

«Ti ho già detto che--»

Gli premetti una mano sulla bocca. Lui si trovò in affanno e respirò forte, così tolsi la mano e gli feci cenno col dito di stare in silenzio.

C’erano dei passi.

Lo presi per un polso e condussi piano piano in una nicchia numerata per sole tre macchine. Non era un gran nascondiglio, ma almeno ci permetteva di non farci vedere proprio subito.

Mi sporsi verso il resto del parcheggio in cerca dell’autore dei passi, ma fallii. Fu comunque meno impegnativo di trattenere Nathan dall’uscire da lì.

«Stai buono!», sussurrai.

Rimbombava meno, ma avevo sempre la sensazione che chiunque avrebbe potuto sentirci.

«Mi spieghi qual è il problema? Proprio non capisco.»

Tornai dietro il muro.

«È semplice: Ryan vuole che tu ti faccia gli affari tuoi.»

«E quindi?»

«Quindi la prima volta te l’ha fatto capire con le buone, la seconda volta potrebbe passare alle maniere forti. Tutto qua.»

Lui mi guardò, con quell’aria di chi cerca sempre la fregatura in ogni frase. Alla fine annuì, ma non era davvero convinto. Forse non si fidava di me, ma la mia preoccupazione era sincera.

I passi continuavano a riecheggiare nel parcheggio, ma erano lontani.

Nathan fissava le striature lasciate dalle gomme di qualche auto che si era precipitata sul posto libero davanti a lui.

«Mi piacerebbe sapere cosa ti passa per la testa, sai?», dissi.

«Questa frase l’ho già sentita un milione di volte.»

«E scommetto che a nessuno hai detto a cosa pensi.»

Perché nessuno ne era abbastanza degno, almeno per lui. Ero abbastanza sicuro che mi avrebbe dato questa risposta, ma mi sorprese.

«Che cosa vuoi sapere?»

Mi guardò con occhi sinceri. Mi sembrò di intravederci anche un po’ di malizia nascosta, ma non aveva intenzione di farla uscire. Era il suo sguardo e basta, sempre pronto a entrare a gamba tesa dappertutto, forse perché i piccoli passi lo costringevano a pensare. Credeva che fosse meglio essere entrante e stordire le persone, per poi dileguarsi nel momento giusto, quando cominciavano a pulirsi dal polverone che sollevava ogni volta.

«Cosa hai intenzione di dire a Ryan?»

Lui mi osservò un attimo, preso in contropiede, poi fece spallucce.

«Non lo so. Immagino che mi lascerò guidare dal mio istinto.»

Gli avrebbe parlato in modo genuino, proprio come era lui.

Lo osservai nella sua semplicità e mi domandai cosa pensasse di me. Avevo spesso creduto di essere diverso dagli altri, ma più stavo con lui, più mi sembrava di essere solo una fotocopia di tutte le persone che aveva incontrato. Quanti altri avevano provato il desiderio di leggere in quella sua testolina? In che modo io ero diverso?

Forse per lui non ero altro che l’ennesima persona uguale alle altre. Non avevo niente di differente, se non la mia storia, e con ogni probabilità si sarebbe sbarazzato di me come faceva con tutti. Io, che per tanto tempo mi ero creduto diverso - forse superiore -, ora scoprivo le debolezze della mia banalità. Ero come tutti gli altri. Ero come gli altri ragazzi che si erano ritrovati a fissarlo, a seguire con lo sguardo i lineamenti del suo naso e delle sue labbra, che si erano lasciati assorbire da fantasie su quella bocca, ma che forse avevano guardato anche un po’ oltre, e avevano desiderato scoprire cosa si nascondesse dietro quei suoi occhi così enigmatici.

Mi penserà quando non ci sono? Che opinione avrà di me?

Ero solo l’ultimo di una lunga lista, né più né meno. Ero solo l’ennesimo stupido che lo avrebbe guardato fumare anche tutto il giorno.

Ero…

«Siete voi!»

Sussultai e spinsi Nathan dietro di me.

Era Ash.

«Mi hai fatto prendere un colpo, sappilo!»

Lui ridacchiò.

«Ho notato. Ma ho interrotto qualcosa?»

Nathan uscì allo scoperto e mollai una piccola pacca sul braccio di Ash.

«Non dire stupidaggini. Piuttosto, che ci fai qui?»

«Potrei farvi la stessa domanda, ma in realtà cercavo Waitch.»

Ash indirizzò il suo sguardo verso Nathan. Intuii che aveva qualcosa a che fare con le indagini e che aveva cercato di prenderlo alla sprovvista. Nathan, però, reagì solo con una domanda.

«E chi sarebbe?»

«Non lo so, ma me lo ha detto un nostro amico che ha comprato questi.»

E detto ciò, tirò fuori dalla tasca un paio di ovuli. Nathan si avvicinò curioso e ne prese in mano uno.

«Cosa sono?»

«Ovuli di cocaina. Sono ottimi perché puoi tenerli sotto la lingua, così se arriva la polizia ti basta ingoiarli per essere pulito.»

Nathan ascoltò con molta attenzione, scrutò ancora una volta l’ovulo e lo rese ad Ash.

«Forte. Ma come è scritto quel nome che dicevi? W-H?»

«No, è W-A-I--»

Un lampo mi attraversò la mente.

«Aspetta! Nathan, ripeti.»

«Cosa? Waitch?»

Eccola lì, l’adrenalina. Ero vicino a qualcosa.

«No, l’altra cosa che hai detto.»

«W-H? Dabliu-eich?»

Annuii, senza riuscire a parlare. L’eccitazione della scoperta cominciò a pervadermi tutto il corpo. Osservai Ash con un sorriso trionfante.

«Sì, W-H. Come Webster Hall, per esempio.»

Le loro bocche si spalancarono, sorprese almeno quanto me.

«Però, potrebbero anche essere le iniziali di una persona, no?»

«Certo, Nathan. Ma, ora come ora, sono più propenso a credere che Webster Hall sia la nostra chiave.»

Un attimo dopo che ebbi pronunciato quelle parole, mi accorsi dell’errore che avevo fatto. Doveva averlo capito anche lui, non era stupido. Non ero lì per aiutarlo ad affrontare Ryan, né per proteggerlo nel caso in cui le cose avessero preso una piega inaspettata.

Mi morsi la lingua.

Girai lo sguardo verso di lui, ma non sembrava arrabbiato; piuttosto era pensoso, come prima di scendere la scalinata secondaria.

«Vabbè, voi continuate a parlare delle vostre cose, io raggiungo Ryan.»

Si fece strada tra noi senza dire molto altro.

Mentre lo guardavo sparire, crebbe in me la sensazione di averlo preso in giro come tutti gli altri, di averlo usato come tutti gli altri, di essermene pentito come tutti gli altri.

Ripensandoci, però, su quest’ultimo punto forse avevo una speranza.

 

 

 

Angolo autrice

Salve a tutti! Capitolo chilometrico, lo so XD Però almeno facciamo progressi un po’ su tutti i fronti J

Volevo dirvi anche la revisione procede a gonfie vele (è praticamente terminata): sono infatti al capitolo 29, che in parte devo riscrivere, ma ho già le idee chiare! Dopodiché mi rimane da revisionare il 30 e poi posso procedere con la scrittura dei pochi capitoli che mi sono rimasti. Sono molto emozionata!

 

Ringrazio tutti voi lettori per il sostegno, vi adoro <3 Non sarei certamente stata così carica senza il vostro sostegno, per cui GRAZIE!

 

A giovedì prossimo,

holls

 

 

   
 
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