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Autore: ferao    18/12/2021    1 recensioni
Raccolta disomogenea di Percy/Audrey, ambientate nei dintorni dell'universo di Edax Rerum.
Partecipa all'iniziativa "Apri le challenge" indetta da Gaia Bessie su Facebook
1 - «Accoa, Molly! Accoa i limoni!»
2 - «Oh, sì,» strascicò. «Più emozionante di quella volta che ho dimenticato come ci si siede.»
3 - Ci sono cinque ragioni per cui Audrey Bennet prende il suo triplo caffè mattutino ai Tiri Vispi Weasley, invece che allo Starbucks dall’altra parte della strada o nel bar dell’università.
Genere: Commedia, Fluff, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Audrey, Lucy Weasley, Molly Weasley Jr, Percy Weasley | Coppie: Audrey/Percy
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Edax Rerum'
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Avevo iniziato a buttar giù questa oneshot mesi e mesi fa, quando ancora la challenge era molto più attiva di adesso; vuoi per altre ispirazioni, vuoi perché non ho gran dimestichezza con questo tipo di AU, dopo un po' l'ho parcheggiata per dedicarmi a progetti più "urgenti". L'ho ripresa in mano per partecipare alla challenge che ha dato origine alla raccolta God Rest Ye Merry Hippogriffs (cui non posso più iscriverla perché non l'ho finita in tempo, ma vabbè) e mi sono sorpresa a divertirmi tantissimo scrivendola. Non so a quantə di voi piacerà - come dicevo, non ho gran familiarità con i coffeeshop!AU - ma spero vi divertiate a trovare tutte le "variazioni sul tema" che ho introdotto per inserire i personaggi in questa ambientazione.
(Ah, non ho assolutamente nulla contro Starbucks. Qui viene nominato esclusivamente ai fini dell'ambientazione.)
Dialoghi e situazioni sono ovviamente ispirati a Omne Trinum Est Perfectum. Una sola nota importante: qui Audrey è stata trasformata in un'assistente universitaria per affinità col suo lavoro in OTP, ma tutti i dettagli in merito sono ispirati a quel che so delle università italiane. Non ho la più pallida idea di come funzioni il sistema britannico, perciò, se quanto ho scritto non è coerente con la realtà, vi prego di considerarlo un AU nell'AU. Idem per quanto riguarda ogni riferimento al lavoro negli studi legali britannici.
Buona lettura!

 






3: Ai Tiri Vispi

(Giorno 3, prompt 1: Coffeeshop!AU)





 

Ci sono tre ragioni per cui Audrey Bennet prende il suo triplo caffè mattutino ai Tiri Vispi Weasley, invece che allo Starbucks dall’altra parte della strada o nel bar dell’università.

La prima: il nome. Chi accidenti chiamerebbe mai un bar “Tiri Vispi”? Non ha nessun senso, zero, nada, rien, eppure i proprietari hanno deciso di dargli esattamente quel nome perché sì, al diavolo la logica e la dignità. Un tale coraggio merita di essere premiato, per come la vede lei. 

La seconda: l’ambiente. Il nonsense della denominazione si estende infatti all’interno del locale, arredato come — Audrey può solo immaginarlo — il salotto di una casa di campagna particolarmente confusionaria. L’unica stanza è ingombra di sedie scompagnate e tavolini decorati di centrini fatti a mano, e un angolo è occupato da un grosso divano in stoffa marrone su cui è buttata una coloratissima coperta a uncinetto. La pendola al lato opposto dell’entrata non segna mai l’ora giusta, ma il dong che risuona implacabile ogni sessanta minuti riscuote i cervelli annebbiati dal sonno mattutino meglio di un caffè in endovena. Ogni singolo mobile è pulito e comodo, e allo stesso tempo ha l’aria di essere uscito dritto dalla soffitta dei bisnonni dei proprietari — e probabilmente è proprio così.

La terza: i soldi. Con uno stipendio da assistente universitaria puoi permetterti ben pochi dei mocha-frappo-ciocco-cosi del succitato Starbucks, e la caffetteria dell’uni è frequentata da troppi studenti ansiosi di sapere se hai già corretto l’esonero di algebra lineare o di chiederti spiegazioni sul capitolo X del libro Y, perciò l’unica alternativa possibile è andare in un bar che non ti succhi via più soldi del dovuto garantendoti, al contempo, un caffè decente e la dovuta privacy. E il caffè dei Tiri Vispi, grazie al cielo, è decentissimo.

Per queste tre ragioni, ogni mattina Audrey Bennet se ne sbatte dei commenti dei colleghi e va a iniettarsi la sua dose vitale di caffeina in quel bar che non sembra un bar. Alle sette e mezza il posto è pressoché deserto, e lei ama approfittare di quella calma per correggere i compiti degli studenti o lavorare ai propri scritti. Oggi ha portato con sé la bozza stampata del suo ultimo articolo, un pet project che magari non vedrà mai la luce su alcuna rivista ma è la perfetta distrazione dal lavoro quotidiano e dalle deadline più urgenti. Chi avrebbe mai pensato che un argomento dal nome frivolo come “geometria sacra” fosse in realtà così affascinante e pieno di spunti?

Riflette tra sé mentre lascia vagare lo sguardo sui dolci, pregustando il momento in cui potrà mettersi seduta al solito tavolino e lavorare alla bozza. C’è un che di soddisfacente nel correggere gli articoli a mano piuttosto che al computer, il senso di star facendo qualcosa di concreto a dispetto di tutti quelli che considerano la sua carriera qualcosa di poco serio. Un dottorato? Ancora? Perché non ti trovi un lavoro vero? Alla tua età non vorresti qualcosa di più stabile, che ti permetta di comprare casa e mettere su famiglia? Lo diciamo per te, eh, perché siamo preoccupati che non combinerai mai nulla di buono nella vita, mica perché ci piace farci i cazzi altrui per non riflettere su quanto siano vuote e futili le nostre esistenze...

Uno schiarirsi di gola la riscuote da quei pensieri. Con la riacquistata lucidità, Audrey realizza che sta fissando con astio un’innocente danese con l’uvetta; distoglie allora lo sguardo e lo punta in direzione del bancone, curiosa di vedere chi c’è quel mattino.

I Tiri Vispi Weasley sono — sorpresa sorpresa — un bar a conduzione familiare, al cui banco ogni mattina si alterna una diversa testa rossa. Nessun dubbio riguardo alla parentela tra loro. Quella che si vede più spesso è una signora bassa e rotonda dal sorriso dolce che cerca sempre di convincere Audrey a prendere una brioche o una fetta di torta insieme al suo triplo caffè, perché non è sano rimanere a stomaco vuoto, cara, non fare complimenti, se non sei convinta te la offro io; talvolta la sostituisce un ragazzo robusto dalla battuta facile e il flirt ancora più facile, che ogni tanto scompare nel retro per fare scambio col suo gemello. La cosa esilarante è che fingono di essere sempre la stessa persona, e il trucco riesce loro così bene che Audrey ci ha messo un po’ a capirlo.

Non fossero così più giovani di lei, ci farebbe seriamente un pensiero.

L’ultima è una ragazza, probabilmente la più piccola della nidiata, atletica e chiacchierona già alle sette e mezza del mattino, i cui discorsi vertono sempre attorno a due argomenti: la squadra di rugby per cui gioca e il suo fidanzato. Audrey la trova terribilmente carina e simpatica e ama ascoltarla, ma in questo momento spera proprio che non ci sia lei dietro al bancone, perché il desiderio di mettersi a lavorare è più forte di quello di socializzare.

Beh, a quanto pare è fortunata. Il tizio che si frappone tra lei e la macchina del caffè non è la giocatrice di rugby, ma non è neanche uno dei gemelli. A dirla tutta, Audrey non lo ha mai visto prima. È alto e magro e dietro gli occhiali ha l’espressione più tetra del mondo, in stridente contrasto col grembiule magenta che tutti i baristi indossano lì; solo i capelli color fiamma permettono di identificarlo come appartenente alla schiera dei Weasley.

O quello, o i Tiri Vispi assumono solo pel di carota.

«Buongiorno,» mugugna. «Cosa le preparo?»

«Il solito,» risponde Audrey prima ancora di rendersene conto, e beccandosi subito un’alzata di sopracciglio in risposta. Certo. Difficile che uno che non hai mai visto ti dia il solito. «Scusa, volevo dire... un triplo caffè.»

«Caldo? Freddo? Macchiato?»

«Normale. Cioè, caldo.» 

«Basta?»

Oh, santo cielo. Audrey non è mai stata di quelle persone che pretendono gioia e simpatia dai loro baristi, specie alle sette e mezza del mattino che è un orario abbastanza infame per tutti, però non le dispiacerebbe se quel tizio si dimostrasse un po’ meno… scocciato? Annoiato? Disgustato da tutto ciò che lo circonda?

Si morde la lingua e torna a osservare la danese che ha perforato con lo sguardo poco prima. Ma sì, male non può farle.

La indica al barista scontroso, il quale annuisce e gliela mette da parte. «Si vada pure a sedere, le porto subito tutto.»

Oh? Anche quella è una novità, visto che né la signora dal sorriso dolce né gli altri figli si sono mai offerti di portarle la colazione al tavolo. Un punto per il tizio con gli occhiali. Audrey paga, lo ringrazia con un sorriso — non ricambiato — e va al solito tavolino accanto alla pendola.

Si siede e, come d’abitudine, sposta di qualche centimetro la lampada Tiffany per fare spazio alle bozze. Oggi il locale è vuoto e silenzioso, ma il lieve rintocco della pendola sopperisce alla mancanza di brusio di fondo e l’aiuta a dare un ritmo ai propri pensieri; afferra la penna, cerca il punto in cui si è interrotta il giorno prima e, con un familiare pizzico di soddisfazione allo stomaco, inizia a correggere.

Di quando in quando tende l’orecchio in direzione del bancone, resistendo alla tentazione di sbirciare per non far sentire il barista nuovo in difficoltà. Avverte il rumore della macchina del caffè, poi un sibilo e un’imprecazione a bassa voce da cui si può dedurre che il ragazzo ha ancora bisogno di un po’ di pratica; il cigolio della porta che dà sul retro, un parlottare concitato — coi gemelli, forse? — infine uno sbuffo e, di nuovo, i rumori della macchina del caffè. Quando finalmente la sua colazione arriva, sono passati almeno dieci minuti.

«Scusi il ritardo,» borbotta il tizio, e Audrey nota che ha le orecchie ferocemente arrossate. 

«Nessun problema.» 

Gli fa posto sul tavolo e lo ringrazia, per tornare subito alla bozza; sbarra e riscrive un paio di parole, appunta una citazione a cui manca una fonte, e le ci vogliono dieci secondi per accorgersi, con la coda dell’occhio, che il tizio non si è mosso da lì.

«Uhm… serve qualcosa?» chiede alzando la testa. 

Lui non risponde subito, intento com’è a osservare i fogli stampati. Apre la bocca e la richiude, indeciso, e finalmente si schiarisce la gola. 

«Ehm… è una tesi, quella?» 

«Questa? Oh, no, è solo una bozza di articolo scientifico.» 

Il tizio tentenna ancora. Oh, no, stanno per arrivare le domande. Su cosa si concentrerà? Sul suo scrivere a mano? Sull’argomento dell’articolo? In genere, quando un perfetto estraneo decide di fare commenti non richiesti, questi spaziano dal Ma perché non correggi direttamente al PC che è più comodo? al Ma chimica e matematica non sono materie da uomini?, e ogni tanto qualcuno di particolarmente spiritoso ci mette pure un Ah ma sei un’assistente? Pensavo fossi una studentessa, sembri così giovane!

Farebbe pure ridere, se non glielo dicessero ogni. Singola. Volta.

Alla fine, dopo essersi mordicchiato l’interno della guancia, il tizio si decide. «C’è una virgola tra soggetto e verbo. Quindicesima riga dall’alto.»

Audrey sgrana gli occhi. Okay, quello non glielo ha mai detto nessuno. Guarda la bozza e sì, cazzo, il tizio ha proprio ragione: una virgola tra soggetto e verbo, roba per cui lei stessa bastonerebbe senza pietà i propri studenti.

«Oh, merda!» geme e si affretta a segnare l’errore. «Grazie,» bofonchia poi. «L’ho riletto così tante volte che ormai non vedo più i refusi.»

«In questo caso… ehm… forse vuole controllare anche l’ortografia di “parallelogramma”. L’ha scritto più volte senza la doppia L.»

«Cos…»

Merda. Ha di nuovo ragione. Masticando un’imprecazione tra i denti, più per lo scorno di essere stata corretta da uno sconosciuto che per l’errore vero e proprio, Audrey segna in alto sul foglio di ricontrollare tutte le occorrenze di “parallelogramma”. Mentre sta per ringraziare di nuovo il tizio e magari aggiungere una battuta che non la faccia sembrare una completa rincoglionita, tipo si vede proprio che ho bisogno di caffè, eh?, sente di nuovo il cigolio della porta sul retro e, quando alza la testa, si rende conto di essere rimasta sola.

 

*

 

Sono di nuovo le sette e mezza di mattina, e il tizio con gli occhiali è di nuovo al bancone del bar. Inconsueto. Audrey ha notato che, sebbene non ci sia proprio una rotazione tra i vari Weasley, c’è quantomeno un’alternanza ed è raro che i più giovani si facciano due giorni di lavoro di fila. Beh, poco male: visto che ieri, quando è andata via, il tizio non era ancora uscito dalla cucina, magari oggi ne può approfittare per ringraziarlo della sua correzione di bozze improvvisata.

«Buongiorno.»

Lui le dà le spalle mentre sistema alcune tazze su un ripiano piuttosto in alto, operazione che gli riesce facile grazie alle lunghe braccia; appena sente la sua voce, sobbalza e una tazza gli scappa di mano, infrangendosi a terra.

«Merda,» sibila tra i denti. Subito però si ricorda di non essere da solo, guarda Audrey e sbianca.

«Oh, ehm… m-mi scusi tanto,» farfuglia, il rossore che gli crepita istantaneo dal collo al viso. «Io non, ehm, non avevo, non…»

«Nessun problema,» si affretta a dirgli. 

Tutt’altro che rassicurato, il tizio guarda i cocci a terra e le fa cenno di aspettare, poi corre nel retro e ne ritorna come un fulmine con scopa e paletta. «Mi dispiace moltissimo,» borbotta dopo aver sistemato il danno. «Cosa vuole? Cioè, no, volevo dire… cosa posso prepararle?»   

Santo cielo. È persino più impacciato e inesperto di quanto Audrey avesse immaginato. Perché diavolo i suoi colleghi lo tengono a lavorare da solo, invece di, tipo, affiancarlo durante il primo periodo? Un punto in meno per la signora, la rugbista e i gemelli.

Chiede un triplo caffè e, per facilitargli al massimo le cose, gli consegna i soldi già contati. Lui li riconta lo stesso, ormai paonazzo fino alle orecchie, poi si mette in tutta fretta alla macchina del caffè. Quando le porta il suo ordine al tavolino, sono passati solo cinque minuti.

«Mi scusi ancora, dottoressa. Sono costernato.» 

Sembra davvero mortificato — fin troppo — per il piccolo incidente, ma non è questo a far aggrottare la fronte a Audrey. Dottoressa? In genere, il massimo che si becca dagli sconosciuti è “signorina”.

«Come sai che sono una dottoressa?»

Il tizio la guarda come se gli avesse chiesto la radice cubica di un numero immaginario. «Io… beh…» si aggiusta occhiali e capelli in rapida sequenza, sebbene siano entrambi a posto. «Ecco, ieri stava correggendo la bozza di un articolo scientifico. Visto che qui vicino c’è la facoltà di Scienze ho pensato che potesse essere un’universitaria, ma se fosse una studentessa probabilmente non pubblicherebbe articoli, perciò può essere solo una dottoranda o una professoressa. Ma mi sembra, con tutto il rispetto, un po’ giovane per essere una professoressa. Perciò…»

«Oh.» Il ragionamento non fa una grinza, e causa a Audrey un sorriso spontaneo. «Sì, è corretto. Sono un’assistente di algebra.»

Si aspetta che il tizio reagisca in qualche maniera a quella conferma della sua deduzione, invece lui fa solo un cenno secco con la testa, come a dire “sì, lo sapevo già”. «A questo proposito, uhm… io, ecco, credo di doverle delle scuse.» 

«Delle… scuse?»

«Sì. Per il mio comportamento di ieri.» Di nuovo la mano agli occhiali e ai capelli. «Non avrei dovuto, uhm, permettermi di correggere il suo lavoro. Mi dispiace.»

Audrey sente le proprie sopracciglia alzarsi fino alla sommità della fronte. «Ma… scherzi, vero? Io volevo ringraziarti per l’aiuto!»

«…davvero?»

«Certo! Non sono molto brava a trovare i refusi nei miei stessi scritti, quindi mi hai fatto un favore enorme. E devo proprio farti i complimenti, hai un occhio di falco.»

È più che consapevole dell’ironia di dire a una persona miope che ha un “occhio di falco”, tuttavia il tizio non sembra coglierla, tutt’altro: le sue guance si riaccendono, ma stavolta è un rossore molto più moderato di prima.

«Oh.» Sposta il peso da un piede all’altro. «Io… mi scusi, non sono abituato a tutto questo. Non è quello che mi viene detto di solito quando correggo qualcuno.»

«Ah no? E cosa ti dicono di solito?»

«Che sono un rompipalle.»

Lo dice in un tono così grave che Audrey non riesce a trattenere una risata — o meglio, un verso sguaiato che si riverbera nel bar e che la obbliga a tapparsi la bocca con una mano per fermarlo.

«S-scusami, non volevo,» balbetta mentre diventa il suo turno di avvampare furiosamente. L’imbarazzo però svanisce in fretta nel momento in cui si accorge che, per la prima volta, il tizio sta sorridendo — un sorriso timido e microscopico, ma sempre un sorriso. 

Un bel sorriso, tutto sommato. 

Audrey vorrebbe ricambiarlo, ma proprio allora entrano due clienti, e il tizio è costretto a correre al bancone.

 

*

 

Il terzo giorno le sorride di nuovo, appena la vede entrare nel bar. Il quarto giorno le prepara il triplo caffè prima ancora che lei lo chieda. Il quinto giorno… è sabato, e Audrey non va all’università, ma il lunedì successivo lo ritrova sempre lì al bancone e il suo stomaco fa un saltello.

«Buongiorno, dottoressa,» la saluta come al solito. Il modo in cui pronuncia la parola “dottoressa” fa sempre cose al suo ego, perché lo dice con un tale sottofondo di genuino rispetto da farlo sembrare il titolo più importante del mondo.

«Buongiorno.» Si avvicina al bancone e nota che oggi il tizio ha una targhetta col nome appuntata sul grembiule magenta. «Ti chiami… Percival? O Perseus?»

Lui si guarda la targhetta e fa una piccola smorfia. «Ehm… nessuno dei due. Non è un diminutivo, è… solo Percy.»

Non serve un dottorato per capire che non è soddisfatto di quel nome così breve. «Bello,» commenta Audrey con un gran sorriso. «Come Julian, Shelley e la Primula Rossa. Un nome significativo.»

Lui aggrotta la fronte. «Gli ultimi due sono familiari, ma il primo mi è del tutto ignoto.»

«Non sai chi era Percy Lavon Julian?»  

«Temo di no.»

«Ma è importantissimo! È stato un grandissimo scienziato, uno dei primi afroamericani a ricevere il dottorato in chimica, e ha gettato le basi di una marea di studi in ambito farmaceutico. Sai che è stato il primo a sviluppare il cortisone sintetico? E che…»

Senza nemmeno rendersene conto, inizia a riversargli addosso tutto quello che sa sul suo scienziato preferito — perché sì, algebra le piace, ma è pur sempre laureata in chimica e il primo amore non si scorda mai. Parla e parla e Percy non fa mai cenno di interromperla, anzi si appoggia coi gomiti al bancone per ascoltarla meglio, l’espressione rapita di chi voglia davvero saperne di più. Si ferma solo per metterle davanti il triplo caffè che Audrey non ricorda di avergli chiesto, e lei si ferma solo per berne qualche sorso; a un certo punto le sembra che la porta che dà sul retro si apra e si richiuda velocemente, ma è troppo concentrata sul vago sorriso di Percy e sui suoi occhi azzurri e attenti per darci troppo peso.

Parla, e parla, finché la sua collega Portia non le telefona per chiederle dove diavolo sia finita. Solo allora si accorge di quanto è in ritardo, si scusa con Percy e scappa via, sebbene a malincuore.

E forse è la sua immaginazione, ma anche lui sembra piuttosto dispiaciuto di vederla andar via.

 

*

 

Per le prime due settimane è quasi sempre lei a parlare, e lui a fare domande. Lo interessa qualunque cosa — le sue materie, com’è la vita da assistente, se si trova bene nell’ambiente universitario — e benché Audrey sappia benissimo che la gentilezza è parte integrante del lavorare col pubblico e che quindi non c’è altro dietro a quella curiosità nei suoi confronti, non le dispiace comunque ricevere un po’ di attenzione. È la ragione per cui ama essere un’assistente, d’altronde. Così, tutte le volte che i Tiri Vispi sono vuoti a parte loro due, diserta il solito tavolo — e il lavoro, urgente o meno — e si mette al bancone a chiacchierare col suo barista preferito.

Le tocca insistere parecchio affinché lui smetta di chiamarla “dottoressa” e passi a “Audrey” — e ogni tanto gli scappa comunque, quella parola, ma è sempre talmente intrisa di sincera stima che lei non riesce a rimproverarlo. E le tocca insistere ancora di più perché sia lui a parlare di sé. Poco a poco scopre che è laureato in diritto internazionale e che sogna una carriera diplomatica, ma per il momento deve accontentarsi di ruoli da tuttofare sottopagato in qualche studio legale; che gli impiegati dei Tiri Vispi Weasley sono in effetti sua madre, sua sorella e due dei suoi fratelli, e che altri tre sono sparsi in giro per il globo; che non ha mai lavorato lì prima d’ora, ma i gemelli hanno scommesso che non sarebbe stato in grado di occuparsi del bar tutti i giorni per un mese e ha intenzione di dimostrare che hanno torto.

Scopre che qualche anno fa sosteneva il partito promotore della Brexit — il che gli fa perdere molti punti — ma che poi ha avuto un ravvedimento operoso e ora milita per un partito di ideali diametralmente opposti — il che glieli fa riguadagnare — e pur non avendo legami con la Scozia ne sostiene l’indipendenza per una questione di mera giustizia — e poco ci manca che Audrey, scozzese da generazioni, scavalchi il bancone e lo abbracci. Scopre che ama leggere, e che da bambino il suo sogno era diventare abbastanza ricco da comprarsi tutti i libri che voleva. 

Che essere il terzo figlio è sempre stato pesante per lui, mai il più piccolo o il più grande, solo uno nel mezzo a cui nessuno dà retta — o almeno, questa è stata la sua sensazione crescendo, a posteriori però vede bene che non è mai stato così. Che uno dei suoi zii insegna alla facoltà di Scienze — il professor Prewett, lo conosci? le chiede, e Audrey strabuzza gli occhi nel realizzare che sta parlando proprio del suo relatore.

Scopre che si tocca gli occhiali quando è in difficoltà e che le sue mani non stanno quasi mai ferme — è tutto un picchiettare nervoso delle dita, spostare oggetti, tracciare le linee del bancone. Scopre che quando parla di argomenti che lo appassionano si illumina tutto, e il suo entusiasmo è contagioso, anche se si tratta di cavilli legali e differenze tra sistemi giuridici di diversi Paesi. Che se appoggia i gomiti al bancone e si piega in avanti verso di lei, riesce a contargli le lentiggini che gli attraversano il viso.

Scopre che il suo sorriso le piace davvero, davvero tanto, e le piace essere lei a provocarglielo. Che le piace guardarlo, quasi quanto le piace parlargli. E che andarsene dal bar per recarsi in università diventa un po’ più difficile a ogni giorno che passa.

 

*

 

«Va tutto bene?»

Il no che la faccia di Percy esprime potrebbe essere più evidente solo se se lo scrivesse in fronte con un pennarello. «Certo,» mugugna tuttavia. «Solo un… disaccordo tra fratelli.» 

Così dicendo guarda in direzione della porta chiusa sul retro, e neanche a farlo apposta si sente una risata provenire da lì. Audrey reagisce con una smorfia. A lei i gemelli stanno simpatici da quel poco che li conosce, ma è pur vero che non ci ha dovuto convivere per vent’anni, e può solo immaginare quanto possa essere impegnativo averli come fratelli.

«Mi spiace.» 

«Mh, in realtà dovevo aspettarmelo.» Si aggiusta gli occhiali con fare sbrigativo. «Siccome il mese è agli sgoccioli e sto vincendo la scommessa, devono inventarsi nuovi modi per mettermi in difficoltà.»

Audrey sbuffa una risata. «Hai gestito da solo un bar per quasi un mese di fila, cosa diavolo potrebbe metterti in difficoltà?»

Lui non ricambia il buonumore. All’improvviso sembra di nuovo il tizio impacciato e a disagio di qualche settimana prima. «Ecco… n-no, niente.»

«Dai, adesso sono curiosa.»

«È una scemenza, davvero, non vuoi saperla.»

Audrey alza un sopracciglio e gli scocca l’occhiata più-che-collaudata con cui castiga i suoi studenti quando sbagliano risposta. Funziona. Percy impallidisce e arrossisce in rapida sequenza, infine china il capo e dice qualcosa a voce bassissima.

«Come, scusa?»

«Ho detto…» si schiarisce la voce, che però rimane poco più di un sussurro. «Hanno scommesso che non verresti mai a cena con me, se te lo chiedessi.»

Il dong inaspettato della pendola la fa sobbalzare. «Te l’ho detto, è una scemenza,» aggiunge Percy in tutta fretta, arrossendo come mai prima d’ora. «Non è… è solo per infastidirmi, davvero, n-non devi prenderlo sul serio, i-io…»

Farfuglia qualcos’altro che Audrey non sente, impegnata com’è a processare quella novità. L’idea che Percy voglia andare a cena con lei non le è mai, mai passata per la testa: sì, chiacchierano tutte le mattine, e sì, lui sembra piuttosto felice quando non ci sono altri clienti nel bar a parte lei, ma lo ha sempre interpretato come una normale cortesia verso una cliente e nient’altro. Ragion per cui, pur essendosi arresa al fatto di avere una cotta per quel tizio, ha evitato qualsiasi atteggiamento potesse somigliare a un flirt — per non rischiare di mettere in difficoltà un poveraccio che cerca solo di fare bene il proprio lavoro, che magari ha già un ragazzo o una ragazza e di tutto ha bisogno fuorché una fonte di imbarazzo. 

Quello, però, crea uno scenario del tutto nuovo.

«Quindi… scusa, non ho capito,» Audrey agita le mani per fermare il suo balbettio. «Hai accettato la scommessa oppure no?»

Lui spalanca la bocca, scandalizzato. «Cos… no, certo che no!»  

«E perché?»

«Perché… perché non voglio mancarti di rispetto.» Si tocca di nuovo gli occhiali, mortificato. «Non potrei mai… invitarti a uscire con me per una stupida scommessa, sarebbe terribilmente irriguardoso.» 

Che è diverso da non potrei mai invitarti a uscire con me punto e basta. Il cervello di Audrey assorbe l’informazione, la mette insieme alla vista di Percy che sembra sul punto di nascondersi nella prima credenza disponibile, e alla fine prende la decisione.

«Di’ loro che accetti.»

Percy allarga gli occhi in maniera così comica che per non ridere Audrey deve mordersi la lingua. «P-prego?»

«Va’ dai tuoi fratelli e accetta la scommessa, poi torna di qua.»

Il senso di quelle parole ci mette qualche secondo a penetrare lo shock di Percy. Quando ci riesce, un piccolo sorriso gli sbuca sulle labbra. 

«Dici che potrei vincerla?»

Audrey fa spallucce, anche se in realtà si sente sul punto di schizzare fuori dalla propria pelle. «Chissà? Lo scoprirai al tuo ritorno, se ti sbrighi.»

Il sorriso arriva a toccare le orecchie, e mentre Percy si precipita nel retro come se avesse un razzo alle calcagna, Audrey se ne sente nascere uno ancora più grande in viso.

 

*

 

«Non era proprio questo a cui pensavo quando mi hai offerto un caffè dopo cena.»

«Ti stai lamentando?»

Finge di rifletterci mentre le labbra di Percy fanno qualcosa di assolutamente osceno al suo collo. Merda. Deve tenere un seminario domani. 

Le toccherà mettersi una sciarpa. 

«Nah,» risponde infine. «Solo un’osservazione.»

«Mh.»

Osservazione veritiera. La proposta di Percy sembrava la classica scusa per invitarla a casa propria a concludere la serata — una serata andata molto, molto, molto bene — pertanto Audrey l’ha accettata senza nemmeno pensarci su. Grave errore, di cui si è resa conto solo quando l’ha seguito attraverso un’anonima porta del quartiere universitario e si è ritrovata dentro ai Tiri Vispi, dietro al bancone.

«Non ho caffè in casa,» ha spiegato lui con una scrollata di spalle, prima di portarle le mani ai fianchi e baciarla contro il registratore di cassa.

«Quindi è questo che fai di solito?» Seduta sul bancone, le gambe avvolte attorno alla sua vita, Audrey infila le dita tra i capelli di Percy e lo costringe a staccarsi per guardarlo. «Porti le ragazze qui per sedurle con la promessa di un caffè?» 

«Io? Mai.» Il suo viso è ancora più gradevole senza occhiali, o forse è la luce languida nei suoi occhi a fare quell’effetto. «Fred e George sì, invece, e sospetto che anche Ginny ci porti Harry ogni tanto. Motivo per cui siamo qui al bancone, invece che sul divano.»

«Non stiamo infrangendo, tipo, dodicimila norme sanitarie?»

«Di più, molte di più.»

«Ti toccherà pulire bene. E disinfettare.»

«Tanto domani non sono di turno.» Si sporge a mordicchiarle un labbro. «Ho finito il mio mese di lavoro qui.»

La realizzazione le causa una stretta nel petto. «Sarà strano venire la mattina e non trovarti.» 

«Non è detto. Ricordi quello studio legale internazionalista presso cui ho fatto un colloquio, Crouch&Crouch?» 

«Sì?» 

«Mi hanno preso. Comincio la settimana prossima. E visto che si trova proprio a due passi da qui… immagino che diventerò cliente fisso dei Tiri Vispi. È molto meglio dello Starbucks, dopotutto.» 

La stretta si scioglie, trasformandosi in una sensazione di calore che le avvolge il cuore e lo stomaco. «Grandioso,» mormora, riattirandolo a sé. «Sembra proprio che ci rivedremo spesso, allora.»

Lui le sorride contro la pelle. «Spero proprio di sì.» 

 

*

 

Ci sono cinque ragioni per cui Audrey Bennet prende il suo triplo caffè mattutino ai Tiri Vispi Weasley, invece che allo Starbucks dall’altra parte della strada o nel bar dell’università.      

La prima: il nome. Fred e George si rifiutano di spiegarle perché lo hanno scelto né cosa significhi, mentre Ginny e la signora Weasley non ne hanno la più pallida idea, ma lei sa che se insiste abbastanza prima o poi riuscirà a scoprirlo e così, tutte le volte che al bancone ci sono i gemelli, insiste.

La seconda: l’ambiente. Non è proprio uguale all’abitazione dei signori Weasley nel Devon, ma lo è abbastanza da far sentire Audrey a casa non appena vi mette piede; in ogni centrino a uncinetto può vedere la mano esperta e amorevole di Molly, e poiché non toccherà mai con un dito la coperta adagiata sul divano dei Tiri Vispi, è felice di sapere che ce n’è un’altra identica fatta apposta per lei nel suo appartamento.

La terza: i soldi. Perché mai dovrebbe farsi spennare il magro stipendio da assistente allo Starbucks, quando ai Tiri Vispi ha una quasi suocera e diversi quasi cognati ben contenti di offrirle la colazione più spesso che no? Non che lei se ne approfitti — continua a prendere sempre e solo un triplo caffè ogni mattina, e se di quando in quando accetta un dolcetto è solo per fare felice la signora Weasley — ma quella semplice attenzione nei suoi confronti le scalda il cuore.

La quarta: la compagnia. Audrey è sempre felice di vedere Fred e George, scambiare due chiacchiere con la signora Weasley e informarsi da Ginny sul suo ragazzo e la sua squadra di rugby: le piacciono tutte, quelle persone che l’hanno accolta nelle loro vite con sconcertante facilità e giusto un centinaio di prese in giro da parte dei ragazzi per via della sua, uhm, frequentazione. Le piace incontrarle, parlare con loro, le piace essere in grado di conoscerle meglio e sapere di essere parte della loro famiglia, anche se ci vorranno ancora molti, molti anni prima che ciò avvenga in maniera ufficiale e con tanto di firme su un foglio — se mai accadrà.

Ma la ragione più importante per cui non scambierebbe mai i Tiri Vispi con nessun altro bar del pianeta è il fatto che, tutte le mattine alle sette e mezza, trova il suo ragazzo già seduto al tavolino accanto alla pendola, la lampada Tiffany spostata in modo da fare posto ai compiti da correggere o alle bozze da rivedere. Tutte le mattine Percy alza la testa dai suoi atti giudiziari e le sorride, e tutte le mattine lei sente il medesimo saltello allo stomaco di quando lo vedeva dietro al bancone, col grembiule magenta e il caffè già pronto per lei.

Sì. I Tiri Vispi sono decisamente meglio dello Starbucks.





 

   
 
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