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Autore: Dorabella27    25/12/2021    11 recensioni
Qualche tempo fa, nel mese di luglio, pubblicai su questa piattaforma un racconto, una one shot cross over ispirata non solo ai personaggi di Ryoko Ikdea, ma anche al mio romanzo preferito, quello che mi ha fulminato sin da quando ero poco più che bambina, tanto da tradurmelo io stessa da sola dal francese, quello che, da sempre, ho associato a Oscar e André, quando immaginavo di vedere addirittura i personaggi dell'anime sbucare tra le inquadrature del film tratto dal libro, visto e rivisto sino allo sfinimento.
La one shot, "Aveva uno scopo", è stata accolta da un insolito favore, e molti mi hanno chiesto, anche in privato, un seguito, in cui ho cercato e cercherò, come spesso faccio, di alternare toni e sfumature. E dunque, ecco qui: la one shot diventa il primo capitolo di una long - non molto long, se mi conoscete bene, ormai - e, di seguito al primo capitolo, che qualcuno di voi conosce già, troverete subito il secondo. Come vi ricorderete, ci troviamo in una mattinata nevosa del dicembre 1782, e, in quel clima ovattato e fatato, il Comandante delle Guardie Reali, Oscar François de Jarjayes riceve una singolare richiesta ...
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes, Victor Clemente Girodelle
Note: Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno
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IX- Generi di primo soccorso
 
1 – “Ma quanto ci mette, quell’André?”, mormorò impaziente la contessa Hortense, tormentando nervosamente la sua lunga collana di perle. Adesso anche lei si era alzata, e, cercando di dissimulare la sua preoccupazione dietro al contegno da gran signora, stava ritta davanti alla finestra, insieme a Justine e agli altri personaggi che affollavano la biblioteca.
 
“Ci mette tutto il tempo necessario!”, rispose, inaspettatamente piccata, Mademoiselle Legris, per la quale ogni offesa contro Monsieur André, così buono e gentile, era un delitto.
 
“Certo che ormai nevica davvero fitto...”, mormorò Madame de Volanges, con la sua faccia smorta sotto la cuffia da brava chioccia di una casa ormai vuota.
 
Nel silenzio, tornato assoluto dopo quell’inane scambio di battute, la pendola battè i suoi cinque rintocchi forti e tre leggeri: di lì a poco sarebbe stato buio fitto. Una sensazione sgradevole pervadeva ormai i cuori di tutti.
 
“ECCOLI!!!! ECCOLI!!!!”, trillò a un tratto Justine, appoggiando entrambi i palmi alla vetrata – e pazienza se poi ci sarebbero rimaste impresse le ditate – quasi saltando per la gioia!
 
Da lontano, nel crepuscolo che ormai cedeva al buio, si profilava una figura indistinta, che la buona Justine, lettrice inesausta di romanzetti sentimentali dall’inevitabile lieto fine, aveva identificato come quella di Monsieur André che teneva fra le braccia Monsieur le Comte, cioè, Madamigella Oscar.
 
“Eccoli!!!!”, e, mentre Hortense, e Madame de Volanges tiravano un sospiro di sollievo, si precipitò fuori dalla porta, per organizzare l’accoglienza a “quella povera Madamigella Oscar”, certo bisognosa di un bagno caldo e di un fuoco ben vivo, di salviette calde, fors’anche di un impiastro di farina di semi di lino per evitare un malanno ai polmoni, oltre che, naturalmente, di una buona tazza di latte caldo col cognac per riscaldare lo stomaco ... ma venne fermata da Monsieur Laval, che la raggiunse con due passi e la prese per il braccio.
 
Mademoiselle Legris, attendete un minuto!|”
“Ma, Monsieur Laval, che cosa state facendo?”, chiese lei, scandalizzata, di fronte a quel contatto, sotto gli occhi della Contessa Hortense, della sua ospite, di altri membri della servitù.
 
“Ecco, io vorrei dirvi....”, titubò lui, sulla cui larga faccia cordiale era comparso un insolito rossore.
 
Monsieur Laval, decidetevi!” – il tono acido riemergeva subito, “Non ho un tempo eterno... Devo andare a dare disposizioni per...”
 
“Vi ruberò solo un istante, Mademoiselle Legris. Io so bene che il Natale è per voi giorno di lavoro, specialmente se in casa ci sono i padroni, ma.... tengo molto a darvi questo piccolo segno tangibile della mia ... ammirazione”, e così facendo cavò dalla tasca interna della marsina un minuscolo involto, che consegnò nelle mani di una strabiliata Justine. La quale, con dita tremanti, aprì la carta rossa decorata a gigli bianchi e trovò uno scatolino piatto e rigido di cuoio, aperto il quale scoprì, adagiata sul velluto color panna che rivestiva l’astuccio, una collana di giaietto, che barbagliava nella luce incerta della sera illuminata dalle candele. “Oh!”, potè solo esclamare Justine, mentre Monsieur Laval continuava, con voce profonda: “Ho pensato che il giaietto fosse la scelta migliore per far risaltare il vostro incarnato candido”, e, presa con le sue dita tozze, ma inaspettatamente delicate, la collana, la allacciò al collo della sempre più allibita governante, alla quale sembrava che il cuore dovesse balzare fuori dal petto dal un momento all’altro, sotto gli occhi sgranati di Hortense e di Madame de Volanges, mentre Marie, la cuoca e il lacché applaudivano, entusiasti: “Sì, evviva! Monsieur Laval,  ci siete riuscito! Finalmente!”.
“E se poi vorrete accettare il mio invito, potrei osare chiederVi”, continuò Monsieur Laval, fattosi ardito, “di concedermi, dopo la Messa domenicale di dopodomani, una passeggiata insieme sino alla Confetteria dei Frères Touchepied?”
“Oh, ma certo, Monsieur Laval”, soffiò, incredula, Justine, che sembrava aver recuperato a stento la parola. “Certo, naturalmente”, ripeté, arrossendo sino alla radice dei capelli, e poi, ficcatasi astuccio e carta nella tasca del grembiule bordato di pizzo, scappando giù per le scale verso la cucina.
 
“Che gabbia di matti”, mormorò, sferzante, la Contessa Hortense, uscendo dalla biblioteca seguita da Madame de Volanges.
 
2 – Ora che Oscar era a letto, e, con addosso una camicia da notte asciutta e la vestaglia sulle spalle, riscaldata, rifocillata e tranquillizzata, poteva riflettere con calma sull’accaduto.
Appena entrati in casa, André l’aveva fatta adagiare su una delle poltrne dell’ingresso, ai lati della porta, e, fattale allungare la gamba destra su uno sgabello imbottito, si era chinato sul suo piede, cercando di sfilarle lo stivale. Il lamento di dolore di Oscar aveva fatto capire che non era il caso di perseverare in quel tentativo, e allora, fattesi consegnare un robusto paio di cesoie da Justine, Andrè aveva tagliato lo stivale, liberando il piede  e la caviglia, che, appena sciolta dalla stretta dal cuoio, era apparsa paurosamente gonfia.
“Accidenti, Oscar, questa sì che è una caviglia slogata!”, aveva esclamato, mentre Justine e le altre cameriere accorse in frotta si tenevano le mani sulla bocca.
“Adesso provo a togliere la calza”, le anticipò André.
 
Oscar annuì. Dopo uno “Scusami, André: scusami, se puoi”, mormoratogli all’orecchio appena lui l’aveva presa fra le braccia, non aveva più detto una sola parola.
 
Tolta la calza, la caviglia, e parte del piede e della gamba poco sopra l’articolazione, apparivano non solo gonfi, ma anche lividi e ormai quasi anneriti.
 
“Oscar, per caso dopo aver appoggiato male il piede, hai sentito una specie di scricchiolio nell’articolazione?”, chiese André.
 
“Sì”, sussurrò lei, mordendosi il labbro inferiore.
 
“E ha raddrizzato il piede con forza per continuare a camminare?”.
 
Oscar annuì: evidentemente, la caviglia, compressa nello stivale, aveva più o meno retto sino a quando non era stata liberata dalla rigida prigione del cuoio.
“Beh, credo che per vedere un dottore dovremo aspettare che smetta di nevicare; ma per dirti che devi stare a riposo e non caricare la caviglia destra, posso bastare anche io”, aveva concluso André, prendendola ancora fra le braccia, e portandola in cucina, dove Justine aveva già predisposto tutti i suoi generi di conforto.
 
Oscar, mentre beveva il suo latte caldo, l’aveva giusto visto affacciarsi per un attimo alla soglia della cucina. Poi, dopo aver brevemente trafficato attorno al camino, André si era nuovamente allontanato.
 
Più tardi, quando Oscar, infilata una camicia da notte pesante e una vestaglia di calda lana, era ormai a letto, sotto le coltri soffici, André, preceduto dai tre colpi ravvicinati più uno, di qualche secondo successivo– il loro segnale segreto per annunciarsi nelle loro visite notturne – era entrato nella sua camera.
 
“Allora, come sta l’invalida?”
 
“Stupido...”, aveva sussurrato lei, sorridendo, mentre André prendeva posto sulla sedia imbottita di damasco azzurro, accanto al suo letto.
 
“Ricominciamo?”, aveva chiesto lui, sorridendo di rimando: e Oscar si era sorpresa sentendosi invadere da un senso di dolcezza e di calorosa pienezza, al solo vedere gli angoli della sua bocca incurvati all’insù e i suoi occhi verdi che la osservavano, sfavillanti, come se fossero puntati su ... un tesoro.
 
Sentì un vuoto nello stomaco, e un improvviso imbarazzo; eppure, quante volte André era stato nella sua stanza?
Quante volte, da bambini, avevano condiviso il letto? Appunto: da bambini ... puntualizzò la vocetta impertinente nella sua testa.
 
“È una vera sfortuna questa caviglia slogata ... avremmo potuto fare tante cose durante questa licenza ...”, disse lei, per riempire quel silenzio che, improvvisamente, le metteva addosso una sensazione di sottile disagio, e nel frattempo, si tirava su il lenzuolo e la coperta, come – vai a sapere perché –a coprirsi il seno, velato dalla sola camicia da notte.
 
“Oh, Oscar: sai, credo che dovresti prolungare un po’ questa licenza, almeno sino a quando la caviglia non sarà completamente guarita; certo, oltre le due settimane concesse da Sua Maestà”.
 
“Dovrei scrivere una lettera alla Regina....”, annuì lei, pensosa. “E poi a casa”, aggiunse, precipitosa.
 
“Naturalmente”, assentì André. “Per fortuna hai qui con te Hortense che ti può degnamente accudire ...”, aggiunse André, sorridendo lieve, con la sua espressione ironica e sorniona; e intanto, cavata dalla tasca del giustacuore una scatolina di carta dall’aria ammaccata, ne toglieva un oggettino in fil di ferro, che appoggiava sulle coperte, sul copriletto celeste, nel piccolo spazio fra le sue dita e quelle di Oscar, che sfoderò un sorriso da bambina, una bambina ai lati della cui bocca facevano bella mostra di sé due irrestibili fossette, mentre la sua mano andava oltre il metallo, a sfiorare, e poi a stringere, quella di lui.
 
3- Oscar l’aveva osservato, senza dire una parola. Quando André si alzò, dicendo, con semplicità: “Ceneremo con Hortense nel salottino cinese, vuoi? Ti avviso che tua sorella è stata irremovibile”, lei annuì, senza togliergli gli occhi di dosso. Poi, mentre lui le aveva già girato le spalle e si era diretto verso la porta, un impulso irresistibile, cui, per la prima volta in vita sua, decise di non sottrarsi.  “André, io...:”
 
“Posso esserti utile in qualcosa, Oscar?”, le chiese lui: la solita domanda gentile, proferita con la sua espressione più rilassata, gli occhi due laghi verdi, tornando verso di lei.
 
“Io devo ... voglio ... dirti grazie ... per oggi ... e non solo”
“Certo”.
“Potresti restare ancora qui?”
“Dovrei aiutare Justine in cucina, in verità: gliel’ho promesso: la presenza della Contessa Hortense la rende molto agitata”.
“Aiuta me, invece”, si sentì dire, incredula (Come aveva trovato ....il coraggio? Che cosa aveva detto?)
“Certo, Oscar: che cosa posso fare per te?”
“Resta qui”, ripeté.
Sono qui”, disse André, rimettendosi nuovamente sulla sedia da cui si era appena alzato
.
“Qui”, e fece cenno, con la mano un po’ tremante, alla sponda del letto, poco lontano da dove era sdraiata, ponendo le dita, incerte, sulla coperta.
Silenziosamente, André obbedì. E dalla sedia si trasferì a sedere sul letto, sull’angolo, la schiena rivolta verso il capezzale, il busto lievemente ruotato, per guardarla negli occhi.
 
“Io ... non vorrei sbagliarmi ... ma.... se sbaglio. .. ti prego ... dimmelo ...”, sussurò Oscar, e, avvicinato il volto al viso di lui, diede a un André tramortito dallo stupore, un bacio leggero, a fior di labbra, arrossendo violentemente, e ritraendosi subito.
 
“Ho sbagliato, lo so ...”, sussurrò ...”Ma ... “
“Ma ... che cosa?”, sussurrò di rimando lui, passandosi, lieve, le dita sulle labbra, con una espressione incredula.
“Ma non potevo più aspettare!”, disse lei, di getto, quasi esasperata. Accidenti, ma perché era tutto così dannatamente difficile?!
Tu non potevi più aspettare, Oscar?”, le domandò André, con aria indefinibile.
Oscar entrò nel panico. Ecco, lo sapeva, aveva sbagliato. Ci aveva pensato tanto, tanto, troppo, e poi aveva fatto la cosa sbagliata: aveva equivocato, ecco. Che cosa era andata a pensare? Che cosa le aveva preso? Che vergogna ... che gesto imperdonabile. E adesso? Adesso?? Aveva rovinato tutto, lo sapeva. Cioè...se non c’era niente, non aveva rovinato niente. E se invece... no, impossibile. Aveva sbagliato. Accidenti alla Marchesa...e a lei, certo.
 “Ecco, io.-... ”, voleva dire, tentando di giustificarsi; e voleva scusarsi, dire che non era nel suo stile, non voleva, non voleva proprio, ma evidentemente quella giornata ... quando si sentì abbracciare d’impeto, e stringere tanto forte da sentire quasi male alle costole, e da sentire, vicinissimo, l’odore di sapone di Marsiglia della pelle di lui.
 “TU non potevi più aspettare, Oscar?”, le ripeté André, ridendo. “IO non posso più aspettare!”, esclamò, con gli occhi sfavillanti di qualcosa che doveva essere certo più dell’amicizia e del semplice affetto, e la baciò di slancio.
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E così, eccoci qui: un po’ favola di Natale? Sì, lo so. Ma lasciatemi sognare, ché il Natale a me non piace proprio e questo è anche un modo per riconciliarmi un pochettino con il periodo. Ma attenzione: il racconto non è finito! Ovviamente, con il noto senso della sintesi di Dorabella, dove doveva esserci un capitolo, ne sono nati due. Il prossimo capitolo, l’ultimo, è in fieri, e, con un piccolo sfasamento temporale, entro domani posterò anche quello.
Intante, grazie a voi che, saturi di panettoni e di mostarda, avete fatto, ancora, la fatica di leggere. Buona serata di Natale, e buon “ribattino” domani!
 
 
   
 
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