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Autore: settembre17    25/12/2021    15 recensioni
“Nessuno mai sulla terra
ha scoperto da parte d’un dio
un segno certo di ciò che sarà;
la cognizione del futuro è cieca.
Molte cose succedono agli uomini
contro il piacere; altri s’imbattono
in un vortice di pene
e mutano in breve il male
in un bene profondo”
(Pindaro, Olimpica XII)
Il temutissimo (per chi scrive) finale dell’episodio 28 e l’inizio dell’episodio 29. Da qui parte questa piccola storia. Nei primi capitoli il tempo scorre molto lentamente, più all’indietro che in avanti, poi la vicenda procederà secondo una strada diversa da quella originale.
Come sempre nei miei racconti, più introspezione che avventura.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAP. 5 Lontani?

 
Chiuse il registro sul quale aveva lavorato tutta mattina e poi stese le gambe stiracchiandosi e inarcandosi sullo schienale della sedia. Il suo lavoro in Normandia poteva considerarsi pressoché concluso e si avvicinava il momento di tornare a palazzo Jarjayes, a quella che aveva sempre chiamato “casa”. Lo sarebbe stata ancora?  Decise di rimandare ogni questione legata al suo futuro e si concentrò su quello che lo attendeva quel pomeriggio.
 
Un funerale.
 
Si rivide, un paio di settimane prima, nello studio del generale:
“André, ho bisogno di te. Devi andare alla villa in Normandia, oggi stesso, subito.”
“Signore, io…” cerca un modo per dirgli che la sua posizione in quella casa è cambiata da quando la sera prima… Si passa la mano sulla fronte per scacciare pensieri che non possono avere spazio in quel momento.
“Ascolta, André, io non so che cosa stia passando per la testa di Oscar in questi giorni, ma ieri sera a cena ha accennato al fatto che d’ora in poi vuole “cavarsela da sola”, così mi ha detto. Ecco, il modo in cui l’ha detto… ti ha congedato dal suo servizio, vero?”. Incredibile come quell’uomo così cieco su tante cose, in certi momenti avesse la vista più acuta di un falco.
“…sì.” abbassa lo sguardo e china il capo. Nel farlo sente quel male alla testa spostarsi dietro le palpebre e al centro delle sopracciglia.
“Va bene. Quindi, visto che non hai più obblighi nei suoi confronti, io voglio che tu ti occupi di un grave problema che richiede l’intervento immediato di una persona intelligente, fidata e discreta.”
“Come volete, signore”, la solita risposta obbediente sostituisce il “No!” che vorrebbe urlare. E il cerchio alla testa aumenta e gli impedisce di rimanere lucido.
“Ieri sera ho ricevuto una lettera dalla figlia di Mabeuf. André.”
Monsieur Mabeuf…” alza la testa sentendo quel nome, così estraneo alla quotidianità di palazzo Jarjayes.
“Sì, l’amministratore della proprietà in Normandia. La figlia dice che la malattia del padre si è aggravata e che ora lui è in punto di morte. Come sai, Mabeuf ha solo lei, non ha avuto figli maschi e quindi non posso passare l’incarico a un suo erede. Sai anche che, benché io abbia sempre ammirato il suo fiuto per gli affari e la sua efficienza amministrativa, non mi sono mai fidato fino in fondo di quell’uomo.”
“Lo so, signore. Mi avete sempre detto di tenerlo d’occhio quando io e…”, deglutisce e avverte una fitta al petto, “quando andavamo alla villa d’estate.”
“Esatto. Ora, André, io temo che Mabeuf approfitti del poco tempo che gli rimane per chiudere qualche losco affare alle mie spalle.”
“Ma a quale scopo, signore?”
“Allo scopo di dare una dote cospicua a sua figlia e così farla sposare con qualche nobile spiantato in modo che abbia sia il titolo nobiliare sia la sostanza, per esempio! Del resto questi scandalosi matrimoni tra nobili e gente del popolo paiono diventati frequenti ultimamente”, chiude il generale con una certa stizza.
“Che cosa volete che faccia, allora?” avverte un nodo alla bocca dello stomaco e sta facendo uno sforzo notevole per mantenersi distaccato.
“Voglio che tu vada immediatamente laggiù, che tu prenda i registri e i libri contabili e confronti le cifre dell’ultimo anno con quelle degli anni precedenti per vedere se ci sono ammanchi, cifre che non ti tornano, capito?”
“Certo, signore.” Ormai asseconda gli eventi, si sente galleggiare in un mare deserto: lui come sdraiato sulla superficie dell’acqua, le braccia aperte e gli occhi chiusi contro la luce del sole e la corrente che lo trasporta, peso privo di volontà, alla deriva. Gli arriva da quella distanza la voce del generale:
“… e poi voglio un inventario di tutti i beni della villa: quadri, mobili, oggetti di valore…”
Lui si riscuote: “Ma signore, non credete che una verifica così minuziosa possa sembrare…” non riesce a cercare nel suo vocabolario una parola appropriata alla differenza di rango che li separa per dirgli che i suoi scrupoli altro non sono che accuse non troppo velate all’onestà di un uomo che da trent’anni si prende cura di quel posto.
“No, André. Io non credo più a niente di questi tempi e non mi importa che cosa può sembrare. Dopo il Cavaliere Nero, dopo aver sentito quello che si dice in giro sui nobili e sulla famiglia reale… No! Io non mi fido più di questa gente del popolo che ci odia, capisci?, ed è pronta a tutto pur di… Basta! Voglio che tu parta, ti ci vorrà almeno un mese per fare tutto.”
 
“questa gente del popolo… che ci odia…” aveva pronunciato quelle parole con un tono, il generale, e le aveva accompagnate con uno dei suoi sguardi eloquenti, dritto nell’unico occhio di André, come se nelle due parti contrapposte, quella “gente del popolo” e quel “noi”, desse per scontata la presenza di André nella seconda. André si alzò e si diresse verso il camino che si stava spegnendo. Ravvivò la fiamma e poi si mise a spostare oziosamente la cenere disegnando forme circolari con la punta dell’alare.
Questa gente del popolo… ma il generale si era accorto che stava parlando con lui? Con uno del popolo? E poi aveva aggiunto quel “ci”, “ci odiano”, come se volesse comprendere anche lui tra i nemici del popolo…
Se non si fosse trattato del generale avrebbe riso, ma non gli veniva da ridere: quell’uomo che aveva volutamente cresciuto una figlia femmina facendole credere di essere un maschio ora confondeva lui con una specie di aristocratico? Si sarebbe mai accorto quell’uomo convinto di poter imporre la sua volontà persino sulla natura di non poter ridurre sé stesso e le persone che aveva intorno al ruolo che desiderava, che nessun essere umano può essere ridotto a un’unica definizione? Che lui stesso era generale ma anche padre, servitore fedele del re ma anche esempio di una rigorosa morale che ben poco aveva a che fare con le depravazioni della corte; marito per contratto ma sposo per amore? Che aveva preteso da sua figlia che se la sapesse cavare contro tutto e contro tutti ma che, per anni, ogni giorno ricordava a lui, ad André, di vegliare su di lei e di fare in modo che non le succedesse nulla? Che lui per primo, lontano dalle occasioni ufficiali, chiamava Oscar con aggettivi declinati al femminile? Che più di una volta negli ultimi tempi André lo aveva visto con lo sguardo umido mentre, credendo di non essere visto, osservava sua figlia allenarsi con le pistole?
Ma, concluse André, lui voleva bene a quell’uomo così pieno di contraddizioni e sentiva che loro due, al fondo di ogni questione, si comprendevano. E si comprendevano perché amavano, anche se di un amore diverso, la stessa persona.
“Se va avanti così, il prossimo passo sarà dire a Oscar che si è sbagliato e darla in moglie a qualcuno! Che follia!” scosse la testa con un sorriso amaro.
 
Poi piegò l’avambraccio sulla mensola del camino, appoggiò la fronte sul braccio e fissò più intensamente le fiamme del fuoco, che guizzavano verso l’alto con una danza allegra: sposarsi… sistemarsi…
“Lo sai che ti sarò sempre riconoscente, André. E se tu in questo mese ti accorgessi di essere tagliato per il lavoro, se tu volessi diventare il mio nuovo amministratore al posto di Mabeuf… Lo sai, André, niente mi farebbe più felice. E poi… una volta là potresti sistemarti, farti una famiglia… So che stare al servizio di Oscar ti ha impedito di pensare alla tua vita. Pensaci, André.”
Lui non riesce a rispondere perché il dolore è troppo grande: ogni singola parola è un pugno nello stomaco. E la testa, la testa gli fa male e l’occhio si sta appannando e i pensieri arrivano come rallentati. E il fatto che quel discorso contenga in realtà la più sincera forma di affetto che il generale possa esprimere non fa che accrescere il dolore.
 
Lo aveva congedato, con quelle parole? Lo stava mandando via? O forse gli stava dando un’occasione? Quel giorno, in quello studio saturo dell’odore della pipa del generale, aveva sentito che le sue narici chiedevano aria fresca, ossigeno, che la sua testa stava per crollare. Solo pochi minuti prima era tornato a casa dalla reggia con l’intenzione di riordinare le idee, di darsi tempo per riflettere e invece si era sentito nuovamente messo all’angolo.
 
Non ho più bisogno di te.
Ho bisogno di te in Normandia.
In quelle due frasi riesce a sentire solo una verità:
Non devi stare qui, André, vai via.
Ecco, un doppio benservito in meno di venti ore.
Allora fa un mezzo inchino e, senza aggiungere una parola, esce dalla stanza.
Poi in una sequenza forsennata di movimenti, all’unico scopo di non pensare, prepara una sacca da viaggio, saluta in fretta e furia la nonna, prende il suo cavallo e parte al galoppo, facendosi sferzare dal vento e percorrendo in poche ore una distanza mai raggiunta prima in così poco tempo.
 
Guardando quelle fiamme che gli scaldavano piacevolmente le gambe, André ripensava ora con una nuova tranquillità al discorso del generale.
Con il passare dei giorni era riuscito a considerare diversamente il suo incarico in Normandia: si era accorto che in effetti c’era bisogno di qualcuno di casa Jarjayes che prendesse in mano gli affari, perché il vecchio Mabeuf era davvero ridotto in fin di vita e lui stesso, come aveva sussurrato tra un gemito e l’altro ad André che era andato subito a trovarlo, era molto preoccupato per la sorte di una proprietà così vasta e di una villa così bella. Sapeva, il vecchio Mabeuf, che tenute di quel tipo non andavano lasciate incustodite, che se non c’è chi le difende sono preda di ladri e malviventi. Così, dopo aver giurato su tutti i santi del paradiso la sua onestà, aveva supplicato André di prendersi cura di quel posto a cui lui aveva dedicato la vita. La figlia, una ragazza dai capelli rossi, assisteva in silenzio alla scena da un angolo della stanza; quando André si era alzato per andarsene l’aveva accompagnato alla porta e poi, una volta sulla strada, si era aggiustata il grembiule e gli aveva detto alzando il mento e assumendo uno sguardo pieno di dignità:
Monsieur Grandier, vorrei che fosse chiaro che noi non abbiamo bisogno di nulla da parte del generale. Mio padre aveva un lauto stipendio e nella sua vita ha risparmiato molto per me, che ero la sua unica famiglia. Sto per sposarmi e mio marito conosce la mia situazione finanziaria; il lavoro non ci spaventa e non abbiamo alcun desiderio di vivere al di sopra delle nostre possibilità. Davvero, quello che abbiamo ci basta.”
“Capisco.”
“No, voi non capite. Mio padre è una persona onesta, monsieur. La fiducia del generale era ben riposta, anche se lui preferisce sospettare di chiunque. Siamo brave persone, monsieur!”
Poi era rientrata in casa e aveva chiuso a chiave la porta.
 
Sistemarsi, farsi una famiglia: eccola lì, la concretezza di una casa, di una famiglia che stava per nascere. L’aveva letta negli occhi di quella fiera normanna. Ma lui… in tutta la sua vita non l’aveva mai nemmeno sfiorata quella concretezza, non sapeva nemmeno che cosa volesse dire davvero “sistemarsi”.
Chiuse gli occhi contro il suo braccio.
Solo quando siamo insieme io mi sento “sistemato”. Solo quando siamo io e te, anche quando stiamo in silenzio, o quando ci diciamo le solite frasi, quelle di tutti i giorni…
E poi un’eco lontana:
grazie, André
hai bisogno di qualcosa Oscar?
andiamo!
allora io vado a dormire
André, seguimi…
Dio, che nostalgia della sua voce. Sarebbero stati ancora capaci un giorno di tornare a scambiarsi qualche parola? O doveva dirle addio? No, qualcosa dentro di lui rifiutava categoricamente quell’ipotesi.
So che stare al servizio di Oscar ti ha impedito di pensare alla tua vita.
No, signor generale, no: non ho bisogno di rimuginare sulla mia vita quando sono con Oscar. Vivo e basta quando sono con lei. Vivo e sento la pienezza della mia vita solo quando sono con lei, generale.
 
Si infilò le mani tra i capelli e si tenne la testa chiudendo gli occhi. Dopo qualche minuto si voltò, guardò ancora una volta i registri aperti sul tavolo, li sfogliò a ritroso partendo dal fondo e arrivando alle prime pagine, poi infilò la giacca e uscì a dare l’estremo saluto a Monsieur Mabeuf.
 
Durante il funerale André, che aveva preso posto in fondo alla piccola chiesa e che dalla sua posizione laterale poteva vedere la sagoma della cassa sulla quale era stata adagiata una semplice corona di edera, si era sorpreso spesso a fissare la figlia di Mabeuf e un ragazzo, sicuramente il suo futuro marito, che le stava vicino. Lui, benché evidentemente addolorato, aveva trascorso tutta la funzione con lo sguardo unicamente rivolto a lei; con una discrezione tale che lei probabilmente nemmeno se ne accorgeva ne studiava ogni più piccolo movimento, ogni respiro, avrebbe detto André, per anticipare un suo possibile crollo, un improvviso bisogno di lasciarsi andare al dolore; lei invece fissava un punto a mezza altezza alle spalle del sacerdote e André poteva vederne le spalle dritte, il profilo immobile del volto, il fazzoletto tenuto tra le mani e mai portato agli occhi.
Quando anche il rito della sepoltura fu terminato e solo poche persone circondavano le zolle di terra che presto avrebbero completamente coperto Monsieur Mabeuf, André aspettò che mademoiselle Mabeuf si avviasse verso l’uscita del camposanto per raggiungerla.
“Grazie di essere venuto, Monsieur Grandier” disse lei sollevando lo sguardo. André vide allora che, a dispetto del contegno impassibile tenuto da lei per tutta la funzione, gli occhi erano gonfi e cerchiati e si sentì a disagio per quello che doveva dirle.
Mademoiselle, sono molto dispiaciuto per vostro padre. E scusatemi, vi prego, se sono inopportuno, ma io tra pochi giorni tornerò a Parigi e prima di partire ho assoluto bisogno di parlarvi…”
Monsieur, come vi permettete, non vi accorgete del posto in cui ci troviamo? Di quello che mia… che mademoiselle sta vivendo? E che cosa state insinuando? Che cosa volete da Mademoiselle Mabeuf?” il fidanzato, parlando a bassa voce ma facendo uscire le parole tra i denti con chiara ostilità e indignazione, aveva fatto un passo avanti verso di lui lasciando la figlia di Mabeuf alle sue spalle, “le fa da scudo”, pensò André prima di riuscire a rispondere.
Ma lei prese il ragazzo per un braccio:
“Lascia stare, Guillaume, va tutto bene” e gli fece un mezzo sorriso nel quale André intravide quanto quella donna altera fosse in realtà capace di dolcezza, e poi, rivolta ad André:
Monsieur Grandier, scusate il mio fiancé: sta facendo pratica da un avvocato di Bayeux e temo che veda pericoli ovunque ultimamente. Permettete che ve lo presenti: Guillaume Durand. Guillaume, Monsieur André Grandier.”
I due si strinsero la mano, il primo ancora diffidente, il secondo più conciliante.
“Se per voi va bene, verrò alla villa domani mattina, monsieur” proseguì lei aggiustandosi i guanti.
“Ma Honorine…”, disse lui a bassa voce attirandola con lo sguardo lontano da André. André però capì la preoccupazione di quel ragazzo e si affrettò a precisare:
“Scusate se mi intrometto, Monsieur Durand, ma è inteso che se mademoiselle lo desidera, aspetterò volentieri anche voi domani mattina.”
Lui fece per rispondere, ma fu anticipato da lei:
“Bene, Monsieur Grandier, allora ci vedremo domani. E ora vogliate scusarci.”
André fece un mezzo inchino e quando sollevò lo sguardo vide Honorine Mabeuf che si incamminava verso il calesse, mentre Guillaume Durand, un passo più indietro, la seguiva, “come un’ombra”, pensò André.
 
*********
 
Era ormai notte fonda e lei era ancora vestita di tutto punto, seduta su una poltrona nel salottino della sua camera, davanti al camino ormai spento. Aveva lo sguardo fisso davanti a sé, le spalle appoggiate allo schienale della poltrona, le braccia abbandonate lungo i fianchi e una mano aperta, con il palmo rivolto verso l’alto, l’altra con il pugno chiuso. Non si era nemmeno accorta di essere in quella posizione, di avere il corpo totalmente abbandonato. Stava ricordando:
 
“Prendi la scatola color carta da zucchero, André!”
“Eccola!”
La aprono e tra la paglia prendono tanti piccoli oggetti avvolti nella carta velina: pastori, pecorelle, la sacra famiglia, animali, angeli, artigiani di ogni specie. Il presepe napoletano che dal 1702 apparteneva alla famiglia Jarjayes e che ora appartiene a lei, all’erede del casato, le è stato ufficialmente donato nel Natale del 1763, al compimento dei suoi otto anni. Ora ne ha quattordici. La scatola che originariamente conteneva il presepe si era definitivamente rotta qualche anno prima, così lei ha voluto riporlo nella sua bellissima scatola color carta da zucchero, rimasta vuota e inutilizzata dopo che il tricorno è finito in una cassa in solaio insieme ad altri indumenti divenuti ormai troppo piccoli per lei.
“Questo sarà l’ultimo anno in cui faremo il presepe, André.”
“E perché, Oscar?”
“Perché lo voglio regalare alla mia nipotina Marguerite, voglio che sia suo.”
“Come vuoi, ma la scatola inizia a essere rovinata, guarda qui, sul coperchio la carta si è già un po’ staccata”
“Oh, no! La scatola la tengo, è mia. Darò a Marguerite il presepe in una cassetta di legno nuova, ne ho già parlato a mia madre.”
“E che cosa ne farai della scatola?”
“Ancora non lo so, ma la voglio tenere. Magari ci metto qualche ricordo…”
“Oscar, tu sei la persona meno legata agli oggetti che io conosca! Hai persino seppellito il coltellino rosso e la trottola in giardino!”
“Beh, sono sottoterra in giardino, no? Sono ancora lì, se volessi li potrei andare a prendere… In ogni caso, sono affezionata a questa scatola un po’ rovinata, mi ricorda solo cose belle… il nostro presepe, il tricorno che mi aveva regalato mia madre…”
Cala il silenzio e lui vede, forse per la prima volta, nel volto di lei adolescente il volto della donna che sarà. Mentre fa girare tra le mani la statuetta di una pecorella, lei ha assunto un’aria assorta e malinconica:
“André, hai mai paura di crescere? Di non essere ancora pronto per quello che gli altri vogliono da te? Di non avere ancora capito che cosa devi fare?”
In realtà vorrebbe chiedergli se secondo lui lei riuscirà ancora a mettere in quella scatola ricordi felici, o se la felicità, quella leggera e innocua dell’infanzia, stia per uscire per sempre dalla sua vita.
Lui, che ha capito quello che lei vuole dire e che sa quanto lei possa essere spaventata all’idea di quello che il destino le riserverà, non la guarda volutamente, allunga una mano nella scatola e sceglie una figura incartata sul fondo:
“La nonna dice che a volte uno si sente incompleto ed invece è soltanto giovane…”
Poi le sorride, scarta una figura dalla velina e la porge a lei:
“Questo è il tuo angioletto preferito, mettilo tu!”
Anche lei sorride, perché sa che si sono capiti e si accorge che di quel ragazzo seduto vicino a lei non saprebbe fare a meno.
“Va bene, allora tu metti questo soldato romano, André.”
 
E così vide, nitidi nella memoria, i loro volti vicini e concentrati, le mani che veloci scartano, lo sguardo a distanza che si concedono una volta terminata l’opera. Sorrise al ricordo e strinse un po’ di più il pugno chiuso.
 
Credo di averti sempre amata…
Mi amavi anche allora, André?
 
E poi sentì la voce argentina di quella lei ragazzina che gli dice:
“André, ho deciso che cosa voglio come regalo di compleanno” sta guardando il parco avvolto nella neve.
“Che cosa, Oscar?”
“Deve essere un segreto, André. Un segreto tra me e te.”
Lui si fa attento, forse è anche un po’ preoccupato: in genere lei ha idee avventurose, per non dire pericolose…
“Ascolta: io vorrei che nella prima notte di luna piena dopo il giorno del mio compleanno io e te, di nascosto da tutti, scendessimo nella tenuta e…”
“E….” lui deglutisce, quel guizzo nello sguardo non promette nulla di buono.
“E duellassimo! Nella neve! Al buio!”
Lo guarda trionfante.
“Vorresti questo come regalo? Un duello notturno?”
“Mi piacerebbe moltissimo! Ti prego, dimmi di sì!!”
Lui resta a guardarla per un istante, poi si spettina il ciuffo come se volesse liberarsi di tutte le precauzioni e per una volta accontentarla e basta, senza pensare a freddo, pericoli, ghiaccio, scivoloni e raffreddori… Perché no? Una notte all’anno, una sola. Solo loro due.
“E così sia, allora!” aveva concluso lui inchinandosi davanti a lei con teatralità.
 
E l’avevano fatto davvero, per anni. Non lo sapeva nessuno. Lui bussava discretamente alla porta verso la mezzanotte, quando tutti, specialmente la nonna, dormivano, le porgeva il mantello e la spada e poi si avviavano verso un giardino del parco lontano dal palazzo perché nessuno sentisse il rumore dei ferri. Duellavano nell’erba fino a sudare nonostante il freddo pungente, con le guance rosse, il fiato che usciva dalla bocca formando nuvole di fumo, le mani nude che si ghiacciavano sull’elsa mentre i guanti restavano su una panchina di pietra poco lontano, appoggiati sul mantello di André che racchiudeva al suo interno quello di Oscar.
I primi anni, finito il duello, tornavano di corsa a palazzo e si infilavano in camera veloci veloci e poi sotto le coperte. La mattina dopo, quando si incrociavano in cucina o in corridoio, si lanciavano uno sguardo complice e compiaciuto; talvolta lui le strizzava l’occhio.
 
Credo di averti sempre amata…
Ci siamo divertiti così tanto insieme, André…
 
Allargò il pugno e guardò l’oggetto al centro del suo palmo. Lo accarezzò con il pollice, poi richiuse il pugno, ma senza stringere.
 
Con il passare degli anni al rituale duello di compleanno, “di non-compleanno!” sottolineava lei puntigliosa, si era aggiunta una bevuta, “senza brindisi, André! Senza brindisi!”, al tavolino della scacchiera. “Ogni anno un vino diverso!”, aveva decretato lei la prima volta, forse aveva diciott’anni, e a lui spettava sorprenderla con una bottiglia scelta dalle cantine di palazzo.
E ogni anno avevano rispettato la tradizione, sempre: anche quando lei non ne aveva voglia e a lui toccava trascinarla e mostrare l’entusiasmo necessario a entrambi ma che nessuno dei due possedeva, anche quando lei stava pensando a un altro, soprattutto quando lei stava pensando a un altro, anche quando lei avrebbe preferito saltare il duello e passare direttamente al vino per dimenticare, dimenticare guerre e nuovi continenti.
 
Credo di averti sempre amata…
E io come ho fatto a non vederlo, André?
 
Ruotò la mano chiusa a pugno e la appoggiò sul grembo, poi la aprì. Ed eccola, davanti a lei: una meravigliosa forcina d’argento. Due rebbi lunghi poco meno delle sue dita, spessi e ondulati come i suoi capelli, chiusi da una piastra d’argento su cui era stato inciso, da una mano davvero in stato di grazia, il volto del dio Marte: il profilo alto verso il cielo, l’elmo crinito, da cui escono, mossi dal vento, folti riccioli che come un’onda disegnano la parte alta della piastra, il collo del dio è lungo, affusolato, come di donna, è un dio giovanissimo ed efebico.
Una forcina. Con il dio Marte.
Sorrise a quella forcina come se stesse sorridendo a lui, a lui che gliela aveva regalata dieci anni prima:
 
“Oscar, senti…” fa freddo e loro hanno appena finito di duellare.
“Che c’è, André?” si sfrega le mani dopo avergli passato la spada.
Lui l’aiuta a mettere il mantello, poi indossa il suo e, standole di fronte, abbassa le palpebre ma poi attraverso le ciglia la guarda e parla piano, ma senza tremito nella voce: “Quest’anno ti ho disobbedito…”
“…mh…?” lo guarda incuriosita e si ferma, la lunghezza dei capelli sparita sotto il collo del mantello la fa sembrare di nuovo una ragazzina con le guance arrossate dal freddo.
“Ti ho preso un regalo di compleanno.” Estrae dalla tasca un pacchetto avvolto in una ruvida carta marrone con un bel fiocco di raso verde scuro.
Lei non vuole regali di compleanno, non li ha mai voluti, ma sente che quel pacchetto è suo e lo desidera, desidera aprirlo con la stessa emozione con cui un giorno di tanti anni prima ha estratto un tricorno da una scatola color carta da zucchero.
“Non… dovevi, André. Lo sai.” Lo dice con dolcezza, però, perché ha intuito che per lui è importante.
“Quando l’ho visto ho pensato subito a te e…, non ho voluto che fosse di nessun altro. Ma se non ti piacerà puoi buttarlo nell’ultimo dei tuoi cassetti e non guardarlo mai più.” Sorride e cerca di alleggerire e smorzare un’atmosfera troppo intensa, che lui teme di non poter gestire a lungo.
“Allora… lo apro…” allunga le mani sul fiocco di raso, scarta con delicatezza l’involucro di carta e apre un astuccio di velluto scuro. Lo ruota leggermente verso la luce della luna che lo svela a poco a poco ai suoi occhi attenti.
“André… grazie… è bellissima…” poi fa una pausa. Le si annebbia un po’ la vista e sente tremolare qualcosa di umido tra le ciglia, “sicuramente per il freddo” si dice con poca convinzione. “Ma io non uso le forcine, André.” Lo dice piano, forse anche un po’ mortificata.
“Non importa se non la usi. Volevo solo che fosse tua, te l’ho detto.”
Stanno in silenzio sotto la luna piena e lei guarda la forcina nel suo astuccio accarezzando l’immagine di Marte mentre lui la osserva e sorride.
 
Credo di averti sempre amata…
È stato così bello quel momento, André.
 
Ricordò che quella notte, prima di tornare in camera sua, senza farsi vedere da André, era andata in biblioteca, aveva preso la scatola color carta da zucchero, che da quando aveva regalato il presepe a sua nipote conservava vuota nel ripiano inferiore del suo carrellino portadocumenti a fianco del camino: tempo prima aveva impedito a Nanny di buttarla via, “Ma Oscar, è rovinata! Ed è vuota! A che cosa serve?”, e, prima che lei di nascosto la facesse sparire, l’aveva messa al sicuro in un’anta della libreria, nella stessa anta in cui conservava una scatola rossa di cui nessuno sospettava l’esistenza. Non aveva mai trovato niente con cui riempire quella scatola color carta da zucchero, però anche solo guardarla, a volte l’aveva fatta stare meglio. Ma quella sera, senza esitazione, aveva preso la scatola e poi, proprio al centro aveva sistemato la carta marrone, il nastro di raso e l’astuccio con la forcina. Poi aveva chiuso l’anta con una chiave che aveva nascosto in fondo a un cassetto minuscolo della sua scrivania.
Così, nei mesi e poi negli anni seguenti, certe sere in cui faticava a prendere sonno o certi giorni, quando sentiva sulle sue spalle il peso di quello che lei doveva essere per tutti, o certe mattine, quando la giornata iniziava troppo presto, andava in biblioteca, si accucciava vicino all’anta, e si regalava la visione di quel dio guerriero a cui sentiva di assomigliare e nel quale a volte le sembrava ormai di specchiarsi.
 
Realizzò all’improvviso che mai aveva aperto le due scatole insieme: che quello che la spingeva, non così spesso a dire la verità, ad aprire la scatola rossa era ben diverso dall’urgenza che a volte avvertiva di vedere sé stessa nel dio d’argento inciso su quell’oggetto così femminile.
Fino a poco tempo prima, in effetti, aveva amato quei momenti di solitudine, e non solo li aveva amati: li aveva cercati e li aveva protetti dallo sguardo e dal giudizio di chiunque, finché… finché tutto era precipitato. E l’inizio di quel precipitare, lei lo sapeva, era stato quella sera in cui…
 
Si riscosse da tutti quei ricordi con un brivido di consapevolezza, si sentì attraversare da una lucidità nuova, da un chiarore che illuminava cose che lei pensava di aver sempre visto e che invece… ora… ora mostravano il loro vero aspetto…
“Non è vero che non l’ho mai usata, André…” portò la forcina alla fronte chiudendo gli occhi, come se stesse chiedendo perdono.
 
Qualche mese prima, nella sua stanza:
“Metti la parrucca, bambina, così non ti riconosceranno…”
“Non voglio mettere nessuna parrucca, acconciami i capelli in qualche modo ma non chiedermi di mettere la parrucca.”
“Va bene, va bene, come vuoi, Oscar.”
La nonna le ha raccolto i capelli in alto, con una complicata impalcatura di piccole forcine sulla quale ricade una folta ciocca di capelli che crea uno chignon alto sopra la sua nuca, per la prima volta nuda e visibile al mondo intero.
Non si è mai sentita così audace. E così inerme, riflette preoccupata. Niente uniforme, niente spada: uniche armi quelle della seduzione. Ma le sa usare? Pensa con sgomento che per usare le armi bisogna allenarsi e che lei non si è mai allenata ad usare quelle armi. Allora l’attraversa fulminea un’idea: prima di indossare l’ingombrante abito chiede alla nonna un minuto, si precipita, con scarsa femminilità bisogna ammettere, in biblioteca, prende dalla scatola color carta da zucchero la forcina di Marte e la nasconde nella mano, poi, a vestizione ultimata, di nascosto dalla nonna, appena prima di uscire dalla porta della sua camera, con una velocità e con un’abilità di cui si è persino meravigliata, la infila sotto lo chignon, in modo che sia completamente nascosta dai capelli. Lei e Marte contro Fersen!, pensa battagliera.
“In qualche modo sei riuscito a essere con me anche quella sera, André…” pensò seguendo con la punta delle dita la curva dei rebbi.
 
Poi ebbe un sussulto nella memoria: tornò a quell’istante, quando, nello scendere le scale, davanti a lei aveva visto André e aveva sentito i suoi occhi così verdi, … così… innamorati!, posarsi su di lei,
 
Credo di averti sempre amata
Dio, che stupida, André! È tutto così chiaro, così semplice, ora!
 
E poi si immerse con sincerità in quel ricordo e ammise a sé stessa, finalmente, che allora, quando aveva visto André, con una vaga certezza aveva presagito che quella forcina nascosta tra i suoi capelli non l’avrebbe mai portata da Fersen e che a quel ballo le cose non sarebbero andate come lei credeva di volere.
E infine, quando il presentimento era divenuto realtà e tra le lacrime, “troppe lacrime!”, lei si era spogliata di quel vestito e, a una a una, aveva fatto cadere a terra le forcine ed era poi arrivata alla forcina di Marte, l’aveva presa e riportata al suo posto. Ma nei giorni successivi aveva provato imbarazzo per quella forcina, per quella scatola, che aveva perso ora tutta l’innocenza e la bellezza di un tempo.
 
Così non l’aveva più aperta, fino al giorno in cui aveva dovuto farlo perché doveva, sì doveva, contenere ancora una cosa, quella scatola.
Scacciò quel pensiero, “Non stasera.”
 
Decise con risolutezza che avrebbe tenuto la forcina in bella vista sulla mensola del camino e che non l’avrebbe più messa nella scatola.
 
Finalmente si alzò e andò verso il pianoforte, sul quale aveva appoggiato la scatola color carta da zucchero che era lì aperta, con il coperchio leggermente scostato. Guardò con la coda dell’occhio il pezzo di stoffa che si intravedeva sul fondo della scatola, poi richiuse il coperchio:
“No, stasera no. Nessun ricordo doloroso stasera, André”.
 
Poi andò a dormire.

 
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La frase “a volte uno si sente incompleto ed invece è soltanto giovane” non è di Nanny, né tantomeno mia, ma è di Italo Calvino.
 
Mi avete incoraggiato e mi sa che questa volta il capitolo è ancora più lungo del precedente!
Approfitto di queste ultime ore di Natale per farvi il mio più caro augurio di passare questi giorni dedicandovi a tutto quello che più vi piace!
Sempre grazie del vostro tempo e della vostra lettura.
   
 
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