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Autore: giuliacaesar    03/01/2022    2 recensioni
⚠️POTREBBE CONTENERE SPOILER DEL MANGA DAL CAPITOLO 290 IN POI⚠️
La vita a volte ci pone davanti a delle scelte, facili o difficili che siano. Se ne scegliamo una non sapremo mai il finale dell'altra, il che ci porta a porci una serie infinita di domande che iniziano con un "e se...".
«Ha presente cosa sono gli otome game?» [...] «Insomma, quello che voglio dire è che in base alle scelte che fai ti ritrovi finali diversi, no? Quello bello, quello brutto e, a volte, quello neutrale. Basta una sola azione per compromettere il risultato finale, come nelle equazioni di matematica. Ecco, in quella stanza di ospedale potevo scegliere due strade che mi avrebbero portato a due finali differenti.».
E se... Enji fosse andato alla collina Sekoto quella fredda serata d'inverno?
ATTENZIONE! Il rating potrebbe cambiare!
Pubblicata anche su wattpad su @/giulia_caesar
Ispirazione: @/keiidakamya su Twitter e @/juniperjadelove su Twitter e Instagram.
Genere: Angst, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Dabi, Endeavor, Hawks, League of Villains, Nuovo personaggio
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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CAPITOLO 4 - LASCIATE OGNE SPERANZA, VOI CH'INTRATE

Zoppicò il più velocemente che poté per arrivare sotto il portico dell’edifico, le mani e le braccia in cima alla testa in un vano tentativo di coprirsi. Accidenti, aveva di nuovo dimenticato l’ombrello a casa e pensare che tenevano il portaombrelli proprio accanto alla porta. Forse come metodo per evitare di scordarselo non funziona molto. 

Si agitò come un cane bagnato per evitare di gocciolare sul pavimento di marmo lucido della palazzina. Sentiva il cappotto più pesante addosso, grondo d’acqua, e i capelli già iniziavano ad arricciarsi sulle punte, facendolo sembrare un barboncino. Nonostante avesse la temperatura corporea più alta della norma, sentiva che il freddo gli era arrivato alle ossa, quindi si decide ad entrare. 

Nuovo giorno, nuova chiacchierata.  

Ormai quella era diventata la sua routine da qualche tempo: si alzava in preda al mal di testa e altri dolori sparsi per il corpo, si riempiva di antidolorifici come un tossicodipendente in astinenza, visite mediche, pranzo e nel pomeriggio il professor Miura. Era molto diverso dal tipo di giornate che aveva qualche mese prima, da quanto era ricevuto la licenza di prohero non gli era mai capitato di avere giorni tutti uguali, come in quel periodo. E gli andava bene. Come si dice, la routine uccide, quindi non si era mai lamentato delle chiamate all’una di notte perché era scoppiato un incendio o di andare a dormire all’alba per una notte di sopralluogo. Neanche queste giornate gli dispiacevano, però, in qualche modo si sentiva normale, era come vivere la vita di un cittadino. Era come sperimentare la vita ordinaria che avrebbe potuto avere. 

Una volta dentro l’ascensore, si concesse qualche secondo per rilassarsi. Nelle ultime giornate si era sentito strano, non gli era mai capitato di aprirsi così tanto ad un estraneo. Esiste una teoria secondo cui parlare con un perfetto sconosciuto aiuti di più rispetto che parlare con un amico. Gli sconosciuti non ci conoscono, non sanno la nostra storia, sono liberi da ogni limite affettivo che ci lega a loro. Ci vedono come siamo, non come “il mio migliore amico” o “mio figlio”, sanno guardare più oggettivamente la situazione senza farsi influenzare dai sentimenti nei nostri confronti. E noi, d’altra parte, sapendo che probabilmente questa persona, esattamente com’è apparsa, scomparirà nel nulla, tiriamo fuori cose inaspettate, senza freni, senza preoccuparci se il mio amico o mio fratello cambieranno opinione su di noi. 

Per lui mai una stronzata era così grossa come quella. Certo, se lo diceva la psicologia o qualsiasi altra scienza, chi era lui per dire il contrario, ma non era uno particolarmente socievole, quindi questa teoria gli faceva storcere il naso dalla diffidenza. Paranoico e ansioso, a malapena riusciva a ordinare una pizza senza farsi duecento film mentali scritti, diretti e interpretati da lui stesso, figuriamoci a parlare di sé, di quello che aveva passato e della sua famiglia a qualcun altro che non fossero Keigo e Mitsuha. 

Come un gong quel nome gli rimbombò nel cervello sballottato da una parte e dall’altra all’interno del suo cranio. Gli appesantì il cuore, diventato di pietra nel giro di pochi secondi, la schiena venne scossa dall’ansia, che, come una vecchia amica, gli si attaccò addosso avvolgendogli le braccia intorno al collo in una morsa. Le mani iniziarono a sudare, diventando umidicce e appiccicose. All'improvviso l’ascensore divenne una fornace rovente. Aveva bisogno di muoversi in qualche modo per scaricare la tensione, ma l’abitacolo era troppo piccolo anche solo per fare due passi. 

Appoggiò la testa allo specchio dell’ascensore per darsi una calmata. 

Cosa diceva sempre il professor Miura? “Bevi un po’ acqua e respira”? Bene, non ho l’acqua, a meno che non voglia mettermi a leccare il cappotto. 

Si guardò la manica prendendo seriamente in considerazione l’idea. Il suo cappotto nero in quel momento, reso ancora più pesante dalla pioggia, gli sembrava il pelo di un gatto bagnato. Non era esattamente invitante, ecco. 

Ok, forse non sono così disperato, quindi passiamo direttamente al respiro. Almeno in quello sono bravo, lo faccio tutti i giorni! 

Chiuse gli occhi e inspirò contando.  

Uno... due... tre... quattro. 

Poi espirò sempre tenendo bene a mente i numeri. 

Uno... due... tre... quattro. 

Dal secondo respiro, iniziò a concentrarsi prima su quello che percepiva con i sensi. La luce soffusa in cima all’ascensore attraverso le palpebre chiuse, il rumore del macchinario che lavorava e dei ding! man mano che saliva di piano, il metallo liscio sotto i polpastrelli, il freddo dello specchio di fronte a lui, l’odore leggerissimo al legno di cedro del deodorante per ambienti che tentava di coprire l’odore della pizza che qualcuno aveva appena ordinato. 

Infine si concentrò sulle sue emozioni, su quello che stava succedendo dentro la sua testa. Se fosse così facile non avrebbe bisogno di pagare uno psicologo. In quel momento il suo cervello era un flipper impazzito che faceva rimbalzare i suoi pensieri tra di loro. Più tentava di districare la matassa, più i fili si intrecciavano, più il respiro gli si mozzava e la testa vorticava ingarbugliandosi. Era un ciclo continuo. 

Contò e respirò ancora per qualche secondo, cercando di liberare la mente più possibile, di non pensare a nulla se non al suo respiro e a quello che lo circondava. Un ding! più forte degli altri e uno scossone gli fecero capire che era arrivato al suo piano.  

Espirò un’ultima volta, aprì gli occhi, si diede un’ultima sistemata per dare la parvenza che avesse il controllo su sé stesso. Infine uscì appena prima che le porta si richiudessero. 

Perché l’apparenza è tutto in questo lavoro, Touya. Ricordalo. 

 Come le altre volte fu accolto da ticchettio di Masuhiro e dal suo immancabile “Buongiorno!”. Gli sorrise di rimando e, letteralmente, si gettò sulla sua solita poltroncina, sospirando. Si coprì il volto con le mani fredde per darsi una svegliata. 

Com'è che lo faceva stare ancora così male ripensare a Mitsuha dopo tutto quel tempo? Bastava che pensasse al suo solo nome per renderlo un mucchietto tremante di ossa? Si era addirittura trasferito dai suoi genitori, non riusciva più a sopportare le mura di casa sua piene del suono della sua voce e delle sue risate. Riusciva quasi a vederne le pareti imbrattate. 

Ripensare a quello che aveva passato con lei, alle mattinate svaccati sul letto o sul divano, alle serate talmente sbronze che non si ricordava minimamente cosa avessero fatto, gli causavano un dolore pungente al petto, come un ago che gli pizzica il cuore. O un pugnale che gli viene conficcato fino all’elsa. 

Persino i mobili di casa sua sembravano pregni della sua presenza: il divano su cui si sdraiava per guardare documentari sui serial killer, ripiano della cucina su cui si sedeva osservandolo cucinare, il letto poi... appena tornato a casa, sarebbe stato la prima cosa da buttare. Insieme a tutto il resto della casa, forse. Dio, persino il bagno era imbevuto del suo profumo.  

Frutti di bosco, prugna e bergamotto. Fresco e pungente. 

Scosse la testa per non affogare ancora una volta nei suoi ricordi, si strofinò la faccia per evitare di piangere e sollevò il viso sbuffando. Masuhiro fu come scosso dal rumore e gli rivolse un sorriso. 

«Tutto bene? Vuole del tè?». 

Ancora? Ma vivono di tè questi due? Non è che mi stanno drogando per farmi parlare? 

«Sì, tutto bene, è solo la convalescenza che è più dura del previsto. Grazie, sto a posto così.». 

Il che non era del tutto vero: se fosse stato bene, non si ritroverebbe lì, ma ad aiutare suo padre ed Hawks a rimettere in piedi le città. Allo stesso tempo però non aveva mentito riguardo alla sua salute fisica. La notte non dormiva a causa del dolore al ginocchio, la mattina si svegliata con un mal di testa tale da spaccargli il cranio a metà, in tutto questo avere metà della vista non era una passeggiata. Continuava ad andare a sbattere contro i mobili, a volte non riusciva nemmeno ad afferrare le cose perché erano troppo lontane e non se ne rendeva conto. Per sbaglio l’altro giorno aveva anche tirato un ceffone a Natsuo tentando di prendere i piatti per apparecchiare la tavola. 

Se poi ci mettiamo i “quasi attacchi di panico”, non era esattamente il ritratto della salute né fisica né mentale. 

Puntuale come un orologio svizzero, alle 15 in punto il professor Miura uscì dal suo studio per accoglierlo. 

«Buongiorno, Touya! Hai dimenticato l’ombrello oggi?». 

Touya ridacchiò scuotendosi i capelli con la mano. 

«In realtà, me lo dimentico sempre, dottore! Ormai è un vizio.». 

Quando si sedette sulla comica poltroncina arancione, si lasciò scappare un sospiro stanco stravaccandovisi sopra. Testa a ciondoloni all’indietro, gambe e braccia spalancate come a formare una stella marina e il resto del corpo protratto verso il pavimento. Insomma, il ritratto della salute mentale. 

«Allora, Touya, di cosa vuoi parlarmi oggi?». 

Riflesse un po’ prima di rispondere, c’erano ancora tante cose da raccontare, eppure in quel momento il suo cervello puntava solo a una cosa sola. Come una freccia, il suo bersaglio era solamente e tristemente uno. Gli succedeva spesso: ogni volta che il pensiero di Mitsuha gli sfiorava leggermente il cervello, questo gli si attaccava alle sinapsi come una pulce, facendolo impazzire e grattare in continuazione in un vano tentativo di scacciarlo. Sembrava quasi aggrapparglisi addosso con le unghia e con i denti, quasi a sussurrare “Azzardati anche solo a provare a dimenticarti di me”. Minaccia, tra l’altro, che Mitsuha stessa avrebbe potuto fargli. 

Il dubbio però persisteva, anch’esso rovistandogli lo stomaco: era pronto a scoperchiare il vaso? Ad alzare il tappeto? A guardare in faccia tutto il male che aveva causato per un suo misero ed egoistico desiderio? 

No. 

Per nulla. 

Per niente al mondo. 

Zero. 

Nada. 

Net. 

Nope, non se ne parlava, già sentiva l’ansia innalzarsi alle sue spalle. 

Magari poteva dargli una sbirciatina? Sollevare leggermente il coperchio e osservare quello che c’era dentro da un piccolissimo spiraglio. Sbirciare un po’ e poi richiudere tutto subito dopo. 

Facile, no? 

Prese tutto il coraggio che aveva in corpo e sputò fuori tutto quello che in due mesi non era mai riuscito a dire. Era una diga che si era rotta e che riversava tutta l’acqua nella valle, inarrestabile e travolgente, pericolosa. 

Se qualcuno fosse venuto a conoscenza delle cose che stava per raccontare, ci avrebbe rimesso seriamente la pelle. Poteva quasi sentire la presidentessa Okamoto strappargli uno per uno i suoi 15 piercing. Avrebbe di certo iniziato con il central labret quella sadica. 

«Allora, ho ottenuto la licenza da prohero a 18 anni insieme al mio migliore amico, la mia famiglia era più unita che mai, avevo tutta una carriera davanti a me da creare e un futuro splendente come il sole. Posso dire che fosse il momento più bello della mia vita. 

«A differenza di Keigo, che si è costruito l’agenzia da solo, – fece il gesto delle virgolette con le mani – io sono andato a lavorare con mio padre. Ero così emozionato! Lavorare fianco a fianco con lui era il primo gradino verso la vetta, il primo mattone del ponte verso l’altra sponda. 

«Bisogna precisare anche però che senza l’aiuto della Commissione, dei medici che negli anni mi hanno seguito e degli scienziati di I-Island non sarei riuscito neanche ad accedere l’accendino. Avevano creato una tuta apposita per me che regolasse la mia temperatura corporea mantenendola a un livello stabile. Anche mio padre ha questo problema, se il corpo si surriscalda troppo, gli organi rischiano di collassare. Sinceramente, non ho idea di cosa voglia dire, ma non sembra una cosa positiva. 

«Sono stato male un paio di volte durante l’addestramento sfiorando addirittura i 45° di febbre, ho passato pomeriggi interi immerso in una vasca di acqua ghiacciata catatonico e rincoglionito. Per fortuna, anche in momenti bui come quelli, Keigo era sempre pronto ad aiutarmi e a risollevarmi il morale. Cosa avrei fatto senza di lui, non lo so. 

«Insieme alla tuta, mi erano stati dati dei guanti e degli scarponi che concentrassero il calore e le fiamme in un unico punto, in modo da facilitarne la gestione e la potenza. In pratica facevano da catalizzatori per il mio quirk, permettendomi di controllarlo meglio e di non esagerare con le temperature. Sarebbe stata una strage se non avessi potuto regolare le fiamme in mezzo a dei civili, rischiavo anche di uccidere qualcuno oltre a ferire gravemente me stesso. Alle ferite ci sono abituato ormai, non faccio un pattugliamento senza ritrovarmi qualche bruciatura di primo grado sulle braccia, ma il solo pensiero di fare seriamente del male a qualcuno, civile o criminale che sia, mi fa rabbrividire. 

«Come le ho già accennato, il mio lavoro da prohero non comprendeva solo pattugliamenti con mio padre o scontri con i villain, la Commissione occasionalmente affidava a me e Keigo dei... compiti speciali, chiamiamoli così. Tutto era iniziato il giorno dopo i festeggiamenti per la concessione delle licenze, la presidentessa Okamoto ci aveva chiamati per discutere di alcune pratiche, così aveva detto. Ovviamente non parlammo per niente di burocrazia, anzi quando si trattava di queste missioni la presidentessa era attentissima a non lasciare tracce, era tutto fatto in formato digitale. 

«Ci disse che, in quanto i migliori della prima generazione addestrata con il progetto “New Hope”, eravamo stati selezionati per una serie di missioni di estrema segretezza. Non ci chiese se volevamo farlo o se volevamo ritirarci, ce lo impose dall’alto, dettando le sue leggi come un sovrano. O piuttosto un dittatore. 

«E da qui ci ricolleghiamo alla famosa riunione del 3 luglio, ore 10:00. Per una volta, arrivammo tutti e due in orario.». 

--- 

Quando quella mattina si era addormentato con il naso immerso nel suo riso per la colazione, aveva capito che quella non sarebbe stata una giornata affatto facile. 

Era tornato alle 5 a casa, dopo essere uscito il giorno prima alle 8, e si era concesso solo quattro misere ore di sonno per non crollare di fronte alla Consiglio Generale della Commissione di Pubblica Sicurezza degli Eroi. Era stato convocato dalla presidentessa Okamoto, quel dragone sputasentenze, per una questione “urgente e di vitale importanza”. Non si era sbilanciata a fare commenti, aveva lanciato la bomba e gli aveva chiuso il telefono in faccia senza aspettare che la miccia prendesse fuoco e la notizia gli scoppiasse nel cervello. 

Era sempre così con lei: lo telefonava agli orari più inopportuni, lanciava il suo ordine e riattaccava subito dopo senza permettergli di replicare, aggiungendo quasi con un ringhio “è una questione importante”. Lo aveva persino chiamato il giorno del suo compleanno, esigendo che arrivasse in riunione da due ore a quella parte. Non aveva mai visto sua madre così arrabbiata, perché, tra le altre rogne, la sua famiglia non poteva assolutamente venire a conoscenza di queste missioni. Solo suo padre sapeva che a volte doveva assentarsi dai giorni di pattugliamento per svolgere indagini per la Commissione, ma solo perché era il Numero Due, anzi attuale Numero Uno del Giappone 

Tra la carriera di prohero, le missioni che in quel periodo si erano moltiplicate sempre di più dopo l’attacco alla USJ e la sua famiglia che non era esattamente facile da gestire, ogni giorno si svegliava sperando che arrivasse il prima possibile la notte per ritornare a dormire e ignorare la mole di problemi che si portava dietro da qualche mese. 

Era stanco, fisicamente e mentalmente. 

Voglio le ferie pensò piagnucolando quando uscì dalla metro di fronte al palazzo della Commissione per la Pubblica Sicurezza degli Eroi. Sentiva le braccia di marmo, pesanti e doloranti, gli occhi sembravano pieni di sabbia per quanto fosse assonnato e la testa leggera come un palloncino. Per fortuna era il suo giorno libero. 

L'unico da due settimane. 

E lo avrebbe passato in riunione con quella megera della presidentessa. 

Non ce la poteva fare. Sarebbe morto per lo stress prima di mezzogiorno ed erano solo le 9:45. 

Caffè, ho bisogno di caffè. 

Non servì nemmeno esplicitare la frase che il suo angelo protettore si manifestò in tuta la sua gloriosa grazia e magnificenza: atterrando sul suo piede con i suoi leggerissimi 70 chili e urlandogli nell’orecchio come una tromba. 

«Ma buongiorno, raggio di sole, come sei splendente la mattina! Ops, scusa per il piede, ma era per una giusta causa, lo giuro! Se non fossi andato così veloce, si sarebbe raffreddato il caffè, che con tanto amore ti ho comprato. Ecco, vedi? Non c’è bisogno di tenere quel muso lungo, sei così carino quando sorridi!». 

Non poteva sopportare la parlantina e la paraculaggine di Keigo alle nove di mattina, quindi grugnì un “Fa niente” e si prese il caffè che gli aveva portato. Appena il suo amico piumato si azzardò solo a riprendere parola, gli scoccò uno sguardo di gelida rabbia per fargli capire di stare zitto. Era sempre così, fin da quando erano ragazzini: Touya voleva il silenzio assoluto mentre beveva il suo caffè mattutino, specialmente se era quello di Starbucks con panna e cannella. 

Keigo annuì a basta allungandogli un muffin alla red velvet, in segno di pace e di scuse per l’atterraggio finito male. Touya immediatamente fu felice. 

«Grazie e ora muoviti, così ci togliamo sta riunione dalle palle e torno a dormire.». 

Quindi, insieme, caffè in una mano e muffin nell’altra, si diressero verso le porte dell’edificio, che in quel momento sembravano l’ingresso dell’Inferno. 

Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate. 

Quando arrivarono di fronte alle porte dell’ufficio della Sovrana, così la chiamavano, i muffin e il caffè erano già spariti. Non sia mai che li vedesse in mano con qualcosa di Starbucks o di altre catene di cafè, sarebbe iniziato un pippone immenso sugli sforzi che aveva fatto per farli essere nella migliore forma fisica possibile, che stavano vanificando tutti gli anni di allenamento rovinandosi il corpo con porcherie del genere e blah, blah, blah. Probabilmente sarebbe morta d’infarto venendo a conoscenza dell’ossessione di Keigo per il pollo fritto. 

Be', non è una così cattiva idea. Una stronza in meno al mondo. 

Ricevettero quello che sembrava più un ringhio che un saluto quando bussarono. Non si sorpresero nemmeno, perché, per un motivo o per un altro, la presidentessa Okamoto sembrava sempre incazzata. Per questo la chiamavano, tra i centomila soprannomi che avevano trovato, anche Dragone. Ogni volta che la vedevano, le fumavano sempre le narici e le orecchie, facendola sembrare, appunto, un drago arrabbiato. 

«Buongiorno, presidentessa Okamoto.» salutarono entrambi con un leggero inchino. 

Neanche si degnò di alzare lo sguardo dal suo computer, gracchiando un “sedetevi”. Come due bravi soldatini, i due ragazzi si sedettero. 

Passarono qualche secondo con il solo ticchettio della tastiera, mentre Danuja rispondeva a una mail, poi incrociò le dita di fronte a sé e rivolse finalmente la sua attenzione a Touya e Keigo. 

«Buongiorno, ragazzi, vi ho chiamato oggi per una missione delicatissima e della massima riservatezza. Spero di avere la vostra totale collaborazione e partecipazione, anche perché riguarda pure il tuo fratellino, Touya. - entrambi ebbero un sussulto, odiavano quando metteva in mezzo la loro famiglia. - Come di certo sapete, la League of Villains sta portando non poche rogne alla Commissione. Abbiamo chiuso un occhio all’attacco dell’USJ, perché erano inoffensivi, non hanno causato così tanti problemi, ma dopo la cattura del mese scorso e il ritiro di All Might non possiamo più permetterci errori.». 

Fece una pausa per vedere le reazioni dei due, che rimasero impassibili, sebbene Touya in quel momento volesse solo dare fuoco alla scrivania. 

E adesso ti svegli? Non ti sembra un po’ tardi? 

Già sentiva la colazione rivoltarglisi nello stomaco per la rabbia improvvisa. Sapeva che quella organizzazione era sospetta, ma la presidentessa non aveva mai voluto dargli ascolto. E cosa ci aveva guadagnato? Che il suo fratellino rischiasse la vita per ben tre volte. L'indifferenza con cui avevano trattato questo caso gli faceva venire il vomito. 

Dopo aver preso un sorso di caffè, la presidentessa riprese il suo discorso. 

«Dopo il rapimento di Bakugou Katsuki ci siamo resi conto di avere poche informazioni su questa organizzazione, troppo poche. Abbiamo sguinzagliato in giro per il Giappone tutti gli investigatori e gli informatori possibili venendo a conoscenza di alcune cose, tra cui i nomi dei componenti della League Of Villains. Così però non ci basta, abbiamo bisogno di raccogliere più informazioni dall’interno...». 

Face un’altra pausa quando vide i due giovani prohero spalancare gli occhi. Ebbe a malapena il tempo di pensare un Oh, cazzo! prima che Danuja continuò. 

«Immagino che abbiate già capito, quindi vado dritta al sodo: dovrete infiltrarvi all’interno dell’organizzazione per raccogliere più informazioni possibili e, allo stesso tempo, dirottare le loro decisioni con notizie false. Questa missione è estremamente delicata, per questo ho scelto voi due, i migliori prohero che abbia avuto l’onore di addestrare. Fino ad ora avete sempre fatto un lavoro eccellente, quindi ripongo grandi aspettative su voi due, anche se sono certa che svolgerete questo incarico con la massima discrezione ed efficienza. Avete domande?». 

Touya ci mise qualche secondo per processare. Certamente aveva domande, MOLTISSIME domande, ma non erano quelle che la presidentessa si aspettava. 

È uno scherzo? Oh dai, andiamo, non può essere vero. Dov’è la candid camera? 

Quando vide che la presidentessa non aveva cambiato per niente espressione al suo sguardo basito, fu davvero tentato di mandarla al diavolo. Non ci credeva, insomma, era assurdo! Ma dov’era capitato? Sul set di Mission Impossible? Aveva già fatto missioni di spionaggio, ma si limitavano a qualche appostamento o indagine dall’esterno su membri di organizzazioni criminali, mai si sarebbe immaginato di doversi fingere un villain, o peggio, un prohero corrotto! I peli delle braccia gli si rizzarono subito al solo pensiero. Che cosa disgustosa. 

Se i giornali venissero a sapere che facciamo il doppio gioco, siamo morti. 

Le parole di Keigo salvarono la presidentessa da un’imminente sfuriata di Touya. 

«Mi scusi, ma non siamo proprio la scelta migliore. Io sono il Numero Due attualmente, Touya è appena entrato nella Top Ten ed è anche il figlio di Endeavor, insomma siamo molto conosciuti. Non si insospettiranno a vederci interessati alla loro causa?». 

La presidentessa rispose prontamente, parlando come si fa a un bambino che non capisce la lezione. Il tono dolce e carezzevole, le parole acide e provocatorie. 

«Ottima domanda, ma la risposta è molto semplice, Keigo. Per svolgere al meglio questa missione, dovrete entrare nelle simpatie di ogni singolo membro, dovrete ottenere la loro fiducia per avere informazioni valide. Come? Non mi interessa, fate tutto ciò che ritenete necessario per poter anche solo sapere che numero di scarpe portano. Non mi importa cosa farete per ottenerla, quello che mi preme è che si fidino così tanto di voi da rivelarvi ogni singolo dettaglio della loro misera vita e di quello che intendono fare. Voi sarete i miei occhi, le mie orecchie e, sì, anche la mia bocca e le mie braccia quando si dovrà agire.». 

Li osservò con la schiena dritta dall’alto della sua poltrona e guardandoli dritti negli occhi, come fa un sovrano che da ordini ai suoi cavalieri. In Touya crebbe nel petto una nuvola di fastidio e odio per quella donna tirannica, che si spacciava per benevola regina. Non la sopportava, odiava il modo in cui lo trattava, come se fosse il suo soldatino con cui giocare a Risiko insieme agli altri stronzi del Consiglio Generale. Quello che più odiava però era sé stesso per comportarsi sempre come quel soldatino perfetto, pronto ad agire sempre e comunque. Pronto a sacrificare ogni singolo aspetto della sua vita per compiacerla. Persino sé stesso. 

In quei momenti odiava anche Keigo, sempre ingenuo e accondiscendente in quelle situazioni umilianti. Capiva che aveva nei confronti della presidentessa un debito enorme, che riguardava la sua vita intera e quella di sua madre, ma non poteva accettare di vederlo chiudere la bocca in una linea sottile e abbassare la testa anche di fronte a parole acide che non si meritava. 

Decise di intervenire per porre fine a quel misero teatrino. 

«E come intende farci introdurre? Non possiamo presentarci di fronte a Shigaraki, come se fossimo amiconi e pretendere che si fidino. Dobbiamo per forza avere qualcuno che garantisca per noi.». 

«Perspicace, come sempre, Touya, stavo proprio per parlare di questo. Uno dei nostri informatori è venuto a conoscenza di una cosa interessante: la League of Villain, poco prima del rapimento di Bakugou, avrebbe assoldato una mercenaria a tempo indeterminato, che possiamo usare come garanzia. La incontrerete sta sera, vi mando tutte le informazioni necessarie per email.». 

Detto ciò, si alzò per indicare che per quel giorno la riunione era finita e si avvicinò alla porta per invitarli ad uscire. 

Forse davvero quel luogo era l’Inferno. Mai come in quel momento si rese conto di aver venduto la sua anima al Diavolo. 

--- 

«Ma sei sicuro sia il posto giusto?» chiese Touya con faccia disgustata guardando l’insegna al neon sfavillante che aveva di fronte. 

A last glassun ultimo bicchiere. 

Non voleva sapere il significato poetico dietro al nome del locale. Aveva come la sensazione che non gli sarebbe piaciuto affatto. 

«Per la centesima volta, sì, Touya, è il posto giusto. La Commissione mi ha dato questo indirizzo.». 

Touya continuò imperterrito a fissare l’entrata del locale come se fosse la grotta di un orco. Rancida e puzzolente, con un pizzico di marciume. 

«Hai l’orientamento di un piccione ubriaco, fammi vedere.». 

Keigo alzando gli occhi al cielo mostrò l’email che aveva ricevuto dalla Commissione con tutte le informazioni sulla missione di quella sera. Touya la lesse velocemente e si rese subito conto dell’errore. 

«Ah-ah! Te l’avevo detto, il numero di questo locale è 68, non 69 come nell’email. A 22 anni ancora non sai leggere gli indirizzi!». 

Keigo gli sorrise sornione, invece che mettere il broncio come suo solito. 

«Oh, ma davvero? Allora deve essere quello dall’altra parte della strada.». 

Touya assottigliò gli occhi in fredda diffidenza osservando l’amico. 

Qua la faccenda puzza… 

Si girarono contemporaneamente per vedere il vero luogo della missione. Keigo non stava nemmeno guardando il locale, anzi stava guardando il suo amico d’infanzia che nel frattempo stava assumendo tutti i colori dell’arcobaleno. Dal rosso della rabbia al verde del disgusto per poi passare al viola per l’imminente conato di vomito per poi finire con lo sbiancare. 

The last hourL’ultima ora. 

«Ecco, quello è il 69.» disse con un ghigno il biondino. Touya deglutì rumorosamente. 

Questa missione non s’ha da fare. 

Si girò verso l’amico e, piuttosto che dargliela vinta, gli ringhiò contro. 

«Andiamo, muovi quel culo ossuto, scemo. Prima finiamo questa missione, prima posso farmi un bagno nel disinfettante.». 

Non lo aspettò nemmeno mentre attraversava la strada come una furia. Il locale era di certo il più squallido che avesse mai visto e ne aveva visti di posti osceni lui. L’insegna di legno si reggeva a malapena sul singolo chiodo che la teneva ancorata al muro, facendola sembrare una spada di Damocle pronta a calarsi sul collo del prossimo disgraziato che sarebbe entrato nel locale. 

Per sicurezza io ci faccio entrare prima Keigo, pensò il ragazzo fermandosi di fronte al posto. Dall’esterno il bar sembrava arrivare direttamente dal Far West dei film americani, in tutto e per tutto. Non si sarebbe stupito se entrando avesse visto Marty McFly pronto a sparare contro a un imbufalito Buford Tannen. Probabilmente avrebbe ordinato anche una birra per godersi lo spettacolo. 

Le porte in legno erano così vecchie ed usurate che aveva paura che toccandole si sarebbe ritrovato la mano piena di schegge. Oltre a scoprire ben 5 batteri sconosciuti alla scienza. Appena arrivò il suo compagno di (dis)avventure questi lanciò un fischio: «Beh, urla proprio “covo di cattivoni”, non credi?». Touya fece un verso disgustato. 

«Muoviti invece di fare battutacce che non fanno ridere nessuno.». 

E lo spinse gentilmente contro la porta, sperando gli cadesse in testa l’insegna, così avrebbero dovuto annullare la missione a causa di “gravi lesioni a danno di un eroe”. Tanto Keigo aveva la testa dura, sarebbe sopravvissuto. Gli uscì un verso di stizza a vedere che il suo amico era passato incolume tra le porte del bar. 

Inconsciamente trattenne il respiro quando attraversò la porta del locale aprendola con una spallata. Quasi andò a sbattere contro Keigo nella foga di passare il più velocemente possibile sotto l’insegna. Una volta dentro si resero conto che l’odore di chiuso e di birra non era un buon accostamento, quel posto puzzava atrocemente oltre ad essere troppo piccolo per le persone che conteneva. 

Al bancone del bar due poveri baristi tentavano di stare dietro alle decine di persone che stavano ordinando alcool, che prontamente veniva buttato giù come se fosse una bibita gassata. Il chiacchiericcio e le risate sguaiate superavano di molti decibel la musica di sottofondo, creando una cacofonia di suoni e rumori da far impazzire le piume di Keigo che tremavano per la troppa stimolazione. 

Hawks fece un’espressione sofferente, le sue ali erano molto sensibili dalle vibrazioni rendendolo capace di ascoltare un’intera conversazione da una stanza all’altra, ma di contro i rumori troppo forti stimolavano anche fin troppo le sue piume, facendole tremare come foglie. Era come se avesse costantemente un microfono impazzito nelle orecchie. 

Notando il malessere dell’amico, Touya si preoccupò. 

«Keigo, se vuoi, me la sbrigo io sta sera. Non è un problema, aspettami fuori.». 

«No, tranquillo, sto bene.». 

Non insisté oltre, Keigo sapeva essere più testardo di lui alle volte. A malincuore delle povere piume del suo amico, Touya dovette alzare ancora di più la voce quando il rumore delle grida si fece ancora più forte. Sembravano delle grida di esultanza, ma le persone al bancone e ai tavoli sembravano piuttosto tranquille. 

«Come hai detto che si chiama la tipa? Cosa sappiamo di lei?». 

Mica poteva urlare ai quattro venti che stavano cercando una mercenaria, quella era gente pericolosa. 

«Nanase Mitsuha, 24 anni, di origini ignote. È stata vista entrare regolarmente in questo locale ogni mercoledì e ogni domenica. Dovremmo parlare con l’informatore del detective Suzuki per farcela incontrare, è quel barista lì.». 

Indicò uno dei baristi che stava spillando una birra. 

«Ok, va bene. Forza, andiamo.». 

Si diressero entrambi al bancone, spintonando un po’ di persone per farsi spazio tra la calca. Non avevano tempo da perdere a fare la fila per dei cocktail scadenti. Touya si sporse al di sopra del ripiano e, per sovrastare la musica e farsi sentire da entrambi i baristi, urlò con tutto il fiato che aveva: «Due zombies, per favore!». 

Vide i due baristi lanciarsi un’occhiata da una parte all’altra del bancone, poi uno dei due annuì e fece loro segno di seguirlo. Passarono a fatica tra la mole di persone che strepitava per dell’alcool, arrivando in fondo al locale dove trovarono una scala che conduceva verso il basso. 

A uno sguardo poco attento poteva sembrare una banale scala di servizio, di quelle che vengono usate dal solo personale, eppure da lì giungevano altre voci strepitanti che acclamavano o denigravano. 

«Ecco a voi, dovreste trovarla facilmente. Mi raccomando, state attenti, sa essere... scontrosa.» disse loro il barista con un accenno di ansia nella voce. 

«Sì, certo, non si preoccupi! La Commissione e la polizia la ringraziano infinitamente per il suo servizio.» rispose affabile Keigo rivolgendogli un piccolo sorrido e un inchino. 

Una volta da soli, Touya si rivolse a Keigo. 

«Voglio un aumento dopo questa missione.». 

Si avventurarono lungo le scale con le risate di Keigo che rimbombavano per le pareti di legno, inconsci del fatto che dopo aver posato il piede sul primo gradino la loro vita avrebbe subito un cambiamento drastico. 




- SCLERI DELL'AUTRICE - 
Ta-daaaaaa, pensavate di esservi liberat* di me, eh? E invece, no! Le cause di forza maggiore del capitolo scorso sono state brutalmente annullate da un mostro peggiore di Cerbero: IL COVIDDI. Quindi, avendo molto più tempo libero di quanto premeditato, mi sono portata avanti ^^.
Come sempre, vi chiedo umilmente, in ginocchio sui ceci, di lasciarmi una recensione per farmi sapere se la storia vi sta piacendo o se riuscite a riconoscere le citazioni che mi diverto ad infilare nei capitoli. Sono una bambina, lo so, ma io vivo per gli easter egg XD.
Buon anno a tutt*, sperando che il 2022 non faccia così schifo <3.
Giuli.

  
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