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Autore: Swan_Time_Traveller    03/01/2022    0 recensioni
Il professor D. se ne stava tranquillamente seduto nel suo studio provvisorio, ritagliato maldestramente dall'Ateneo nella vecchia caffetteria della facoltà.
Molto più preoccupata di lui, esordii: "Professore, perdoni la mia impazienza: posso considerare con certezza lei come relatore?" Srotolai rapidamente quelle parole, con un tremolio nella voce che tradiva il mio timore.
"Senza dubbio. Personalmente lo consideravo già scontato. Errore mio. Come anticipatole però, ho pensato di parlarle di un progetto ... Specialmente dopo un confronto coi colleghi, che mi hanno confermato quanto sospettavo: lei è una delle studentesse più brillanti del suo corso di laurea, e per questo motivo ci tenevo molto ad invitarla al mio laboratorio di metà semestre, di cui forse lei ha già sentito parlare."
Annuii, sebbene fossi ancora confusa.
"La partecipazione però richiede massima discrezione, glielo dico molto schiettamente: non le sarà possibile raccontare del laboratorio a nessuno." Aggiunse. Annuii di nuovo, ancor più disorientata di poco prima.
"Mi rendo conto che sto chiedendo un atto di fede, ma lei mi dà modo di credere che sia disposta a farlo, per questo le faccio una domanda."
Proseguì: "Se lei avesse modo di tornare nel 1963, sarebbe in grado di cambiare le sorti a Dallas?"
Genere: Avventura, Malinconico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Il Novecento, Dopoguerra
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TRE

 

Vengano maledette le camicie di raso. Specialmente in inverno, e su persone che, in uno stato di agitazione, hanno la scomodissima e inopportuna capacità di sudare anche l’acqua del battesimo: nel mio caso specifico, pur non essendo battezzata, di camicie ne ho sempre sudate parecchie. Letteralmente.

Per tale motivo, uscendo di casa quel giorno ed in pieno inverno, iniziai a pensare che le premesse non erano ottime: nonostante il freddo pungente dell’ambiente esterno, ero talmente in preda all’ansia che cominciai a sentire l’ascella umida dopo nemmeno due minuti di passeggiata.

 

Pessima, pessima. Sarei arrivata al colloquio col professor D. sudaticcia e affannata, il che mi avrebbe fatto perdere già qualche punto: ad ogni modo non avevo nemmeno il tempo di fare retromarcia e rientrare a casa per lavarmi velocemente e cambiarmi, possibilmente scegliendo un maglioncino di cotone caldo. Guardai l’orologio che avevo al polso, appena regalatomi da mio padre per Natale, e notai che decisamente potevo risultare quasi in ritardo se non mi fossi data una mossa.

Le strade erano tornate ad essere estremamente caotiche dopo le feste: la gente correva senza sosta, con la testa abbassata per guardare lo smartphone o i propri piedi che, frenetici, rimbombavano sotto i portici in un fragore di camminate veloci e contro il tempo.

In un certo senso anche il mio passo spedito era una sfida ai minuti che, inesorabili, continuavano a scorrere sul mio orologio, al quale continuavo a rivolgere qualche occhiata disturbata: mi capitava raramente di arrivare in ritardo a qualche evento, cena o colloquio … Ma naturalmente quel sottile margine di errore doveva essere calpestato dalla sottoscritta proprio il giorno in cui avrei dovuto convincere il professor D. ad accettare il mio progetto di tesi.

 

Quando arrivai in facoltà avevo il fiatone: rivolsi uno sguardo dentro la portineria e poi un sorriso, tentando di nascondere il mio affanno. Fortunatamente il custode di turno era troppo impegnato a leggere la Gazzetta dello Sport per notare che era entrato qualcuno.

Non fu nemmeno necessario interpellarlo per sapere l’ubicazione dell’ufficio del docente, perché tra le chiacchiere pungenti e squillanti delle mie compagne di corso, avevo captato qualche tempo prima anche le indicazioni per arrivare all’ufficio del professor D., il che per una volta appunto fece risultare quel blaterare estremamente utile.

Salii la scalinata in marmo della facoltà, restando sul lato destro e incrociando qualche sguardo di studenti che erano già rientrati in città per sostenere i primi esami di gennaio: era per me un sollievo ricordare di avere completato il mio ciclo di studi e di essere davanti allo scalino della tesi, perché significava essere vicina ad un traguardo agognato e che magari, nel mio immaginario, avrebbe aperto a me la strada per diventare realmente una storica contemporanea.

In quest’ottica, il professor D. era un ulteriore esempio: ero sempre stata convinta che la giovane età potesse essere una discriminante, specialmente in ambito accademico, eppure seguire le lezioni del docente mi aveva permesso di aprire un altro scenario possibile nella mia mente, che senz’altro si sarebbe potuto realizzare con maggiori probabilità se mi fossi impegnata e dedicata totalmente.

 

Lo studio del professor D. era in fondo al corridoio del primo piano, di fronte a quello del docente di storia medievale: la porta era chiusa, perciò bussai dapprima debolmente, poi più energicamente, quasi intenzionata a scuotermi da quel senso di nausea, ansia e al contempo trance che mi aveva colto.

“Prego, avanti!” Sentii una voce maschile familiare provenire dall’interno, perciò abbassai la maniglia e timidamente entrai. Il locale era scarsamente illuminato, con una piantana vicina all'ingresso, e un'altra più piccola accanto alla scrivania.

Il professor D. se ne stava tranquillamente seduto nel suo studio provvisorio: in uno sguardo d’insieme molto rapido, capii ritagliato maldestramente dall'Ateneo nella vecchia caffetteria della facoltà. Ricordai perfettamente che, prima dell'insediamento del professore, moltissimi studenti si erano lamentati di questo repentino cambiamento, che aveva causato una migrazione non indifferente di universitari al bar esterno dove il caffé costava decisamente di più. Chiaramente una volta arrivato il professor D., le rimostranze delle studentesse si erano azzerate alla velocità della luce, e tutte all'improvviso erano disposte a studiare senza caffeina, o a fare un mutuo per ottenerne un po'. 


Il volto del professor D. era disteso, e quando chiusi la porta alle spalle abbozzò un sorriso e mi fece segno di accomodarmi.
Io ero invece visibilmente molto più preoccupata di lui: avevo aloni di sudore più imponenti dell'Operazione Alba, sicuramente il mio odore non era nemmeno dei migliori (ma percepivo ancora solo il profumo che mi ero saggiamente spruzzata prima di uscire di casa). Infine, i miei incubi degli ultimi giorni avevano impedito alla sottoscritta di avere un sonno tranquillo e meno paranoia possibile per ciò che riguardava il risultato dell'incontro, il che in quel momento sembrava decisamente pressante, tanto da non riuscire a tenermi dentro un minuto di più i miei timori.

Guardai il docente ed esordii: "Professore, perdoni la mia impazienza: posso considerare con certezza lei come relatore?" Srotolai rapidamente quelle parole, con un tremolio nella voce che tradiva il mio timore. Probabilmente mi avrebbe scartata solo per il modo in cui mi ero posta, o forse era ancora memore della mia agitazione durante il suo esame, chi poteva dirlo? In ogni caso a stento in quei contesti riuscivo a trattenere i miei pensieri o attendere varie frasi di circostanza prima di poter esprimere i miei dubbi, per cui ormai la frittata era fatta. 

Il professor D. però non sembrò particolarmente turbato (o forse non lo diede a vedere, e in quel caso era davvero bravo) ed anzi, sorrise nuovamente e, aprendo le braccia, replicò: "Senza dubbio. Personalmente lo consideravo già scontato. Errore mio. Come anticipatole però, ho pensato di parlarle di un progetto ... Specialmente dopo un confronto coi colleghi, che mi hanno confermato quanto sospettavo: lei è una delle studentesse più brillanti del suo corso di laurea, e per questo motivo ci tenevo molto ad invitarla al mio laboratorio di metà semestre, di cui forse lei ha già sentito parlare."
Annuii, sebbene fossi ancora confusa. 
Ero anzitutto sorpresa del fatto che esistessero docenti in facoltà capaci di ricordare i volti o i nomi degli studenti che avevano avuto nel corso di quei due anni, e ancor di più considerando che molti di questi mi considerassero una delle universitarie più brillanti di quel corso: io non mi ero mai considerata tale ed anzi, ero sempre stata molto critica con me stessa ... Forse, citando la mia amica Francesca che spesso me lo ricordava, avrei dovuto confidare di più su quelle frasi, su quei giudizi che venivano a volte formulati da persone assolutamente non di parte come dei docenti universitari; semplicemente forse, dovevo confidare di più in me stessa e basta. 

Scansai dalla mente quei pensieri, e tornai a focalizzarmi su ciò che aveva appena detto il professor D., pensando al fatto che aveva deciso di includermi in uno di quei progetti rinomati e ai quali quasi nessuno studente nel corso del biennio aveva la fortuna di essere invitato: ce n'erano moltissimi e tutti organizzati nei minimi dettagli dai docenti del corso, ma il più delle volte venivano realizzato con l'aiuto di dottorandi o assistenti (nonostante, almeno su carta, potesse candidarsi qualsiasi studente universitario del corso).
Sebbene non avessi la minima idea del tema centrale del progetto del professor D., l'area di competenza era quella a cui mi sarei voluta dedicare per la vita, e quindi dentro di me, cercando di nascondere bene la mia emozione e il tremolio nelle mani, ero davvero entusiasta e pronta ad ascoltare ogni dettaglio. 

Il professore si schiarì la voce, e poi iniziò a spiegarmi: "La partecipazione però richiede massima discrezione, glielo dico molto schiettamente: non le sarà possibile raccontare del laboratorio a nessuno."
Aggiunse. Annuii di nuovo, ancor più disorientata di prima: non avrei quindi potuto raccontare nulla alle amiche? Alla mia famiglia? Per quale tipo di motivo, esattamente? Ero consapevole che quelle preoccupazioni da parte mia fossero forse di poco conto, davanti ad una proposta del genere, perciò cercai di insabbiarle nel profondo, continuando a guardare fissa il docente, che sembrava poco interessato ad esaminare le mie reazioni, e molto più concentrato sul da farsi. 

"Mi rendo conto che sto chiedendo un atto di fede, ma lei mi dà modo di credere che sia disposta a farlo, per questo le faccio una domanda." 
Trattenni il respiro per un attimo, perché non solo per un'atea come me il concetto di fede era piuttosto bizzarro e decontestualizzato, ma perché quel progetto sembrava prendere le pieghe di un'operazione segreta.

Decisi di non reagire, certa che il professor D. avrebbe formulato la fatidica questione, che però non riuscivo nemmeno lontanamente a prevedere. Voleva forse testare la mia autocritica? O forse comprendere quanto potessi resistere allo stress accademico? 
Dopo qualche secondo, arrivò la sua domanda, formulata con un tono tanto serio quanto la sua espressione e i suoi occhi, che mi osservavano fissi e concentrati.


"Se lei avesse modo di tornare nel 1963, sarebbe in grado di cambiare le sorti a Dallas?"

   
 
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