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Autore: Il_Signore_Oscuro    08/01/2022    1 recensioni
"Nelle complesse fila che compongono la Trama e la storia del mondo, esiste un'unica costante che - col volgere delle epoche - si ripete, pur con esiti diversi.
L'Ikvalibriam, la battaglia dell'equilibrio, è lo scontro finale fra il Bene e il Male reincarnato. Una battaglia in cui regni, nazioni, imperi si schierani in favore dell'uno o dell'altro.
Nella notte che precede l'ultimo di questi Ikvalibriam, Kudai viene convocato dalla Sua Signora. E scoprirà di rivestire nella Trama un ruolo molto più importante di quanto non abbia mai creduto..."
Se siete alla ricerca di un'epica saga fantasy d'ampio respiro, questa è la storia che fa per voi. Epiche battaglie, personaggi complessi e ricchi di fascino, ambientazioni magiche. Se per un attimo vuoi evadere dal mondo e dalle sue brutture, dammi la mano e segui con me questo viaggio...
[Aggiornamento: ogni domenica]
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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CAPITOLO III


 
Le dita pallide dell’aurora facevano capolino da est, sciogliendo i filamenti di tenebra della notte precedente. Fra le fronde di salici, i cardellini pigolavano allegri o volavano invisibili, facendo ondeggiare i rami.       
Il fiume Garona scorreva placido, diretto verso sud-est, tagliando in due metà pressoché esatte la macchia di verde. Fluiva silenzioso fra i bassi argini rocciosi, gorgogliando di tanto in tanto contro le asperità che sporgevano timide dal letto del fiume.   
Nel canto discreto della natura, Anidai sedeva in silenzio. Accoccolato nell’incavo delle spesse radici di un salice, antico quasi quanto il bosco stesso. Era il suo personale angolo di pace, quella porzione meridionale della riva del Garona.      
Nei giorni in cui i taglialegna lasciavano da parte le asce, Anidai svaniva dalle vie del villaggio e si rifugiava lì, in quell’antro; invisibile a tutti, se non agli animali che popolavano inosservati il bosco. Non sapeva perché avesse prescelto proprio quel posto, come il suo posto. Forse non c’era una ragione particolare, forse era sufficiente il fatto che fosse lontano dagli occhi di chiunque.
Il mendicante allungò le mani al fagotto, deposto poco prima sulla gobba di una radice: il contenuto era avvolto in un morbido fazzoletto bianco, richiuso con un grazioso nodo sulla cima. Ad avvicinarci il naso, Anidai poteva sentire nelle narici il profumo fragrante del pane abbrustolito e l’aroma quasi stucchevole della marmellata di frutta. Sotto le dita ruvide e impolverate, percepiva la consistenza cedevole del formaggio molle.       
“Stavolta madonna Roma si è davvero superata” pensò, mentre l’acquolina gli inumidiva le fauci. Con i polpastrelli che tremavano sciolse il fiocco alla meraviglia.         
In un tempo ormai lontano era stato quasi del tutto insensibile alle gioie di così piccola portata. Un tempo la sua vita era intessuta unicamente di regole e doveri. Ci pensò in quel momento, come non gli capitava di pensarci da anni ormai. 
E mentre la fetta di pane, zuppa di formaggio e marmellata gli scivolava in bocca, pensò “quanti anni sono passati? Forse sedici? No, ormai sono diciassette.”   
E guardandosi indietro, all’uomo che era stato – e che ormai non era più – l’unica immagine offerta all’occhio della sua mente era una sagoma sfocata, avvolta in una nebbia palpabile.     
Diciassette anni fa, quand’era giunto a Fonderadici, avrebbe potuto fare qualsiasi cosa: prendere l’ascia e farsi taglialegna; stringere i polpastrelli intorno ad un ago d’osso e divenire sarto; o, persino, imbracciare le armi occidentali. Magari, adesso, ci sarebbe stato lui ad occupare il posto di madonna Ygris.           
“Sì, avrei potuto fare qualsiasi cosa” si disse, buttando giù un boccone che gli raschiò la gola. E invece aveva optato per quella forma miserabile, “Anidai lo straccione, Anidai il nullafacente” che tirava a malapena a campare, giorno per giorno.           
Ma ciò che l’aveva spinto non era stata la paura di un posto sconosciuto, né l’indolenza che come un veleno insidia gli uomini melanconici. Bensì, un’antica eco di quel dovere che con tanta insistenza gli era stato inculcato, nella mente e nel cuore.       
“Diciassette anni di miseria… ho creduto mi valessero il perdono. Ma non ne basterebbero duecento, alla mia espiazione.” Pensò, mettendo da parte la colazione. Lo stomaco ormai chiuso.           
“Troppo grande la mia vergogna, troppo profonda la mia codardia.” Ricordava ancora quel mattino, con una limpidezza ormai rara alla sua mente obnubilata. Aveva lasciato la tenda della sua Signora, ancora confuso e tremante nel vortice di dubbi, di visioni, di parole che lei gli aveva rivolto.    
Non visto, era scivolato sino ai cavalli. Un morello era stato il mezzo per la sua diserzione.      
Aveva galoppato verso ovest, con un’alba grigia a corrergli dietro. E mai, neanche una volta, si era voltato indietro. Mai. Né quando i corni da guerra avevano riempito l’aria, come soffiati dalle viscere stesse del Citra. Né quando il cielo e la terra avevano tremato, sotto la furia dell’Ikvalibriam. Neanche quando, ahimè, aveva sentito qualcosa spezzarsi dentro di lui. Neanche allora si era voltato, sebbene sapesse che lì, in quel preciso istante, la sua dolce Aniku era morta.
“Se solo potessi tornare indietro” si disse, con gli occhi vuoti, umidi per le lacrime, “io resterei al tuo fianco, mia dolce Aniku. Non ti lascerei a morire. Magari ti infurieresti, magari mi malediresti come nelle ballate. Ma, perlomeno, saresti ancora viva e ad oggi regneresti sul mondo come eri destinata a fare.”         
Chinò il capo. Strinse i pugni. Le sue nocche sbiancarono.      
“Dovevo rifiutarmi, Aniku. Dovevo rifiutarmi di obbedire ai tuoi ordini. Non è affatto giusto che un singolo uomo si carichi del destino del mondo intero, non è mestiere per noi! Gli dei, gli eroi esistono apposta per questo… avremmo trovato un altro modo, Aniku. Avremmo trovato un altro modo.” Sciolse i pugni, sentì le dita indolenzite dalla stretta.   
Alzò lo sguardo, verso il cielo che di minuto in minuto si rischiarava.
poteva prendere una scelta diversa quel mattino di diciassette anni prima, e invece aveva scelto di seguire il filo che la  Trama aveva intessuto per lui. “Come fanno gli uomini che vivono per il dovere.”
Quel pensiero lo fece sorridere, con un retrogusto di bile contro il palato.        
Nello spicchio di cielo, ritagliato fra le fronde dei salici, Anidai scorse d’improvviso qualcosa: un paio di ali bianche, aperte, planavano verso sud. Riconobbe immediatamente l’animale.          
“Un falco bianco, venuto dall’est.”      
Con un cenno del capo sembrò quasi voler salutare il volatile, già sparito dalla sua vista. Comprese che il momento era infine arrivato: l’intreccio della Trama che Aniku aveva veduto e che aveva avuto cura di mostrargli.         
Diciassette anni da invisibile in attesa di quell’istante e adesso l’avrebbe volentieri rimandato. 
Dai risvolti dei suoi abiti cavò il coltello e a passi cadenzati si avvicinò alle acque del fiume. Per un attimo rimirò il riflesso sull’acqua: non riconosceva quell’uomo. Poi spostò lo sguardo al ferro opaco della piccola lama.         
“È tempo di scavare a fondo dentro Anidai. Il suo tempo è finito. Adesso è il momento di liberare Kudai, il maledetto.”
   
 
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