Crossover
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Autore: Registe    12/01/2022    3 recensioni
Quarta storia della serie "Il Ramingo e lo Stregone".
La guerra tra l'Impero Galattico e la famiglia demoniaca si è conclusa, ma non senza un costo. Vi è una cicatrice profonda che attraversa mondi e persone, le cambia, rimane indelebile a marchiare i frammenti di tutti coloro che hanno la fortuna di essere ancora vivi. Qualcuno decide che è il momento giusto per partire, cercare di recuperare qualcuno che si è perso. Qualcuno decide di dimenticare tutto e lasciarsi il passato alle spalle.
Qualcun altro decide invece di raccogliere i frammenti di una vita intera e metterli di nuovo insieme, forse nella speranza che lo specchio rifletta qualcosa di diverso.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Film, Libri, Videogiochi
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Ramingo e lo Stregone'
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Capitolo 18 - Nella tana del Sole Nero







Il Generale Borahorn








“Provi anche questo, mia signora”.
Una delle cose più complicate durante le trasformazioni bestiali, almeno secondo l’esperienza diretta di Zam, era l’uso corretto delle mani. La maggior parte delle creature che aveva imparato a padroneggiare avevano zampe ed artigli, e le poche che sfacevano sfoggio di qualcosa di simile ad un pollice opponibile –come i Balrog, ma anche alcune variabili di troll nell’Amn- le avevano dato non pochi problemi in fase adattativa. Provare a riproporre la versatilità delle proprie dita su esseri di taglia molto maggiore della sua aveva talvolta compromesso alcuni istanti durante dei combattimenti, e dunque la donna si accorse di star fissando fin troppo incantata gli artigli del massiccio Borahorn intenti a separare delle lische dal resto di un pesce con la precisione degna di un droide. “I pesci llan sono una delizia per il palato, ma stanarli non è semplice. Ho impiegato oltre un’ora nell’attesa che uscisse dal suo nascondiglio, ma non avrei mai pensato di presentarmi al suo cospetto con dei tristi semi e della frutta”.
“Permettimi di puntualizzare una cosa, ciccione che non sei altro!”
Gurdandy, il Generale dal becco appuntito, si mise in posa eretta. Ciononostante non riuscì a superare in altezza il suo compagno, che pure sedeva su uno dei massi con la coda appoggiata sulle ginocchia. “La signora come prima cosa ha assaggiato le mie bacche. Sarebbe evidente anche al tuo minuscolo cervello che ha preso la cosa che la attirava di più”.
“Il mio pesce andava cucinato. Ha solo assaggiato il cibo che le hai offerto per buona educazione”.
Zam guardò il Generale Baran in cerca di cerca di aiuto, ma il Cavaliere del Drago dava loro le spalle intento nella sua meditazione. La donna aveva seri dubbi su come anche il più potente Cavaliere del Drago potesse concentrarsi con quel rumoroso battibecco di sottofondo, ma dopo qualche istante in cui i capelli neri non si voltarono nella sua direzione per salvarla dalla scomoda situazione capì che stavolta nessun aiuto soprannaturale sarebbe giunto per lei.
“Era tutto buonissimo. Molto meglio di quello che si mangia dalle mie parti”.
Ad essere onesta lo stomaco le stava implorando di fermarsi già da una decina di bocconi, ma prese un’altra manciata dei semi che le aveva offerto il Generale Gurdandy e le appoggiò sul piatto di pesce in arrivo.
Il profumo era davvero molto invitante.
Mandò giù il tutto con bocconi lenti, lanciando sguardi all’una e all’altra creatura per mostrare apprezzamento.
Nella sua esistenza era stata imprigionata più di una volta, ed in nessuna di esse si era ritrovata con lo stomaco pieno.
“Iniziate a ripulire il tutto”
Il Drago mosse leggermente le spalle, facendo scintillare alla luce del fuoco le decorazioni degli spallacci. Chinò la schiena in avanti, segno che la sua meditazione fosse terminata, e bastò quel gesto per far scattare le due figure sull’attenti. “Io e la signora abbiamo ancora molte cose da dirci”.
“I suoi uomini possono restare, se lo desiderano”.
A quelle parole, Zam si accorse di averle pronunciate sorridendo.
“Ho compiuto diversi errori nella mia vita, Generale Baran. Sono finita perfino a servire e combattere per un umano per il quale provo soltanto disgusto. Ognuno dei miei passi mi ha condotta qui, e se non fosse stato per la sua generosità avrei concluso la mia esistenza sul fondo dell’oceano per mano di quel bastardo di Kaspar. Ma una cosa … una cosa posso affermarla senza timori”
I due nuovi arrivati fecero scorrere gli occhi da lei al loro signore, e per tutta risposta Zam fece loro cenno di accomodarsi vicino al fuoco. Dopo qualche secondo chinarono entrambi la testa, sedendosi, e sulle sue labbra si disegnò un sorriso che credeva di aver abbandonato ormai da tantissimi anni. “… non ho nulla da nascondere”.


Rosso.
La prima sensazione che le trasmisero i suoi occhi fu il rosso.
Un rosso intenso, da bruciare il fondo della retina, una sensazione imprecisa che dormiva dietro il peso delle sue palpebre unita alla sensazione di sentire contemporaneamente caldo e freddo lungo la pelle. La sua bocca provò a gridare qualcosa, ma a stento riuscì a rendersi conto di essere riuscita ad aprirla. Il rosso delineava contorni strani, margini di oggetti che i suoi occhi non riuscivano a registrare, movimenti impercettibili che cercavano di parlare alla sua testa ancora martellante di dolore.
Cadde a terra come se qualcuno le avesse tagliato dei fili.
L’impatto della testa contro il pavimento lo sentì a malapena, forse più una sensazione di freddo crescente contro la guancia destra, pungente quanto il dolore lungo il resto del corpo e la sensazione che i suoi piedi non fossero in grado di riprendere i normali movimenti.
C’era qualcuno accanto a lei.
Ovattata in quel rosso sempre più sfumato c’era una presenza a cui i suoi sensi cercarono di dare una forma senza alcun successo. Poteva percepirlo a qualche metro da lei, immobile, quasi come un predatore nell’ombra.
Lentamente nel rosso si scavarono l’immagine dello Jedi che l’aveva catturata, seguita dall’espressione rattristata di Jango che sembrava mormorarle qualcosa; cercò in tutti i modi di sentirne la voce, ma l’unico suono che riusciva ad entrare nelle sue orecchie era il sibilo di chissà qualche macchinario poco distante da lei. A fatica appoggiò un dito della mano destra sul pavimento, saggiando la propria resistenza, e subito dopo un palmo. Il freddo adesso la avvolgeva come un manto di sudore.
“Non fare movimenti. Sei appena uscita dalla crioconservazione in carbonite”.
Una voce bassa, ferma. Non per forza ostile, ma Zam si costrinse a volgere la testa nella sua direzione presa dalla necessità di dare una forma alla presenza che continuava a percepire nell’aria. Nel rosso ardente delineò una sagoma umanoide, vestita di scuro. “Il processo di recupero potrebbe richiedere più di un’ora”.
Non era la voce dello Jedi.
Quella l’avrebbe riconosciuta anche con i timpani distrutti.
Il pensiero di Jango la colpì di nuovo, stavolta al cuore.
Senza nemmeno rendersene conto le sue gambe schizzarono verso l’alto, costringendola in piedi, le mani che schizzarono ai fianchi alla ricerca di armi che non erano lì; scosse violentemente la testa, ricacciando il rosso, ricordando le ultime parole del suo nemico ed il pensiero che la persona più importante della sua vita non fosse più a Kamino ad aspettarla, a dirle che per gli appostamenti non era portata, a sommergerla di baci ed a prometterle di incidere i loro nomi sotto la benedizione del Primo Fuoco.
Si appoggiò contro una parete e l’urlo che lasciò la sua bocca era qualcosa che non era certa potesse appartenerle.
Gridò così forte che per poco non cadde di nuovo a terra, stavolta annichilita da un dolore a metà tra il cuore e lo stomaco. Fu solo l’idea di dare un simile spettacolo allo strano osservatore che si costrinse a chiudere la bocca e tornare eretta, anche se il petto le batteva forsennato come un rancor e gli occhi chiedevano solo qualche istante di solitudine per piangere.
“La tua capacità di ripresa è davvero fuori dal comune. Imprigionare nella carbonite non era usanza degli Jedi, ma pare che per te abbiano fatto un’eccezione” disse. Fece un passo verso di lei, e negli ultimi riverberi rossi dell’accecamento da carbonite Zam osservò un lungo abito nero, una tunica consumata che non nascondeva degli stivali e degli abiti della stessa tinta. “Sono davvero curioso di scoprirne il perché”.
“Parli degli Jedi al passato…”
Lo disse ricacciando indietro l’ultimo conato di vomito. Si costrinse di nuovo in piedi, osservando con odio di trovarsi di nuovo lì, di nuovo sul bordo della pozza carica di tibanna; non vi erano più gas o vapori, ma non avrebbe di certo potuto dimenticare quel luogo.
L’ultima nota rossa fu il viso del nuovo arrivato, che sfolgorò nel suo campo visivo.
Gli occhi dorati e le piccole corna sembravano sottili punti di luce in quella stanza, mentre i vistosi tatuaggi neri e rossi comandavano attenzione a chiunque avesse osato mettere lo sguardo sulla sua figura. L’iridoniano non era massiccio, alto forse quanto lei, ma anche in quello stato Zam sarebbe stata in grado di riconoscere la muscolatura guizzante di un soldato sotto i movimenti leggeri della tunica, un dettaglio che anche la convalescenza da carbonite non poteva ignorare. Era immobile, con le gambe leggermente divaricate, ma sarebbe stata pronta a scommettere tutto il proprio denaro che sarebbe stato pronto a scattarle contro al minimo movimento sbagliato.
I suoi occhi erano puntati su un display luminoso.
“L’Ordine degli Jedi è crollato ventidue anni fa” disse, stavolta dirigendo le iridi simili alla luce del tramonto proprio su di lei. “Stando ai dati della tua crioconservazione, è accaduto poche settimane dopo il tuo imprigionamento”.






La festa del capo del Sole Nero era esattamente come Vexen se l’era immaginata: accecante, chiassosa, sudata. Piena di gente in preda ai più folkloristici deliri da sostanze stupefacenti.
Poco importava che gli invitati sfoggiassero gioielli ingombranti come lampadari e il servizio fosse offerto da impeccabili camerieri droidi in livrea bianca: la differenza con l’atmosfera dell’arena dei Crymorah non era poi così grande.
Le risa sguaiate erano identiche, così come la noncuranza con cui cibo e bevande venivano sprecati, gettati a terra, calpestati. Ogni dettaglio dell’ambiente era accuratamente progettato per indurre gli ospiti al più puro stordimento dei sensi: gli specchi sulle pareti e le decorazioni a gocce di cristallo che riflettevano le luci cangianti, il volume alto della musica, il fumo sulla pista da ballo, i profumi afrodisiaci seminati dai vassoi portati in giro dai droidi.
Nemmeno il variopinto bancone del buffet gli era stato di conforto. Si era dovuto ritirare in tutta fretta abbandonando il suo piatto dopo che un Twi’Lek dagli occhi iniettati di sangue e l’alito pungente di una qualche spezia aveva iniziato a sussurrargli oscenità nell’orecchio.
Ci era mancato poco che rimettesse le poche tartine di cui era riuscito a riempirsi lo stomaco.
Il tavolino rotondo a cui si era rifugiato gli sembrava un’isola di salda roccia in mezzo al mare in tempesta. Non aveva intenzione di muoversi da lì fino alla fine di quel party da incubo.
Proprio mentre l’assolo della cantante mirialan al centro della pista raggiungeva il suo apice, una serie di vibrazioni insistenti dall’interno del mantello catturò la sua attenzione. Vexen sospirò, soffocando una serie di bestemmie tra i denti mentre la mano correva automaticamente alla tasca.
Per l’ennesima volta giurò che non si sarebbe mai più lamentato dell’assenza di messaggi sul suo olopad.
Camus non si era ancora fatto vivo. In compenso, il numero di notifiche lampeggianti in rosso sullo schermo ingigantiva a vista d’occhio come durante i migliori attacchi di apprensione del suo stupido assistente.
Lavok aveva disgraziatamente scoperto le gioie della chat di gruppo.

❇StregonePlanare❇
Non fatevi scappare i tramezzini di kwat! Sono squisiti!
❇StregonePlanare❇
Non ci credo, i bagni hanno i rubinetti D’ORO!
❇StregonePlanare❇
Assurdo!
⁓Valygar
Zio, CONCENTRATI SULLA MISSIONE!
L’utente ⁓Valygar è stato rinominato ⁓NipoteGuastafeste da ❇StregonePlanare❇
⁓NipoteGuastafeste
ZIO!!
❇StregonePlanare❇
Spiacente, l’amministratore del gruppo sono io!
⁓Freki
Bando alle ciance. Status?
❇StregonePlanare❇
Sono al secondo piano. Quello con i rubinetti d’oro. Ho provato a dire la password a un paio di tizi dall’aria facoltosa. Mi hanno chiesto se stessi cercando una “escort”, ma non è la password di risposta. Continuo a indagare.
⁓NipoteGuastafeste

⁓NipoteGuastafeste
Negativo anche al primo piano. Devo aspettare un po’ tra un tentativo e l’altro, o sarei decisamente sospetto.
⁓Freki
Piano terra, negativo. Aggiornamento tra venti minuti.

“Era davvero necessario?”
Freki era appena emersa dalla folla, schivando miracolosamente un principio di rissa tra un ithoriano dalla testa a martello e una strana creatura tutta tentacoli che inveiva in una lingua gorgogliante. La donna si lasciò cadere con eleganza sulla sedia di fronte alla sua, chinandosi leggermente per massaggiarsi le caviglie doloranti. Vexen serrò le labbra, astenendosi da qualsiasi commento sulla genialità di indossare tacchi a spillo durante una missione.
“Che cosa? Gli aggiornamenti ogni venti minuti?”
“La chat di gruppo.”
“È il modo più semplice per tenersi in contatto” replicò lei, facendo spallucce. “Ma non preoccuparti, il canale è criptato.”
“Fosse quello il problema.”
“Il problema è che ti lamenti troppo.”
Sarebbe esploso, lo sentiva. L’avrebbe mandata a quel paese, aveva voglia di tirarle addosso qualcosa. Di urlare. Ma Freki continuava a sorridere, lo prendeva in giro con quel suo tono leggero e divertito che in qualche modo riusciva a sgonfiare la sua rabbia come un palloncino abbandonato al termine di una festa. Si limitò a borbottare qualcosa di incoerente e ad incrociare le braccia.
“Hai bisogno di tenerti impegnato” continuò lei, nello stesso tono di prima. “Perciò smettila di stare lì appollaiato come un avvoltoio e seguimi.”
In un battito di ciglia gli aveva preso la mano e aveva iniziato a trascinarlo verso un corridoio laterale. Vexen protestò debolmente mentre una sfilza di porte chiuse si susseguiva alla loro destra e sinistra, finché non sbucarono in una specie di saloncino di passaggio, un piccolo ambiente di rappresentanza con dei dipinti a olio alle pareti e alcuni busti di marmo di personaggi la cui posa solenne non riusciva a mascherare l’aria poco raccomandabile.
Il rumore della festa giungeva attutito, adesso. Non si vedeva un’anima viva in giro, e Vexen assaporò la meravigliosa sensazione delle sue orecchie libere, finalmente sgravate da un peso. Inspirò a fondo, con gratitudine.
Freki gli aveva lasciato la mano e si era avvicinata a una porta seminascosta da un pesante tendaggio, scostando le pieghe per rivelare una specie di serratura a combinazione dotata di lettore ottico.
“Mi dispiace per il Sole Nero, ma la loro sicurezza non è davvero un granché. Prima l’ho crackata con una mano dietro la schiena. Tuttavia, credo che sia di gran lunga più prudente se entriamo in due.”
“E perché mai… “
Fu appena un cigolio, ma lo udirono entrambi. Una delle porte nel corridoio si era socchiusa, rivelando un rumore di passi in avvicinamento. Un lieve tintinnio di vetri. Calici in bilico su un vassoio? Non c’era tempo per riflettere.
Freki gli fu di fronte in un nanosecondo e Vexen, incredulo e senza fiato, si ritrovò spinto con la schiena contro una parete. La voce di lei ridotta a un sussurro, il respiro a un soffio dal suo viso.
Profumava di liquore fruttato.
“Baciami” disse soltanto, il mento sollevato verso di lui.
Vexen fu certo che i suoi occhi si fossero sgranati al punto da rotolare fuori dalle orbite.
“Fidati di me.”
Non c’era tempo, l’ombra di una sagoma si intravedeva già nell’arcata di ingresso al piccolo salone. Lo scienziato lesse l’urgenza nello sguardo di Freki, e capì.
Chinò leggermente la testa, piegandosi verso di lei. Freki pensò a colmare il resto della distanza.
Anche le sue labbra sapevano di liquore fruttato. Indugiarono morbidamente sulle sue, spingendole dolcemente a schiudersi, ma senza urgenza, senza avidità. Vexen sentì tutti i muscoli irrigidirsi e lottò contro la tentazione di scostarsi e distogliere il viso. Si concentrò sulla persona appena entrata, oltre la spalla di Freki. Uno dei pochi camerieri umani, molto giovane, vestito… beh, definirlo vestito era senza dubbio un’esagerazione. Sicuramente faceva parte degli “intrattenimenti” disponibili per gli ospiti della serata. Doveva essersi avvicinato perché insospettito dai rumori nel salone, ma Vexen lo vide sobbalzare leggermente e ritirarsi a gran velocità non appena si rese conto in quali faccende fossero impegnati lui e Freki.
Freki si staccò dalle sue labbra solo quando l’eco dei passi del giovane si fu spento lungo il corridoio. La mano di lei indugiò ancora per qualche momento lungo la curva del viso, accarezzandolo con la punta dei polpastrelli.
“Sei… freddo” disse soltanto, con una punta di stupore. Vexen ebbe l’impressione che non si riferisse soltanto alla sua natura di elementale del ghiaccio, ma si limitò ad alzare le spalle, senza fornire ulteriori spiegazioni.
“Era per questo che dovevamo essere in due?” domandò inarcando un sopracciglio, ma il tono gli uscì meno aspro di quel che si sarebbe aspettato. Probabilmente era l’adrenalina dovuta a tutta quella dannata situazione, ma gli veniva da sorridere.
“Esatto. È dimostrato che gli esseri di quasi tutte le specie tendono a distogliere lo sguardo quando si imbattono in qualcuno impegnato in effusioni. Ci sono meno possibilità che ricordi le nostre facce, e poi… ci dava una scusa credibile per essere appartati.”
“Plausibile, in effetti.”
Gli faceva uno strano effetto, rifletté mentre Freki digitava rapidamente il codice di apertura della porta dietro la tenda. Vexen odiava le situazioni incontrollabili, gli imprevisti e le sorprese. Allo stesso tempo, tuttavia, non poteva non apprezzare il pragmatismo estremo di quella donna. Solido, basato su dati reali. Efficiente.
“Conosci un bel repertorio di trucchi di spionaggio, non c’è che dire. Non esattamente quello che mi sarei aspettato da… “ abbassò volutamente il tono di voce “... un addestramento Jedi.”
Per un istante gli parve di vedere le spalle di Freki reprimere un tremito mentre lo precedeva all’interno della stanza segreta. In men che non si dica furono avvolti da penombra e odore di chiuso, che Vexen tuttavia preferiva di gran lunga al caos della festa.
“Libero di non crederci, ma la vita da fuggiasco per strada ti insegna parecchie cose. O quello, o muori.”
Freki tastò sulla parete fino a trovare un pannello che attivò l’illuminazione non appena vi passò sopra le dita. Gli dava ancora le spalle, ma ogni accenno di leggerezza era svanito dalla sua voce.
Forse fu l’atmosfera chiusa e soffocante che gli ricordò la vecchia grotta in cui aveva vissuto per qualche anno con Camus, ma nella sua mente le parole di Freki si mescolarono ad altre che il sacerdote gli aveva rivolto tanto tempo prima.
“Ha imparato tutto questo da solo?”
Le braci del falò morente accendevano di riflessi rossi la superficie di vetro della provetta e accentuavano lo stupore negli occhi sgranati del giovane Camus. Solo poche ore prima il ragazzo aveva visto il contenuto di quel recipiente guarire un caso terminale di febbre grigia e ora non osava sfiorare la boccetta nemmeno con un dito.
“Senza la guida di nessun maestro?”
“La vita del medico girovago insegna parecchie cose, se solo si è disposti a guardare un po’ più in là del proprio naso” aveva risposto Vexen, senza sforzarsi di nascondere una buona dose di autocompiacimento.

Scosse lentamente la testa, anche se lei non poteva vederlo.
“Sembrerà strano, ma… ti credo.”
La stanza in cui erano entrati sembrava un piccolo paradiso da collezionista di oggetti storici: quadri e arazzi lungo le pareti e teche di vetracciaio disseminate per tutto l’ambiente, contenenti artefatti dei tipi più disparati: da armi a mappe dall’aria antica, da gioielli a strumenti arzigogolati di cui era impossibile identificare la funzione.
“Non toccare nulla” ammonì Freki, l’espressione nuovamente concentrata. “Ci saranno allarmi ovunque.”
“Non mi hai ancora detto che cosa ci facciamo qui.”
“Cerchiamo informazioni. Indizi di qualsiasi tipo. Generalmente una porta chiusa contiene entrambe le cose. Aguzza la vista su qualsiasi cosa potrebbe rivelare un collegamento tra il Sole Nero e i…”
Vexen si era chinato per esaminare le rune sulla lama di quello che sembrava un coltello rituale, ma si voltò con tutti i sensi in allarme quando sentì la voce di lei spegnersi in un mormorio inarticolato.
Avevano inavvertitamente fatto scattare una trappola?
Ma Freki non appariva ferita. Stava immobile davanti a un’altra teca, gli occhi fissi sul suo contenuto, anche se il suo sguardo sembrava fuori fuoco, perso nella contemplazione di qualcosa che solo lei riusciva a vedere.
“Qualche problema?”
Lei si riscosse di colpo. Fece segno di no con la testa: “Solo un colpo basso dal passato.”
La sua voce però era sottile come cristallo incrinato.
Vexen gettò un’occhiata alla teca incriminata. L’oggetto al suo interno aveva un aspetto banale rispetto a tanti altri conservati nel piccolo museo, ma durante la sua permanenza forzata sulla Terra II aveva visto troppe volte quei cilindri metallici legati alle cinture di alcuni ribelli per farsi ingannare dall’apparenza. Alle cinture dei cavalieri Jedi come Luke Skywalker, per la precisione.
Questa in particolare aveva l'impugnatura leggermente ricurva e ricoperta di una sottile guaina di cuoio sintetico, ma non c’era alcun dubbio sulla sua natura.
“Una spada laser. Dubito che qualcuno del Sole Nero sia capace di usarla.”
“Questo è certo” ribatté Freki, sferzante come un colpo di frusta. “Non molti nella galassia possono vantare un’abilità simile al giorno d’oggi. Per questa feccia criminale non sono altro che reliquie del passato. Gingilli da collezione. Ma la persona che possedeva questa spada, che era davvero degna di chiamarla sua, invece…”
Strinse i pugni, lasciando morire la frase in un sussulto di rabbia. Abituato al suo atteggiamento leggero e giocoso persino nelle situazioni più pericolose, Vexen fu sul punto di indietreggiare di fronte alla nube tetra che aveva oscurato il suo sguardo. Tutto il suo corpo sottile era teso come la corda di un arco l’attimo prima di scoccare.
“Tu… hai ancora la tua?”
Non sapeva nemmeno lui perché aveva fatto una domanda del genere. Forse perché qualsiasi altro commento sarebbe apparso fuori luogo o peggio, inutile. Non era il tipo da vuote frasi di conforto.
Freki scosse la testa. I suoi occhi rimanevano fissi sulla teca. “Portarne una equivale a ritrovarsi un mirino puntato sulla fronte. Non ne esistono due uguali, sai? Ciascun apprendista assemblava la propria da sé, usando come nucleo un cristallo kyber. Fin da quando eri piccolo ti insegnavano a lasciar andare l’ego per dedicarti esclusivamente agli altri, ma… costruire la nostra spada forse era l’atto più personale ed individualista che ci veniva consentito. Un modo per esprimere noi stessi pur restando nella cornice delle regole dell’Ordine.”
Adesso lei si era voltata a guardarlo, e Vexen fu certo che il luccichio nei suoi occhi d’ambra non fosse soltanto uno scherzo dell’illuminazione soffusa nella stanza e del gioco di riflessi sulle teche.
Trattenne il fiato, colto da una realizzazione improvvisa. Come aveva fatto a non capirlo subito?
“Non era uno Jedi qualunque” mormorò, accennando appena con il capo verso la teca. “Lo conoscevi.”
“Quando l’Imperatore ha ordinato lo sterminio di tutti gli Jedi io ero soltanto una ragazzina che non aveva ancora completato l’addestramento. Non sarei qui oggi se non fosse stato per la mia maestra.”
Il silenzio calò spesso come una coperta bagnata, carico di fantasmi e di nostalgia.
“Dèi ladri” mormorò infine Vexen.
Il trillo improvviso di entrambi gli olopad rischiò di far perdere loro l’equilibrio per la sorpresa.
Vexen raggiunse meccanicamente la tasca interna del mantello. Una chiamata in corso da Valygar.
“Ragazzi?” esordì la voce del ranger dal ricevitore. Aveva il fiatone. Di sottofondo arrivava una cacofonia di urla e lo schianto di quelli che sembravano oggetti scagliati con forza o fatti a pezzi.
Freki tornò concentrata in un nanosecondo e gli strappò il comunicatore dalla mano.
“Valygar? Dove ti trovi?”
“Terzo piano! Credo che… come dire… sta succedendo un gran casino.”
  
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