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Autore: Adeia Di Elferas    22/01/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Il Valentino stava aspettando il padre, che aveva espressamente chiesto di attenderlo nei suoi appartamenti, che, a detta del pontefice, erano più sicuri da orecchie indiscrete, rispetto a quelli papalini.

Cesare non aveva voluto obiettare, benché fosse certo che se le spie si spingevano fin nelle stanze del Santo Padre, di certo facevano altrettanto con quelle di un misero Duca. Non a caso, aveva preso lui per primo, specie da che erano tornati a Roma dopo l'avventura a Piombino, una decina di giorni addietro, a non discutere mai di nulla di importante dentro al palazzo, preferendo le vigne vicine al Belvedere, molto più solinghe e silenziose.

Alessandro VI aveva promesso che si sarebbe presentato da lui entro metà mattina, ma ormai si avvicinava il mezzogiorno e ancora non si vedeva. Spazientito, il Borja stava già meditando di andarlo a cercare, incurante del fatto che, così facendo, l'avrebbe di certo fatto adirare, quando sentì bussare alla porta.

Non era abitudine di Rodrigo annunciare il proprio arrivo a quel modo, perciò il Duca di Valentinois capì subito che non si trattava di lui. Andando in fretta all'uscio, lo spalancò e si trovò davanti uno dei servi, che gli porgeva una missiva.

“Questa è appena arrivata, non richiede risposta.” spiegò e, subito dopo avergliela consegnata, si ritirò con un inchino.

Ancora più insofferente, il ventiseienne andò alla sedia più vicina e, accavallando le gambe, aprì il messaggio con un gesto brusco. Si trattava di un resoconto, scritto per mano di un suo fidato informatore, della vita coniugale di Lucrecia e del suo novello sposo Alfonso. Il delatore si profondeva nel sottolineare come i due coniugi fossero apparsi sin da subito in grande sintonia, almeno per quel che riguardava la camera da letto e che, anche se in pubblico davano scarsa mostra di interessarsi l'uno all'altra, al palazzo degli Este tutti sapevano quanto piacere traessero l'uno dall'altra.

A Cesare bastarono poche righe per sentire il sangue salirgli alla testa e un nodo stringergli lo stomaco, dandogli la nausea. Non riuscì nemmeno ad arrivare in fondo alla lettera, perché quando arrivò a leggere il preciso rendiconto delle ore passate da Alfonso nella stanza di Lucrecia, il suo istinto prevalse e lo portò a strappare il foglio in mille pezzi.

Preda di una rabbia quasi incontrollabile, il giovane lanciò nel camino – che era quasi spento – ciò che rimaneva della missiva e poi, le mani strette dietro la schiena, andò alla finestra, nel vano tentativo di calmarsi guardando il panorama.

“Finalmente oggi non sembra più pieno inverno, vero, figlio mio?” la voce del pontefice gli arrivò alle spalle all'improvviso, proprio mentre il Valentino stava per abbandonarsi a una sequela di improperi contro Alfonso, futuro Duca di Ferrara.

Voltando solo la testa, Cesare chiese: “Non ditemi che aspettato qui tutta mattina solo per sorbirmi un trattato sulle stagioni...”

Rodrigo, che sembrava essersi allargato ancora di più nelle ultime due settimane, evitò accuratamente di soffiare sul fuocherello che il figlio stava cercando di far divampare. Non era lì per litigare, tanto meno per inimicarsi Cesare, anzi, era lì per cercarne la collaborazione con le buone. Non voleva che i Borja si rendessero di nuovo ridicoli, come in Romagna. Anche se Imola e Forlì erano cadute, tutt'ora – l'aveva sentito lui stesso, tornando a Roma da Porto Ercole – nelle locande era di Caterina di Sforza e del suo coraggio, che si cantava, e se si nominava il Duca di Valentinois, lo si faceva solo per deriderlo per il tempo eccessivo impiegato a prendere la rocca di Ravaldino, o per come, in fondo, fosse uscito come vero sconfitto dalla sottile guerra d'immagine tra lui e la Tigre.

Se la Leonessa di Romagna era stata portata nell'Urbe in catene, per la gente del volgo restava una sorta di regina guerriera senza paura, mentre Cesare, seppur vincitore e incensato dai porporati di Roma, rimaneva il figlio inetto del papa, capace solo di spaventare il prossimo, ma senza un vero talento per nulla.

“Siediti, ti prego...” fece il Santo Padre, restando a debita distanza dal figlio e assumendo un tono pacato e quasi etereo, degno di un chierico timoroso e non dell'uomo collerico e vigoroso che era sempre stato.

Cesare, con un momento di ritardo appena, lasciò finalmente la finestra e fece come gli era stato chiesto. Sulla stessa sedia su cui, poco prima, si era sentito morire nel leggere delle lunghe notti che sua sorella Lucrecia passava con Alfonso, incrociò di nuovo le gambe, questa volta in modo più pacchiano, e, con le mani in grembo, restò in attesa, fissando il padre.

Rodrigo, il volto un po' rubizzo per il nervosismo che stava trattenendo – era così difficile, davvero molto difficile, non riprendere il figlio per quell'atteggiamento arrogante – fece un paio di lunghi sospiri e poi dichiarò: “So per certo che i Varano di Camerino sono allo sbando. Loro credono di avere tutto sotto controllo, ma l'unico su cui possono contare al momento è Guidobaldo da Montefeltro che, per come la vedo io, vale meno di una lira falsa.”

Il Valentino sollevò le sopracciglia. Stava quasi per chiedere che cosa c'entrasse lui coi Varano, ma sapeva che così facendo avrebbe solo scatenato l'ira del padre. Era cosciente del fatto che la campagna militare in centro Italia non potesse essere procrastinata oltre, eppure non riusciva a pensare di trovarsi a breve di nuovo in mezzo ai soldati, sporchi e maleodoranti, sbattuto in qualche angolo sperduto tra gli Appennini, in una tenda piena di spifferi e insetti...

“Entro l'estate voglio che li spazzi via.” riprese il papa, facendo un ampio gesto con la mano, come se stesse letteralmente togliendosi qualcosa da davanti gli occhi: “Quegli insolenti... Pensano di potersi prendere gioco di me, ma non hanno capito con chi hanno a che fare. Io ho piegato quel diavolo di Caterina Sforza! Io sono riuscito laddove gli altri avrebbero fallito! Io..!”

“A dire il vero, Caterina Sforza l'ho sconfitta io.” si decise a parlare il Duca di Valentinois, puntellandosi sulla sedia e sporgendo anche in fuori le labbra: “Sono io che ho assediato la sua rocca e sempre io che l'ho costretta a uscirne, viva, e a diventare la mia schiava.”

Ancora una volta, Alessandro VI si trovò a mangiarsi la lingua. Per quanto lo infastidisse, era quello, sì, proprio quello l'atteggiamento che suo figlio doveva rispolverare, per incutere timore all'Italia intera.

“E allora lo farai anche con questi pusillanimi.” assicurò: “La loro stirpe dovrà finire con loro.”

“Adesso c'è ancora la neve per strada in molte zone, a nord di Roma...” prese tempo Cesare, che sentiva già sbollire la tracotanza che l'aveva portato a correggere il padre poco prima: “Prima che sgeli, io non mi muovo.”

“Un paio di mesi serviranno comunque a organizzare l'esercito.” concesse il pontefice, facendo come se trovasse quella costatazione più che sensata: “L'importante è che quando marcerai su Camerino, i Varano muoiano tutti, nessuno escluso. Compresa Maria Giovanna Delle Rovere.”

“Si tratta di una donna di bell'aspetto?” domandò il Valentino, che conosceva la moglie di Venanzio da Varano solo dalle chiacchiere dei pettegoli di palazzo.

“Sembra di sì.” mentì Rodrigo, che, invece, aveva sentito dire di lei solo quanto fosse anonima e spenta, senza attrattive particolari, insignificante come una muta: “E per una volta, figlio mio, ti dico di non trattenerti, quando la troverai... Visto che il caro Giuliano Della Rovere è uno zio tanto apprensivo, facciamogli versare calde lacrime pensando alla sua adorata nipote... Se la Sforza è arrivata a Roma da schiava, voglio che quella ci arrivi in ginocchio. Che non sia nemmeno in grado di parlare e camminare...”

Cesare guardò il padre in modo strano. Non riusciva a capire se fosse serio o meno. Gli stava davvero chiedendo di ripetere con la moglie di Venanzio da Varano, quello che aveva fatto con Caterina Sforza?

Il papa si era dimostrato tanto sconcertato dalla sorte che il Valentino aveva riservato alla Tigre di Forlì... Eppure adesso si auspicava che le medesime torture le subisse un'altra donna. A volte perfino al figlio sembrava impossibile che Dio avesse permesso a un simile uomo di essere il suo vicario sulla Terra...

'Eppure – pensò tra sé Cesare, fissando il volto ancora acceso del pontefice – se Dio avesse voluto, avrebbe potuto inabissarlo, trascinandolo in fondo ai mari... E invece la mattina dopo la tempesta era impunemente a sentir Messa a Porto Ercole...'.

“Quindi vedi di farlo arrivare vivo almeno a fine anno.” fece Rodrigo, agitando in aria una mano con aria infastidita: “Potrebbe tornarci utile, ora che andrai di nuovo in Romagna...”

“Come..?” il Duca di Valentinois non aveva seguito le ultime parti del discorso e non aveva la più pallida idea di quello che suo padre stesse dicendo, né di chi fosse colui che doveva 'arrivare vivo almeno a fine anno'.

Con uno sbuffo, Alessandro VI ripeté: “Astorre Manfredi. Mi hanno detto che ti stai prendendo troppe libertà con lui. Io ti dico: fallo mangiare e bere. Non deve morire. Non per il momento, almeno.”

“Non capisco di cosa parliate...” borbottò allora Cesare, che, invece, aveva deliberatamente ordinato, nell'arco degli ultimi mesi, lunghi digiuni al giovane faentino, non disdegnando, a volte, di scendere nella sua cella al solo scopo di importunare tanto lui, quanto il di lui fratellastro, che si trovava nella stessa cella.

“Se non lo capisci tu, dillo a chi può capire...” si arrese il Santo Padre, non avendo voglia di discutere con il figlio: “E moderati, in ogni caso. Se Astorre dovesse servirci come moneta di scambio, non voglio che possa dire in giro che il figlio del papa ama accanirsi sui ragazzini...”

Il Valentino ebbe un rapido scatto, tuttavia non disse nulla. Improvvisamente la presenza di Astorre e Giovanni Evangelista Manfredi nelle prigioni di Castel Sant'Angelo gli sembrava un'enorme minaccia. Le loro testimonianze, nelle mani sbagliate, avrebbero leso la sua immagine e sarebbero state utili ai nemici per aizzare anche il popolo contro l'ormai ben nota corruzione dei costumi di Roma...

“Mi raccomando.” concluse il pontefice e poi, andando verso la porta, concluse: “Convocherò alcuni dei tuoi condottieri... Parlerò loro in modo informale dei dettagli, magari a cena, e poi, appena sarete pronti, marcerete come detto contro i Varano.”

Il Valentino, del tutto concentrato sulla questione dei Manfredi, annuì appena e rispose: “Certo, certo...”

 

I giorni erano passati lenti e tranquilli, alla villa di Castello, come se tutte le tribolazioni consuete fossero state messe in un angolo, in attesa che il ghiaccio iniziasse a sciogliersi e il sole tornasse a scaldare le pareti lineari e dal colore tenue della dimora della Tigre.

Caterina aveva espresso qualche volta la volontà di tornare presto da Giovannino, ma Fortunati, cedendo a uno slancio di egoismo per lui così estraneo da essere inebriante, l'aveva portata a temporeggiare, aspettando che lui ripartisse, prima di lasciare la villa per andare al convento.

Era arrivato, senza grandi notizie dal mondo esterno, quello che a Firenze era ritenuto Capodanno, ossia il 25 marzo. Il piovano aveva convinto tutti a festeggiare, anche se in modo molto pacato, quella ricorrenza, ricordando loro che, da quel giorno, si entrava nel 1502 in modo ufficiale, per i fiorentini.

Il brutto tempo, però, nonostante l'arrivo dell'anno nuovo, non demordeva. La Leonessa, proprio con la scusa della pioggia che, nelle ore più fredde, diventava nevischio, aveva provato a trattenere Francesco, quando il venerdì di Capodanno le aveva fatto presente che già domenica sera avrebbe dovuto essere di nuovo a Cascina, perché ormai i suoi impegni non erano più rimandabili.

“Allora, se parti davvero domattina, mentre non ci sei – gli disse la notte del sabato, mentre stavano entrambi sotto le coperte, l'uno stretto all'altra, a combattere il freddo ancora pungente di quell'inverno che pareva non voler finire mai – andrò davvero alle Murate. Ho voglia di vedere mio figlio.”

Fortunati annuì, accorgendosi di non avere più nulla in contrario. In un certo senso, anzi, saperla tra le mure di un convento, circondata solo da donne e intenta a prendersi cura di Giovannino, lo tranquillizzava.

“Se la moglie del Salviati dovesse cercare di incontrarmi ancora, cosa mi consigli di fare?” chiese la milanese, stringendolo un po' di più a sé, quasi che con quel contatto volesse percepire ancor di più la sua risposta.

“Direi che per ora non ha fatto altro che del bene, per te.” le fece notare lui: “So che tendi a non fidarti, per tua natura, ma abbiamo bisogno di qualcuno che ci spalleggi... Se non altro, lei è pronta a farlo per il bene del cognome che porta.”

Caterina rimase un momento in silenzio. Trovava quasi divertente il paragone tra sé e Lucrezia Medici. Entrambe portavano avanti il nome della loro famiglia d'origine, usandolo come un motivo di vanto e sperando che, un giorno, potesse tornare importante come un tempo. Malgrado il mondo le volesse relegare al titolo di sposa di qualcuno, Riario o Salviati che fosse, entrambe erano state capaci di farsi conoscere di più col nome con cui erano nate.

“E con Ottaviano? Che devo fare?” riprese la Tigre, passando a un altro punto dolente.

Francesco si accigliò. Nel buio, guardò verso il viso di Caterina, non riuscendo a vedere granché, sia per l'assenza di luce, sia perché la donna, mentre parlava, l'aveva affondato ancora si più contro il suo collo.

Gli sembrava strano doverle dare tanti consigli. Era sempre stato abituato a pensare alla Leonessa come a una donna indipendente, ma, soprattutto, molto avvezza a ragionare solo con la sua testa e prendere le sue decisioni in autonomia.

Mentre le accarezzava la testa, pensando a come risponderle, si domandò se anche con gli altri uomini che aveva scelto come amanti favoriti, o, addirittura, come mariti, aveva fatto a quel modo, ammorbidendosi e confrontandosi sulle questioni che più le stavano a cuore.

“Non so che dirti...” ammise lui, dopo un po': “Forse... Forse farebbe bene a tutti, se partisse per un po'. Anche alla servitù.”

La Sforza non dovette chiedere al piovano cosa intendesse con quell'ultima osservazione. Sapeva bene che il suo primogenito era diventato una sorta di tormento, per un paio di serve. Probabilmente le pagava, anche se non capiva con quali soldi, ma non era strano vederne una delle due con un labbro spaccato, o un occhio gonfio, o dei segni inequivocabili sul collo. Caterina faceva sempre finta di non vedere, ma ne soffriva. Come le era successo con il suo primo marito, non riusciva a trovare la forza di affrontarlo in modo definitivo e farlo smettere. Provava una tale repulsione per quell'aspetto di suo figlio, da non riuscire a far altro che starne lontana.

“Va bene.” soffiò a quel punto la Sforza, sistemandosi un po' meglio, apprezzando come non mai il calore che si era accumulato sotto alle coperte: “Continua a organizzare tutto. Per il momento non voglio fissare una data, ma deve essere tutto pronto.”

“E cosa vuoi aspettare, prima di decidere la data?” domandò l'uomo, credendo di non ottenere una risposta, dato che spesso, quando si arrivava al nocciolo di un ragionamento, la Tigre preferiva tenere le proprie considerazioni solo per sé.

“Prima voglio parlarne con Bianca e Galeazzo – disse, invece, la milanese – e voglio vederci più chiaro su tante cose... In questo senso, se la moglie del Salviati passasse alle Murate, mi farebbe solo un piacere. Quando avrò un quadro più netto della situazione, fisseremo una data.”

“Mi pare ragionevole.” convenne il piovano, trovando comunque particolare che Bianca e Galeazzo venissero coinvolti in una simile decisione.

Da quel momento in poi, pur restando entrambi in silenzio e quasi immobili, né Caterina né Francesco riuscirono più a prendere sonno. Tutti e due si stavano perdendo in tanti calcoli e prefigurazioni che, a tratti, li spaventavano, a tratti li rassicuravano.

Quando mancò un'oretta all'alba, Caterina sussurrò: “Forse è meglio che inizi a prepararti, se vuoi essere certo di arrivare a Cascina entro sera.”

Fortunati annuì e, dandole un breve bacio in fronte, quasi che fosse già tornato a vestire i rigidi panni del piovano votato alla castità, si divincolò con gentilezza dal suo mezzo abbraccio e lasciò il letto caldo.

Tutti sapevano che il fiorentino sarebbe ripartito quella mattina, e infatti quando fu pronto e arrivò al portone con il suo piccolo bagaglio, trovò non solo due servi ad aspettarlo, ma anche Bernardino, che, però, era rimasto in disparte, nascosto, per vedere la partenza del piovano senza, però, essere visto a sua volta.

Caterina, che arrivò pochi minuti dopo Francesco, congedò subito i due servi, dicendo che avrebbe pensato lei ad accomiatarsi dall'ospite, magari accompagnandolo anche alla stalla. Attese quindi che lei e il piovano fossero soli e gli strinse con forza una mano, facendogli cenno di avvicinarsi un momento.

Gli sussurrò in fretta all'orecchio qualche parola, raccomandandogli di fare attenzione e di farle avere presto sue notizie. L'uomo annuì e poi le chiese, a voce un po' più alta, se davvero voleva accompagnarla alla stalla, malgrado fuori la pioggia fosse spessa e pesante come se volesse trasformarsi a breve in neve.

La Leonessa fu irremovibile e così, badando bene a non stare troppo vicini, a beneficio dei possibili curiosi che stessero spiando dalle finestre, i due uscirono e corsero verso le stalle.

Caterina adorò quel brevissimo momento di libertà. Respirare l'aria fredda, sentire le gocce grandi e battenti della pioggia bagnarle i capelli e l'abito, correre, soprattutto correre...

Arrivarono alla stalla quasi senza fiato. Fortunati non era abituato all'esercizio fisico, ma non voleva mostrarsi così provato per un tragitto tanto breve, perciò, prima di parlare, si sforzò di fare profondi respiri che andassero a mitigare il suo ansimare. La donna, però, se ne accorse immediatamente e, mentre riprendeva fiato a sua volta, del tutto fuori esercizio, usò quel pretesto per prendere giocosamente in giro il piovano.

“In queste ultime notti non mi eri sembrato così poco resistente...” rise, cercando di tenere la voce bassa.

Immaginava che nella stalla non ci fosse nessuno, dato che non aveva uno stalliere ufficiale, ma era sempre meglio essere prudenti. Mentre Francesco borbottava qualcosa, schermendosi come meglio poteva, dando anche la colpa al peso del suo bagaglio, la milanese aveva raggiunto il suo cavallo e aveva già cominciato a sellarlo.

“No, non darti pena, posso fare anche da solo...” fece Fortunati, più per voler essere gentile, che non perché volesse davvero sostituirsi a Caterina in quel compito.

La Tigre non lo sentì nemmeno e andò avanti a preparare il cavallo con gesti veloci e sicuri. Le mancava molto, cavalcare, e le mancava anche tutto ciò che era connesso a quel mondo: sistemare i finimenti, andare a caccia, lanciarsi all'assalto...

Il fiorentino, rapito com'era nel guardarla lavorare, non si accorse di qualche piccolo movimento alle sue spalle. Anche il fruscio sulla paglia sparsa in terra venne provvidenzialmente coperta da un nitrito della bestia che, soffiando con forza, aveva sollevato una nuvoletta di vapore dalle froge.

Bernardino, silenzioso come un gatto, si acquattò in un angolino della stalla e si mise a osservare la madre e il piovano. Li vide parlare un po', in modo disteso, familiare, come li aveva sempre visti, eppure c'era qualcosa nel loro atteggiamento che gli sembrava diverso.

A un certo punto, senza che apparentemente vi fosse qualche avvisaglia, Fortunati si mosse verso la Tigre e le diede un bacio sulle labbra. Il piccolo Feo, attonito, rimase in attesa di una reazione della madre. Già la vedeva prendere a schiaffi il piovano, o, anche, a restare interdetta da quello slancio che stonava del tutto con l'immagine imperturbabile dell'uomo.

Invece la milanese sorrise, bisbigliò qualcosa, e restituì il bacio, mettendosi poi a indicare il cavallo, ormai sellato a puntino e pronto a partire.

Bernardino, confuso e incerto su quello che i suoi stessi occhi avevano visto, rimase nel suo nascondiglio anche quando la madre e Fortunati lasciarono la stalla. Attese, anzi, di sentire in lontananza gli zoccoli battere sul terreno fangoso, e, solo dopo ancora almeno una mezz'ora, si decise a uscire e rientrare alla villa.

 

“Oh, la relazione scritta da Niccolò è stata molto esaustiva...” sbuffò Jacopo Salviati, togliendosi gli stivali che aveva dovuto indossare per tutto il giorno, a causa della pioggia torrenziale che aveva trasformato le vie di Firenze in tanti piccoli fiumiciattoli: “Sembrava quasi che ci fosse del compiacimento, nelle parole che ha usato per spiegare come i Pisani hanno preso Vico Pisano e che il nostro Commissario Pucci e il Castellano Ceffi hanno dato a un certo Piamonte anche la rocca...”

“Avanti, Jacopo...” fece Lucrezia, trattenendo a stento uno sbuffo: “Ormai è da giorni che non parli d'altro! Da prima di Capodanno. Ho capito che Machiavelli non ti piace, ma devi fartelo andare bene, come tutti gli altri.”

Il Salviati smise per un istante di armeggiare coi propri calzari e poi guardò verso la moglie. La donna, seduta a breve distanza da lui, guardava verso il camino acceso, un'espressione strana in viso.

Era sera ed era anche abbastanza tardi. Lucrezia l'aveva aspettato per cenare, mentre tutti i loro figli, specie i più piccoli, erano già stati fatti andare in camera a dormire. Il palazzo era in un silenzio quasi totale, e se non fosse stato per i pochi servi che ancora si affaccendavano per preparare la cena ai due padroni, si sarebbe sentito solo lo scrosciare della pioggia e lo sfrigolare del legno nel caminetto.

“Lo so quello che devo fare.” fece dopo un po' Jacopo, levandosi anche il secondo stivale e poi abbandonandosi contro lo schienale della sedia, gli occhi buoni fissi sulla Medici: “Devo andare d'accordo con più gente possibile e... Sì, be', poi c'è la questione di Soderini, che va spalleggiato e comunque Niccolò sta facendo la sua strada e sarà meglio tener buono anche lui... Solo che... Ma si può sapere che c'è?” chiese, dato che la consorte sembrava non sentirlo nemmeno.

“Niente, niente, stavo solo pensando alla figlia di Lorenzo.” spiegò lei, che, in effetti, in quella lunga giornata passata da sola coi figli, non aveva fatto altro che rimuginare sul Popolano e sul matrimonio della di lui figlia, Laudomia.

“Ah, sì?” domandò a quel punto Jacopo, accigliandosi: “E come mai?”

“Perché... Francesco Salviati secondo te è una buona scelta, per lei?” fece la donna, stringendosi le mani l'una nell'altra: “Suo padre ha dato prova di essere un vero Piagnone, uno di quelli che...”

“Aspetta.” il Salviati si alzò e andò, scalzo, ad accucciarlesi dinnanzi, prendole le mani e guardandola con attenzione: “Perché questo dovrebbe interessarci?”

Lucrezia si morse il labbro e poi ammise: “Questo fatto, questo matrimonio... Mi ha fatto pensare a quando saremo noi a dover trovare marito alle nostre, di figlie. Riusciremo a trovare loro qualcuno che sia valido, ma anche che vada bene per ciascuna di loro?”

“Ma certo...” sussurrò Jacopo, frastornato da quell'improvvisa incertezza della moglie.

“Tu ne sembri così sicuro... Ma anche mia nonna Lucrezia era certa di aver scelto un'ottima moglie per mio padre, Lorenzo...” a quelle parole, lo spettro di Clarice Orsini, moglie del Magnifico, aleggiò nella stanza per qualche istante, e finalmente il Salviati capì.

“Lo so che i matrimoni combinati non sono tutti fortunati come il nostro.” premise, e poi, sporgendosi un po' in avanti e appoggiandosi alle ginocchia della moglie, quasi come un penitente che chiede l'assoluzione, riprese: “Ma noi saremo bravi, sapremo scegliere.”

“E i nostri figli? I maschi, intendo...” riprese la Medici, sospinta da un bisogno ineluttabile a scaricarsi l'anima, esponendo per intero i dubbi che quel giorno l'avevano tormentata: “Saremo in grado di scegliere per loro buone mogli, e loro... Loro saranno uomini degni? O saranno degli sposi poco desiderabili?”

“Noi stiamo facendo il nostro meglio.” la rincuorò lui: “E di certo saranno più educati e di buon carattere rispetto al figlio del Popolano.”

“Che intendi?” Lucrezia sembrava già in parte rasserenata, nel sentire Jacopo tanto sicuro, ma quell'ultimo inciso le metteva addosso una nuova ansia.

Era vero che Pierfrancesco con loro non aveva molto a che fare, ma il cognome che portava, Medici, era per lei più caro di qualsiasi altra cosa, e pensare che con il suo comportamento potesse ledere la dignità della famiglia, magari più ancora di quanto già non stesse facendo Lorenzo con i suoi capricci in politica estera, la faceva star male.

“Mi ero scordato di dirtelo – raccontò a quel punto il Salviati, rimettendosi in piedi – a Capodanno l'ho visto nel tardo pomeriggio, che arrivava da via della Macciana, assieme a un gruppo di ubriachi e lui, ci puoi scommettere, mi pareva il più ubriaco di tutti...”

“Che brutta cosa...” sussurrò lei, immaginandosi bene cosa potesse fare un giovanotto, per di più ubriaco, in una via come quella, popolata quasi unicamente da donne pubbliche e bettole della peggior specie.

“Adesso non pensiamo più a queste cose...” fece l'uomo, battendo le mani: “Andiamo a mangiare, sono affamato.” e poi, passando una mano sulle spalle della moglie, che si era alzata, provò a cambiare discorso, con successo: “Hai sentito di cosa ha fatto Isabella, la Marchesa di Mantova?”

Lucrezia, interessata come tutti a ciò che faceva l'Este, sciolse il cruccio in un sorriso e rispose: “Io no, non ho sentito... Cos'ha fatto, questa volta? Si è fatta ricamare un abito con intessute tutte le costellazioni in oro puro?”

“Dicono che al matrimonio del fratello Alfonso – spiegò l'uomo, mentre andavano verso il salone da pranzo – si sia esibita nel canto, cosa che non fa quasi mai, solo per dar prova delle sue doti canore alla cognata!”

La Medici, apprezzando come non mai il tono frivolo – che il marito sfoggiava estremamente di rado – usato per distoglierla dai suoi pensieri più cupi, ribatté, ridendo: “Oh, povera Lucrecia Borja... Ha appena lasciato quel covo di serpenti che è Roma, e s'è buttata tra le grinfie di una vera vipera...”

   
 
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