Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    16/01/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Galeazzo aveva ritirato personalmente la lettera destinata alla madre che, malgrado non fosse tanto presto, era ancora nelle sue stanze. La staffetta, che arrivava direttamente da Milano, gliel'aveva lasciata, malgrado gli ordini precisi di consegnarla tra le mani di Caterina Sforza e nessun altro, quando aveva riconosciuto frate Lauro Bossi.

Se lo ricordava, quando ancora viveva nel Ducato, e così si fidò subito, quando il religioso gli disse che il Riario era figlio della Tigre e che avrebbe difeso quel messaggio con tutto se stesso, finché non l'avesse dato direttamente alla Sforza.

Il ragazzo si era inorgoglito sia nel vedersi accordare fiducia, sia nel sentir esclamare, dalla staffetta: “Vi chiamate Galeazzo! Come vostro nonno, il Duca... Ero solo un ragazzino, ma lo ricordo bene... Gli somigliate! Stesso sguardo e stesso profilo!”

Frate Lauro, che sentiva di dissentire almeno in parte con quell'affermazione, fece come sempre buon viso a cattivo gioco, e assecondò il messaggero, confermando: “Sì, gli somigliate molto.”

Così il Riario, mentre attendeva che sua madre uscisse dalla propria stanza, continuava a ripensare a quelle parole. Il fatto che fosse arrivata una lettera direttamente da Milano, per lui, in quel momento, era di secondaria importanza. Di colpo voleva sapere quanto davvero assomigliasse al nonno materno, dato che né sua madre né nessun altro aveva mai fatto un simile parallelismo in modo tanto netto.

Quando sentì la porta scattare, Galeazzo si aspettava di vedere uscire la Tigre e, invece, con sua grande sorpresa, era Francesco Fortunati, colui che stava lasciando le stanze della Sforza.

Il piovano, accorgendosi subito di essere osservato, si strinse nelle spalle, in forte imbarazzo e, dissimulando come meglio riusciva il suo disagio, chiese: “Cercate vostra madre?”

Anche quella mattina il fiorentino e la milanese avevano fatto più tardi di quello che avrebbero voluto. Dalla prima volta in cui Francesco aveva ceduto alle richieste di Caterina, i due si erano incontrati quasi ogni notte. Fortunati era ben deciso a non farle mai carestia di sé, ma quella mattina, per la prima volta in modo concreto, capì cosa intendesse lei, quando lo metteva in guardia su quanto fosse difficile stare attenti e non farsi scoprire, in una casa tanto affollata.

Il Riario, perplesso davanti alle gote un po' arrossate del religioso, si accigliò e poi rispose: “Sì, devo consegnarle una lettera.”

Il piovano, che di norma era estremamente interessato e attento alla corrispondenza della Leonessa, quella volta quasi sembrò non far caso alle parole del ragazzo. Sembrava, anzi, che l'unica cosa che gli premesse fosse avvisare in fretta la donna, andando subito a bussare alla porta della stanza e specificando che lì fuori c'era il figlio, Galeazzo, che aveva urgenza di vederla.

Il Riario, nel vedere quella goffa iniziativa di Francesco, si accigliò. Negli ultimi giorni, lo doveva ammettere, aveva notato che c'era qualcosa di diverso, nel modo in cui l'uomo si rivolgeva a sua madre, ma aveva imputato quella variazione al maggior tempo che i due passavano insieme a discutere di politica e delle prossime mosse da fare. Anche quella mattina, pensava, probabilmente Fortunati era nella stanza della Tigre a quell'ora solo perché vi era andato per portare avanti i discorsi interrotti la sera prima...

Caterina, nel sentire l'annuncio di Fortunati, aveva recuperato in fretta la veste da camera, e se l'era infilata, andando alla porta il più in fretta possibile, per non destare troppi sospetti nel figlio. Non ci sarebbe stato nulla di male, a suo avviso, se anche Galeazzo avesse saputo con certezza della relazione appena nata tra lei e il piovano, tuttavia, più per riguardo alla reputazione specchiata di Francesco, che non per salvare se stessa da qualche pettegolezzo in più, la Sforza preferiva mantenere il più a lungo possibile un certo riserbo.

“Eccomi.” disse la Leonessa, affacciandosi.

Il Riario fece, inconsciamente, un breve esame anche alla madre. Era scarmigliata e poco vestita, ma lei si presentava spesso così, a chi la cercava mentre era nelle sue stanze. Ciò che lo indusse di nuovo a nutrire dei dubbi, oltre allo strano rossore che aveva lungo il collo, fu il modo in cui la donna guardò Fortunati e, con un semplice cenno del capo, gli fece capire che poteva andarsene. In quel breve gesto c'era una confidenza molto più profonda di quella che Galeazzo avesse mai notato tra i due.

“Hanno appena portato questa lettera, da Milano. La staffetta dice che aspetterà un paio d'ore, nel caso abbiate una risposta da scrivere.” spiegò il ragazzo, porgendo la missiva alla madre.

Questa, che non riusciva a smettere di guardare di soppiatto il piovano che si allontanava, prese la missiva e lo ringraziò, prima di chiedere: “Tu l'hai letta?”

Galeazzo scosse il capo, poi, chiedendosi come avesse fatto la Tigre a non accorgersi che il messaggio era ancora sigillato, aggiunse: “Era rivolta a voi, espressamente.”

Caterina, non appena Fortunati sparì dalla sua vista, si concentrò sul foglio che aveva tra le mani.

Avrebbe voluto entrare in stanza e invitare il figlio a fare altrettanto, ma non voleva fargli vedere il letto ancora sfatto e i suoi abiti abbandonati in terra: il suo quintogenito era troppo sveglio, avrebbe capito tutto.

Così, restando sulla porta, la milanese si mise a leggere. Lo scrivente era Gian Piero Landriani. Le fece molto piacere ritrovare la sua grafia, che aveva imparato a conoscere, e nelle sue parole le parve di risentire l'accento della sua terra, che tanto le mancava.

Il Landriani si diceva immensamente felice di saperla sempre in salute e in salvo, e poi le raccontava quello che stava accedendo in Lombardia. Le fece cenno al Moro, ai suoi fratelli, Alessandro ed Ermes Sforza, e perfino a Bona di Savoia, che l'uomo diceva di aver avuto l'occasione di contattare da poco.

Le chiedeva notizie dei suoi figli e della casa in cui si trovava e le riconfermava tutto il suo appoggio, sottolineando, anzi, come il legame con lei fosse ormai l'unica cosa – essendo entrambi i suoi figli morti, senza lasciargli nemmeno nipoti – che gli permettesse di trovare la forza di sopravvivere.

Sul finale, e la Leonessa comprese bene che quella era parte più importante, il Landriani faceva alcune allusioni al fatto che Ottaviano fosse ormai un uomo adulto e che, se mai ce ne fosse stato bisogno, lui sarebbe stato pronto ad affiancarlo, se mai avesse dovuto intraprendere un viaggio al nord. Chiedeva se fosse vero che a breve anche il Cardinale Sansoni Riario sarebbe passato da Milano e si domandava in modo retorico se, in quel caso, non sarebbe stato piacevole, per il porporato rivedere non solo Ottaviano, ma anche Cesare.

La Tigre avrebbe voluto poter parlare dal vivo con Gian Piero, chiedergli esattamente cos'avesse in mente e cosa sapesse. Era ormai troppo tempo che gli stava lontana per cogliere davvero tutti i sottintesi che il vedovo di sua madre aveva voluto suggerirle.

“Leggila.” fece a un certo punto la milanese, porgendo la lettera al figlio.

Galeazzo, perplesso, prese il messaggio e fece quello che gli era stato chiesto. Arrivato in fondo, aggrottò la fronte e lo restituì alla madre.

“Cosa ne pensi?” chiese la donna, desiderosa di trovare nel Riario non solo un appoggio, ma anche una mente viva con cui confrontarsi al fine di prendere una decisione.

“Penso che se mio fratello se ne andasse per un po', ne gioveremmo tutti.” rispose lui, senza troppi giri di parole.

Il ragazzo, ovviamente, non aveva analizzato a fondo i pro e i contro di una possibile partenza di Ottaviano, eppure con la sua risposta di slancio non andò a far altro che rinforzare un'idea che stava prendendo piede nella mente della madre.

“Lo credo anche io.” disse infatti la donna, dopo qualche secondo di silenzio.

“Davvero?” Galeazzo era tutto sommato stupito, dato che, fin dal giorno in cui aveva lasciato Forlì, si era convinto che il nodo cruciale della forza della famiglia fosse quello di non dividersi.

Certo, Cesare ormai non viveva più con loro da tempo e Giovannino, per la sua sicurezza, era chiuso in un convento di suore da mesi, però...

La Tigre annuì appena e poi si massaggiò pensosa il mento. Era evidente che, ormai, la sua testa fosse altrove e stesse già pianificando qualcosa, ma al Riario premeva molto farle una domanda, prima di lasciarla ai suoi pensieri.

“Madre...” disse piano, inducendola per un momento a lasciare da parte l'immagine di Ottaviano e a concentrarsi su di lui: “Secondo voi è vero che assomiglio a mio nonno, il Duca Galeazzo Maria?”

Quella domanda, così inattesa e diretta lasciò di stucco la Leonessa. Stringendosi un po' nella veste da camera, la donna lo guardò intensamente e gli chiese chi gli avesse detto che era così.

Temendo quasi di averla fatta arrabbiare, Galeazzo le spiegò della staffetta, suscitando in lei un certo interesse, e poi si affrettò ad aggiungere: “Immagino... Immagino che quell'uomo l'abbia detto tanto per dire qualcosa.”

“Tu hai un naso importante, ma più bello di quello che aveva mio padre – fece allora la Sforza, convinta che suo figlio avesse bisogno di sentirsi in qualche modo confermare da lei ciò che aveva detto il messaggero – hai gli occhi più limpidi... I suoi erano sempre... Avevano qualcosa di... Era come se non ti guardasse mai veramente, come se avesse sempre qualcosa in sottofondo che non gli dava pace.”

Il figlio deglutì. Immaginava che ciò di cui stava parlando sua madre fosse, con altre parole, ciò di cui, molti anni prima, aveva parlato sua nonna Lucrezia. Quando Galeazzo era bambino, assieme a Bianca a volte aveva chiesto alla Landriani qualche cosa riguardo il nonno e i bisnonni. Anche se Caterina aveva sempre raccontato loro le gesta dei Duchi di Milano, i Riario avevano sempre avuto la sensazione di non poter sapere da lei tutta la verità. Era stata proprio Lucrezia, per rispondere alla curiosità dei nipoti, la prima a parlare apertamente loro del 'demone', così lo chiamava, che albergava nell'animo del defunto Galeazzo Maria, un demone che più di una volta aveva preso il sopravvento, costringendolo a fare anche cose orribili.

“Mio padre... Tuo nonno – riprese la Leonessa, dopo un solo istante di esitazione – aveva dentro di sé un'ombra... Qualcosa che... Che tu non credo abbia ereditato.”

Il ragazzino abbassò un momento lo sguardo, incapace di capire se fosse felice o scontento di non avere quel difetto in comune con il nonno.

Forse intuendo quel dissidio interiore, la donna concluse: “Però hai il suo fisico atletico, da grande soldato. Hai le spalle larghe e robuste, e, anche se sei ancora davvero molto giovane, il suo modo di fare è molto fiero, e signorile, come era il suo. E sei ordinato. Ti prendi grande cura delle tue cose e di te. Tu assomigli a mio padre, ma solo nelle cose belle e non sai quanto io ne sia fiera.”

Quell'ultima arringa ridiede il sorriso al Riario che, seppur un po' confuso, si sentì finalmente felice e certo di assomigliare – anche se solo in alcune cose – al Duca Galeazzo Maria Sforza, uomo di cui portava il nome, un nome che, un giorno, gli sarebbe piaciuto poter far tornare grande.

“Vai a dire alla staffetta che avrà a breve la sua risposta.” disse Caterina, con un filo di voce.

Il figlio annuì e, senza più nulla chiedere, restituì la missiva alla madre e andò quasi di corsa a fare quanto gli era stato chiesto.

Rimasta sola, la milanese tornò in camera, lanciò sulla scrivania la missiva di Gian Piero Landriani e poi si sedette un momento sul letto sfatto, per pensare. Aveva poco tempo per formulare una risposta. Di certo non le sarebbe bastata un'ora, e nemmeno due, per decidere se mandare davvero Ottaviano al nord. L'unica cosa che poteva, al momento, era tenere aperta anche quella porta.

Scompigliandosi i capelli, in un gesto di impazienza, si rialzò e si mise alla scrivania. Prese la pagina bianca migliore che avesse e iniziò a vergare una serie di frasi che, a un occhio esterno, avrebbero avuto poco significato. Parlava dei figli, dicendo che stavano tutti bene, parlava della villa, assicurando che era una sistemazione dignitosissima, e poi si lanciava in qualche vago accenno al Ducato di Milano, alla sua infanzia trascorsa lì e al suo legame ancora forte coi ricordi legati alla sua patria natale.

Di quando in quando metteva qualche mezza frase in codice, convinta che il Landriani, ricordandosi del periodo passato al suo servizio, sapesse come decifrarla. Gli scrisse, in definitiva, che l'idea era buona, ma che aveva bisogno almeno di qualche giorno, se non di più, per ragionarci e capire cosa le conveniva fare.

Chiuse con saluti affettuosi e sinceri, e con un accenno sia a Bianca sia a Piero, due fratelli veri, come volle esplicitare, per far capire a Gian Piero quanto avesse amato i suoi figli morti troppo presto, seppur con loro aveva condiviso solo la madre.

Con un sospiro, rilesse tutto quanto e si chiese se il Landriani avrebbe davvero colto ogni sfumatura nelle sue parole. Era certa che l'avrebbe fatto. Era un uomo sveglio, lo ricordava con affetto e gli era molto grata per i servigi che le aveva reso senza pretendere nulla in cambio, anzi, lasciando che il suo unico figlio maschio combattesse e morisse per lei...

Con un sospiro pesante, nel ricordare il viso giovane di Piero, la donna represse un moto di commozione. Era stata felice, quando lui le aveva detto di avere intenzione di restare fino alla fine alla rocca di Forlimpopoli, restandole leale, tuttavia, adesso che il tempo era passato, le sembrava di colpo tanta vana e inutile, una simile morte...

Asciugandosi quasi con rabbia una piccola lacrima che le era scappata sulla guancia, Caterina si impose di pensare al presente. Doveva decidere cosa fare di Ottaviano e capire quanto fossero validi i consigli di Gian Piero. Quella sera, pensò, quando Fortunati fosse arrivato come sempre nelle sua stanza – perché ormai sembrava che il piovano avesse un impegno fisso che non intendeva disdire, tanto da evitare perfino di pianificare il proprio rientro a Cascina – prima di buttarlo sul letto, come spesso faceva in uno slancio di giocosità, la Tigre gli avrebbe parlato di quella lettera e avrebbe chiesto il suo parere.

 

Giulio Cesare da Varano batteva con impazienza la punta delle dita sul tavolone di legno e guardava torvo verso la sedia ancora vuota. Tutti i figli che aveva chiamato alla sua presenza erano arrivati, tutti tranne Venanzio.

“Iniziamo senza di lui.” propose a un certo punto Annibale, incrociando le grosse braccia sul petto e fissando il padre quasi con aria di sfida: “Tanto lo sappiamo tutti che è a perdere tempo dietro a qualche sottana...”

“Secondo me, invece – intervenne Pirro, sbuffando – è stato trattenuto da sua moglie... Avete visto anche voi quanto è noiosa, in questi giorni, Maria Giovanna...”

Annibale, che gli stava seduto accanto, rise in modo sgraziato e poi, scuotendo il capo, gli disse, con tono di scherno: “Hai già sedici anni, sei bello cresciuto, eppure credi ancora che a nostro fratello Venanzio interessi qualcosa di sua moglie.”

“Quando è incinta, sì.” intervenne Giovanni Maria, che, seppur appena ventunenne, sapeva spesso essere il più maturo di tutti.

Giulio Cesare, che faticava a nascondere la sua preferenza per quel figlio – il secondogenito, tra i suoi unici due figli legittimi – gli diede ragione con un cenno del capo e poi si rivolse in generale a tutti e tre i figli presenti: “Dobbiamo aspettare anche lui. Voglio parlarvi accuratamente di quello che potrebbe accadere a breve e non ho intenzione di perdere del tempo a discuterne una seconda volta con chi non c'è.”

Alle parole del sessantottenne nessuno osò più aprire bocca. Il salone in cui si erano riuniti era fresco, ma non freddo. Dato che tutti i presenti, finita la riunione di famiglia, avrebbero dovuto dedicarsi ad attività all'aperto, nessuno aveva realmente fretta di concludere l'incontro. A Camerino il tempo, benché si fosse in marzo, era ancora rigido come in gennaio, ma almeno al palazzo si evitava di congelare.

Quando finalmente Venanzio comparì nel salone, il volto scuro e le labbra strette in un'espressione contrariata, il padre fece finta di non essere per nulla indispettito dall'attesa e diede inizio alla discussione.

Spiegò ai figli la crescente ostilità del papa, li mise a parte delle nuove, anzi, delle rinnovate accuse mosse a lui sia per la congiura della Nozze Rosse in cui erano morti dei loro parenti, sia per la propria condotta morale. Spiegò di come la scomunica pesasse con forza su tutti loro e che, secondo il suo modo di vedere quello altro non era che un primo passo per continuare ciò che il Valentino aveva interrotto ormai quasi due anni addietro a Forlì.

“Noi possiamo contare sull'aiuto di Guidobaldo da Montefeltro.” fece notare Annibale, sporgendo in fuori il mento e allargando le braccia, con fare d'ovvietà: “Ci ha offerto il suo aiuto in modo chiaro e si ritiene nostro alleato.”

“Guidobaldo – lo corresse il padre – è stato accusato dal papa di aver tramato ai suoi danni, cercando di impadronirsi dell'artiglieria pontificia mentre attraversava il territorio di Gubbio.”

“Ed è vero?” domandò Giovanni Maria, che cercava di orientarsi tra le parole degli altri, ma vedeva sempre più lontana una possibile via di salvezza.

“Che sia vero o no, poco importa.” tagliò corto Giulio Cesare: “Quello che conta, ormai, è quello che dice il papa: per i francesi è la sua parola a contare, non i fatti.”

“Ha fatto bene nostra sorella Camilla.” borbottò a quel punto Pirro che, pur essendo il più giovane, non voleva tirarsi indietro dal dire la sua: “Anche se è una suora, ha capito che era tempo d'andarsene già lo scorso anno! Ha fatto bene a ritirarsi dalle Clarisse ad Atri!”

“S'è ritirata dalle Clarisse ad Atri – scherzò Annibale, sempre propenso a dileggiare anche i parenti più prossimi – solo perché ha già quaranta quattro anni e ormai nemmeno pagando riusciva a trovare qualcuno che...”

“Annibale!” la voce imperiosa di Giulio Cesare frenò quella del figlio, che si stava esibendo in un gesto volgare che fece ridacchiare solo Pirro.

“Se ci sarà una guerra a breve – soffiò Venanzio, che era stato zitto fino a quel momento, troppo concentrato sui suoi problemi personali, per badare davvero al discorso del padre – voglio capire se mia moglie sarà da considerare nemica o amica.”

“I Della Rovere sono contrari al Borja.” soppesò Giovanni Maria, chiedendosi il perché di quella constatazione, così, all'improvviso: “Quindi immagino ci possa essere utile, averla nostra amica.”

“Sì.” convenne Annibale: “Sii più gradevole, con lei. Quando ti vede sembra sempre che abbia appena dovuto ingoiare un ratto... Sussurrale qualcosa di bello, ogni tanto e magari lei sussurrerà qualcosa ai suoi parenti a Roma...”

Giulio Cesare smosse la mano per aria, tacitando tutti e frenando anche la risatina puerile di Pirro, che aveva trovato l'ultimo intervento di Annibale anche troppo divertente. Ribadì ai figli quanto fosse importante, in quel frangente, essere uniti e stare attenti. Spiegò minutamente come intendeva impostare una difesa, ma tralasciò di esporre come avrebbe suddiviso tra loro i compiti.

Nessuno, però, aveva voglia di approfondire troppo il discorso, anche perché ciascuno di loro, ognuno per i propri motivi, riteneva che la guerra coi Borja restasse un'ipotesi remota, o, perlomeno, abbastanza lontana nel tempo da permettere loro di rimandare il grosso dei problemi.

Quando Giulio Cesare dichiarò conclusa quella breve riunione di famiglia, l'unico che gli si avvicinò, mentre gli altri già lasciavano il salone, fu Giovanni Maria.

“Padre, potete contare su di me, per quando sarà il momento.” gli sussurrò, aspettandosi che l'uomo gli svelasse quale sarebbe stato il suo compito, nella difesa non tanto dello Stato, quanto della famiglia.

E il Varano non si fece attendere, anche se le sue parole non erano quelle che il figlio si era atteso di sentire: “Appena le cose prenderanno una brutta piega, e intendo, nel momento stesso in cui avremo anche solo il sentore che stiano per prenderla – gli disse, in fretta e con una certa concitazione – tu e tua madre scapperete a Venezia.”

“Ma...” cominciò a dire il ventunenne, sbattendo le palpebre contrariato.

“Ho già organizzato tutto.” lo interruppe Giulio Cesare: “Sei troppo prezioso, per me. Non potrei sopportare di saperti morto anzitempo.”

“E Venanzio?” chiese Giovanni Maria, credendo impossibile che lui, secondogenito, valesse davvero di più del fratello maggiore, agli occhi del padre.

“Venanzio dovrà stare al mio fianco e fare quello che deve.” soffiò l'uomo, abbassando lo sguardo e facendo un profondo respiro, prima di concludere: “Il suo non è un destino facile, ma quanto è vero Iddio, se vuole dimostrarmi di meritare l'amore che gli porto, dovrà stare al suo posto e non farmi vergognare di lui.”

Il giovane annuì appena e poi, colto da un dubbio improvviso, chiese: “Se Venanzio morisse, chi si occuperà di sua moglie e dei suoi figli?”

Il padre fece una smorfia e, posando una mano nodosa sulla spalla forte del figlio, commentò: “Se lui morisse, la nostra famiglia avrebbe una buona scusa per liberarsi di quella donna... Magari potrete farci un po' di soldi, rivendendola ai suoi parenti...”

Perplesso dal tono quasi divertito usato dal signore di Camerino, Giovanni Maria non aggiunse più nulla, chiedendosi se mai sarebbe davvero arrivato il momento di spingersi a tanto, pur di avere i soldi necessari per sopravvivere.

 

“Non capisco perché dovresti mandarlo a Venezia...” disse Fortunati, accigliandosi.

“Una scusa l'avrei.” fece subito la Tigre, voltandogli le spalle e andando verso il camino acceso: “I miei gioielli... Impegnandone qualcuno, potrei trovare qualche soldo in più, e sai che appena Lorenzo mi trascinerà di nuovo in tribunale, i soldi mi serviranno...”

Francesco le guardava la schiena, in silenzio. Appena era entrato in stanza, quella sera, dopo cena, si era aspettato di trovare Caterina pronta ad accoglierlo tra le sue braccia. Dalla prima notte che avevano passato insieme, era sempre andata così. Anche se in pochissimo tempo, quell'assiduità aveva dato al piovano una certa dipendenza dalla Leonessa e le sue giornate, ormai, passavano nell'attesa della notte, e tutti gli altri problemi gli parevano spariti nel nulla.

Perciò, quando quella sera si era presentato e, invece di salutarlo con un bacio, la milanese era rimasta a distanza e aveva cominciato a parlargli, Fortunati era rimasto spiazzato e aveva anche rischiato di innervosirsi, salvo poi capire quanto fosse importante la questione che la donna gli stava sottoponendo.

“Magari vendendo un paio di collane, o impegnando quel bracciale d'oro che mi aveva regalato lo zio di Girolamo io potrei...” stava continuando la Tigre.

“Lo sai benissimo che nessuno, in tutta Venezia, comprerebbe o prenderebbe mai in pegno i tuoi gioielli.” si risvegliò Francesco, imponendosi di smettere di fissare la schiena dritta della Sforza e concentrandosi su quello che stava dicendo: “Ci abbiamo già provato e nessuno, nemmeno un ebreo o un arabo, vorrebbero rischiare di mettersi contro il papa aiutandoti.”

Caterina sapeva che il piovano aveva ragione, ma si arrabbiò lo stesso: “Credi che non sarei in grado di far arrivare a Venezia i miei gioielli e farli vendere senza che l'acquirente scopra che sono miei?!”

L'uomo preferì non aizzarla ulteriormente, e, facendo un mezzo passo verso di lei, chiese: “E come mai questa improvvisa idea di far partire Ottaviano? Solo perché te l'ha suggerito Gian Piero?”

“Non solo per quello...” ammise Caterina, ricordando alcuni discorsi fatti con frate Lauro e alcune cose carpite per caso proprio al figlio: “Anche altri ci hanno consigliato di mandarlo via da Firenze, almeno per un po'... E forse non è una cattiva idea. Tutti lo guardano con sospetto, dal papa alla stessa Signoria... Tutti convinti che valga più di quel che vale... Se lo facessi partire, distoglierei un po' l'attenzione da qui. Tutti si chiederebbero che ci fa a Venezia o a Milano e...”

“Così useresti tuo figlio come uno specchietto per le allodole?” domandò, incredulo, Francesco: “E se così rischiasse di diventare il bersaglio di qualcuno? Se fraintendessero tutto o lo prendessero prigioniero o lo uccidessero, temendo che stia maneggiando per te?”

“Oh, be', non sarebbe una grave perdita...” si lasciò sfuggire la Tigre, sollevando un sopracciglio.

Il fiorentino rimase basito. Conosceva bene i trascorsi tra madre e figlio, e in tante occasioni aveva visto la freddezza di Caterina nei confronti del Riario e viceversa. Tuttavia la naturalezza con cui lei si era abbandonata a quel commento lo atterrì.

“Davvero non te ne importerebbe, se lo uccidessero?” chiese.

La Leonessa lo fissò a lungo. Era una cosa che le era già successa con altri uomini importanti della sua vita: Giacomo, Giovanni, perfino Ottaviano Manfredi e Giovanni da Casale... Era il momento in cui l'uomo che diceva di amarla si rendeva finalmente conto di chi lei fosse realmente e, all'improvviso, provava nei suoi confronti un senso di profonda estraneità e ne aveva paura.

“Dimmi solo se a parer tuo è una buona idea farlo partire. Nient'altro.” fece la donna, muovendosi verso Fortunati e allungando una mano, per prendere la sua.

Questi, malgrado tutto docile verso di lei, accettò quel contatto, ma non disse nulla.

“Credevo che conoscessi buona parte delle mie ombre.” mormorò Caterina, amara: “Questa, forse, più delle altre...”

“Perdonami, io...” l'uomo scosse il capo con forza e poi, senza il minimo preavviso, la tirò a sé e l'abbracciò.

Era una stretta disperata, come se così facendo Francesco volesse ricordare a se stesso la scelta che aveva fatto e ricordarsi, anche, le conseguenze che aveva accettato di affrontare. Sapeva, era vero, che donna fosse, la Leonessa di Romagna. L'aveva voluta, l'aveva desiderata, l'amava, malgrado tutto, e voleva essere all'altezza del compito che si era volontariamente accollato, ossia quello di starle accanto, di essere, per quello che poteva, il suo uomo, in tutto e per tutto.

Sciogliendo lentamente l'abbraccio, il fiorentino respirò a fondo un paio di volte e poi, controllando la voce, fece del suo meglio per concentrarsi sul discorso di partenza e disse: “Escludendo i pericoli che Ottaviano potrebbe correre, credo anche io che farlo partire non sarebbe una cattiva idea.”

“Perché?” indagò la Sforza, troppo abituata, nel corso della sua vita, a sfruttare ciò che chi aveva accanto poteva offrirle, come, in questo caso, un confronto dialettico utile a decidersi.

“Per tanti motivi.” deglutì Fortunati, sentendosi sotto esame: “Per quello che dicevi tu prima, innanzitutto. E poi gli si potrebbe far incontrare tuo cugino Raffaele, e potrebbe cercare una mediazione con il re di Francia, certo, sempre spalleggiato da qualcuno che ne guidi le parole e i comportamenti. E poi perché... Perché credo che i suoi fratelli starebbero meglio, ad averlo lontano per un po'.”

La Tigre trovò quell'ultimo punto molto interessante. Anche secondo lei Ottaviano era un continuo motivo di scontro tra gli altri figli. Bernardino non perdeva occasione di litigarci, Sforzino lo mal sopportava, e il maggiore faceva di tutto per prenderlo in giro per la sua notevole mole e la sua passione per lo studio, mentre Bianca...

La donna si massaggiò un momento la fronte. Pensare che sua figlia fosse incinta – per di più di un uomo che, all'evidenza dei fatti, non dava sue notizie da settimane – la metteva più in ansia di quanto volesse dare a vedere. Temeva il giorno in cui Ottaviano avesse saputo dello stato della sorella, perché, imprevedibile com'era, avrebbe anche potuto fare qualcosa per lederne l'immagine, compromettendola ancora più di quanto non fosse, o, ancor peggio, per farle del male fisicamente.

“Hai ragione.” concluse Caterina, pensando ormai, più che a tutto il resto, a proteggere Bianca dal fratello: “Anzi, se riuscissimo a organizzare tutto in meno di un mese, sarebbe l'ideale.”

Il piovano annuì e poi, facendosi già venire in mente qualche suo amico fidato a cui rivolgersi, almeno per gli aspetti logistici legati al viaggio, propose: “Se vuoi, posso andare già a scrivere qualche lettera e...”

“No, non adesso...” il tono della Leonessa s'era fatto diverso, più morbido.

Fortunati riconobbe il modo in cui lo guardava, un misto di dolcezza e provocazione. Era uno sguardo che gli scioglieva le viscere e lo incendiava, facendolo risorgere dalle fiamme, come una fenice.

“Non voglio restare sola, stanotte...” riprese lei, posandogli una mano sul petto e poi dandogli un rapido bacio: “E poi ho ancora tante cose da insegnarti...”

“Davvero?” chiese lui, stando al gioco, mentre, proprio per smentire in parte la donna, si dimostrava intraprendente, facendo scivolare una mano sulla sua gamba, e poi, risalendo, la infilava sotto la veste.

“Stai diventando bravo, ma non credere che sia così facile accontentare una Tigre.” scherzò la Sforza, sorridendo mentre l'uomo la baciava sul collo, continuando, intanto, a indagarla sotto alle vesti.

Il piovano aveva appena passato le dita sulla grande cicatrice che le copriva in parte la coscia. Il simbolo della sua disfatta a Ravaldino sembrava scottare, ogni volta in cui la toccava. Quella cicatrice, frastagliata, grossa e invadente era, per lui, una sorta di simbolo della milanese. Era il segno tangibile di quello che era stata e di quello che era. Era una donna che aveva combattuto, combattuto veramente, con la spada in mano, che aveva ucciso e che aveva rischiato di essere uccisa. Era sopravvissuta alla prigione dura dei Borja, ne era riemersa e ora stava tornando a essere la donna forte e bellissima che era stata prima che il Valentino incrociasse la sua strada.

Caterina, invece, detestava profondamente quella cicatrice, proprio perché le ricordava tutto quello che le era successo, soprattutto le cose brutte. Perciò, quando l'uomo vi indugiò troppo, gli scansò la scansò la mano, anche se con gentilezza.

Fortunati capì l'antifona e, con rinnovato entusiasmo, si dedicò ad altri punti del suo corpo e, una volta tanto, volle essere lui a gettare lei sul letto. Provò a sollevarla, ma ci riuscì per pochi secondi, lasciandola subito atterrare sul materasso.

La Tigre, che in passato aveva avuto amanti più forzuti del fiorentino, rise, ma senza scherno, era sinceramente divertita dal suo impegno, e l'uomo rise di rimando, sentendosi quasi un ragazzino, spensierato in modo così eccessivo da rasentare l'incoscienza: pensava alla sua amante, quando avrebbe dovuto pensare alla politica, ai pericoli, al rischio di una nuova guerra...

In quel momento, però, non gli importava di essere il più dissennato degli uomini. Mentre si lasciava strappare via gli abiti, tutto quello che gli importava era quel momento, nient'altro.

Hic et nunc.” disse, con il fiato corto, mentre anche la Leonessa si spogliava, offrendosi a lui come una Dea in carne e ossa.

Caterina, riportata indietro nel tempo, a quando era Giovanni a sussurrarle all'orecchio parole latine, tratte dalle poesie che preferivano, strinse ancora di più a sé Francesco, affondando il viso contro il suo collo, respirando a fondo il suo odore, ormai così familiare, così come il contatto caldo con il suo corpo. Era bastato poco, molto meno di quello che credeva, per lasciarsi andare davvero, con lui. Aveva temuto di scoprirsi trattenuta, ancora spaventata dal ricordo del Valentino, invece Fortunati aveva spazzato via tutto. Era come un balsamo fresco, capace di lenire il dolore e farla tornare a respirare.

Hic et nunc...” fece eco lei, la voce che cominciava a incrinarsi, vittima della passione.

Non capiva esattamente perché il piovano avesse citato proprio quel detto latino, ma anche a lei, in quel preciso istante, credeva che fosse la cosa più giusta da dire e da pensare.

Cos'altro possedeva, in fondo, se non quel 'qui e adesso' sussurratole all'orecchio dal fiato caldo di Francesco?

 

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas