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Autore: IndianaJones25    23/01/2022    1 recensioni
Di ritorno da una disavventura in Australia, Indiana Jones scopre che il suo vecchio amico Sallah si è volatilizzato, senza lasciare tracce.
Indy decide allora di partire verso l’Egitto meridionale, dove è in corso una delle più grandi imprese archeologiche del Novecento, per poter rintracciare il suo amico scomparso. Ancora non sa che questo lo condurrà nell’ennesima sfida contro il tempo per sventare un complotto che, se andasse a buon fine, potrebbe portare nelle mani dei sovietici un’antica e pericolosa arma, risalente all’epoca degli dèi e dei faraoni…
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Henry Walton Jones Jr., Nuovo personaggio, Sallah el-Kahir
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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    5 - INCONTRO

    New York City, Stati Uniti d’America

      Nonostante la missione in Australia fosse stato un completo fallimento, il ciclo di conferenze era comunque andato molto bene, addirittura meglio del previsto. Il pubblico si era mostrato interessato, in quei sette giorni di incontri, e le lacune dovute alla mancanza degli ultimi ritrovamenti erano state argutamente riempite da Jones con il racconto dei momenti concitati del crollo e dell’incontro con gli aborigeni.
   Indy, però, era davvero contento che fosse finito, perché non ne poteva davvero più. L’insegnamento gli bastava: dover trascorrere ulteriore tempo a parlare dinnanzi a una platea gli sembrava troppo. Esprimersi in pubblico lo innervosiva, e quando lo faceva era costretto a mettere le mani in tasca per nasconderne il tremito. Preferiva di gran lunga passare il tempo fuori dall’Università in modi differenti da quello. Congedarsi per l’ultima volta da Paul Woods e da Tobias Hoffman, insomma, non gli aveva generato nessun tipo di tristezza.
   Ora, fermo sul marciapiede della Fifth Avenue, con i lembi del trench aperto che svolazzavano mossi dalla brezza primaverile, si stava guardando attorno alla ricerca di un taxi che lo riportasse al suo appartamento. Avrebbe trascorso l’ultima notte a New York e poi avrebbe fatto ritorno a casa sua, a Bedford, dove Marion lo aspettava.
   Un gruppo di ragazzini con i capelli lunghi e gli abiti dai colori sgargianti lo superò, cianciando ad alta voce di chissà quali frivolezze. Avevano fasce tra i capelli e le ragazze indossavano gonne immoralmente corte, che ondeggiavano a ogni passo lasciando intravedere le cosce. Uno di loro imbracciava una chitarra come se fosse stata un fucile. Jones scosse il capo. Ne aveva viste davvero tante, in vita sua, ma mai avrebbe creduto di dover assistere persino alla decadenza dei costumi!
   Individuato un tassista che guidava con prudenza in mezzo al traffico alla ricerca di un possibile passeggero, l’archeologo fece per alzare il braccio per richiamarne l’attenzione, quando si sentì chiamare in una maniera a cui non era molto abituato.
   «Zio Indy!»
   Voltatosi all’indietro, Indy vide venire verso di sé due persone che, a giudicare dall’aspetto, dovevano avere origini arabe. Il ragazzo, di circa trentacinque anni, leggermente sovrappeso, indossava un elegante completo marrone e aveva i baffi nerissimi, proprio come i capelli riccioli; la ragazza al suo fianco, anche lei sulla trentina ma più giovane rispetto a lui, portava con molta classe un tailleur grigio, mentre un velo di colore blu le copriva i capelli. All’archeologo, dopo il primo istante di smarrimento, non ci vollero che un paio di secondi per riconoscerli.
   «Moshti! Yasmin!» esclamò, allargando le braccia. «Ma che sorpresa!»
   I due ragazzi facevano parte della numerosa prole del suo vecchio amico Sallah, che con la moglie Fayah si era dato da fare nel tentativo di duplicare la popolazione del Cairo. Tutto si sarebbe potuto aspettare, meno di incontrare proprio loro, lì a New York.
   «Salve, zio Indy!» esclamò Moshti, afferrandolo e stritolandolo in un abbraccio la cui tecnica distruttiva doveva essergli stata insegnata dal padre. Quando lo lasciò andare, Indy fu certo di avere tre o quattro costole incrinate.
   Yasmin, più raffinata ed educata del fratello, si limitò a sollevarsi sulle punte dei piedi per potergli posare un delicato bacetto sulla guancia.
   «Che piacere rivedervi!» bofonchiò Indy, massaggiandosi il torace indolenzito. «Ma che ci fate qui? Mi stavate cercando?»
   Era più che certo, infatti, che i due ragazzi fossero lì per incontrare lui. Non credeva molto alle coincidenze, e la possibilità di incrociare due persone conosciute che abitavano dall’altra parte del mondo in una città di quasi quattro milioni di abitanti per puro caso gli sembrava la coincidenza più grossa di tutte.
   Un velo di tristezza e di preoccupazione scurì i visi dei due ragazzi.
   «Si tratta di papà» annunciò Moshti, abbassando la voce. «È scomparso.»

 
* * *

   L’appartamento, un tempo, era stato arredato secondo i dettami della moda più recente, con mobili e suppellettili all’ultimo grido. Solo che, da quando era stato ammobiliato, era ormai trascorso quasi un quarto di secolo e, quindi, tutto appariva piuttosto vecchio e sciupato. Oltretutto, lo scarso utilizzo dell’ambiente aveva impregnato ogni cosa di un persistente odore di chiuso e di polvere, che aleggiava nell’aria.
   Indy, in quella piccola casa in un grande palazzo di New York, aveva vissuto un breve ma intenso periodo con Marion, prima di andarsene e lasciargliela intestata. La sua futura moglie aveva continuato ad abitarci per ancora qualche anno, prima di trasferirsi a Chicago, ma non lo aveva mai venduto; così, da quando si erano sposati, poteva capitare che ci trascorressero qualche tempo ogni anno, specialmente se l’archeologo aveva qualche impegno accademico in città.
   In questo momento, a dire il vero, vi regnava un certo disordine. Jones, non più abituato alla vita da scapolo, durante la solitaria permanenza a New York non si era dato molto da fare in casa e aveva trascurato pulizie e altre faccende domestiche. Il lavello della cucina era colmo di piatti sporchi, la tovaglia coperta di briciole non era mai stata tolta dal tavolo, abiti e biancheria erano ammonticchiati alla rinfusa sulle sedie e sul divano. La valigia con gli abiti che aveva riportato dall’Australia sette giorni prima era appoggiata sul pavimento, aperta ma ancora da disfare.
   «Ehm… scusate il caos…» borbottò, precedendo all’interno i due figli di Sallah.
   Dopo aver appeso il cappello e il cappotto all’attaccapanni accanto alla porta, si avvicinò in fretta a un mucchio piuttosto consistente di biancheria e, afferratolo tra le mani, lo trasportò in camera da letto, scaricandolo senza troppe cerimonie sul letto. Tornato in soggiorno, trovò Yasmin e Moshti che si guardavano attorno leggermente spaesati.
   «Come sapevate dove trovarmi?» bofonchiò, sperando così di distrarli dal disordine che aveva provocato.
   Mentre Yasmin continuava a guardarsi attorno con una smorfia di palese raccapriccio, suo fratello si affrettò a rispondere.
   «Siamo stati prima alla tua casa nel Connecticut, ma la zia Marion ci ha detto che eri qui e che, se non ti avessimo trovato in casa, avremmo potuto provare a cercare al Metropolitan» spiegò.
   «Capisco» borbottò Indy.
   «Tu e la zia Marion non vi sarete mica separati, vero?» domandò all’improvviso Yasmin, con tono tagliente, lanciandogli una lunga occhiata.
   «Ma no, ma no, non ci penso nemmeno a separarmi da lei» rispose l’archeologo. Si guardò attorno e fece una risata. «Anche perché, come vedete, senza di lei non durerei sei mesi, prima di soccombere.» Scosse il capo. «No, no, si è trattato soltanto di una faccenda di lavoro, ma ora è finita e sto per tornare da lei.»
   Yasmin fece un lungo sospiro.
   «Gli uomini sono tutti uguali» sentenziò in un tono che non ammetteva recriminazioni. «Se non ci fossero le donne a badare a loro e a rimediare ai loro disastri, il mondo si tramuterebbe in una discarica invivibile.»
   Quindi, prima che Indy e suo fratello avessero potuto dire una sola parola, si sfilò la giacca del tailleur, si rimboccò le maniche della camicia e, entrata in cucina, cominciò a far scorrere l’acqua nel lavello per lavare i piatti.
   «Yasmin, davvero, non c’è bisogno di…» borbottò l’archeologo, a disagio, cercando di dissuaderla. «Stasera avrei provveduto a tutto io…»
   «Lasciala stare, zio Indy» sussurrò Moshti. «Quando si mette in testa qualcosa, è più cocciuta di un mulo.»
   «Guarda che ti ho sentito!» strillò la voce aspra della sorella.
   Il ragazzo si strinse nelle spalle e fece un sorrisetto. Indy gli fece cenno verso il tavolo e lo invitò a sedersi.
   «Allora» disse, sedendosi a sua volta. «Mi dicevate che Sallah è scomparso… ma in che senso? Cos’è accaduto?» Una ruga profonda gli solcò la fronte e un lampo di irrequietezza gli attraversò lo sguardo. «Devo preoccuparmi?»
   Moshti intrecciò le dita delle mani.
   «Ancora non lo so» ammise. «Anche se ci stiamo iniziando a preoccupare pure noi.»
   «Ma che è successo?» domandò allora l’archeologo.
   «Ovviamente, zio, tu sai che papà per un periodo è stato curatore del Museo del Cairo, su incarico prima di re Faruq e poi del presidente Nasser» disse.
   «Certo» rispose Indy, con un sorriso. «Un incarico che si è ampiamente meritato… ma, in che senso, lo è stato per un periodo? Ora non lo è più?» Si grattò il mento, confuso e spaesato da quella notizia inaspettata. «Questo proprio non lo sapevo…»
   «È stato sostituito, ma per un buon motivo e non certo per punizione o per demeriti» spiegò il ragazzo, con orgoglio. «Papà è stato infatti nominato sovrintendente del governo presso il grande cantiere che, sotto la guida dell’UNESCO, si sta occupando dello smontaggio e del trasferimento dei templi di Abu Simbel.»
   L’archeologo fece un cenno di comprensione.
   Era al corrente delle grandi opere in corso in Egitto. Da qualche anno, il governo di Nasser aveva chiesto aiuto all’Unione Sovietica per la costruzione di una diga sul Nilo, nei pressi di Assuan, in maniera da poter inondare una parte di deserto e aumentare la superficie coltivabile. La nuova costruzione, però, stava facendo sollevare le acque del fiume, che adesso minacciavano di sommergere per sempre i grandiosi templi rupestri fatti erigere da Ramses II a seguito della battaglia di Qadesh.
   I sovietici si erano dimostrati del tutto disinteressati alla faccenda, asserendo che la perdita dei monumenti sarebbe stato un nonnulla, in confronto alla grandiosità delle opere innalzate per il popolo. Nasser, in un primo momento, aveva dato loro ragione; poi, però, colpito dalle numerose voci di protesta che si erano innalzate da ogni parte e spaventato dall’idea di vedere scomparire una grande parte del patrimonio storico e culturale dell’Egitto – e, insieme a esso, anche una buona fetta di quei turisti su cui l’Egitto basava una parte consistente della propria economia – si era rivolto all’ONU perché intervenisse.
   La grande coalizione internazionale aveva proposto numerosi progetti, alcuni ben fatti, altri decisamente fantasiosi – Indy, per puro interesse, ne aveva visionati alcuni, e non aveva potuto fare a meno di mettersi a ridere quando aveva letto la proposta di lasciare che i templi venissero sommersi, per poi essere resi visitabili grazie a speciali tunnel subacquei. Alla fine, aveva prevalso la proposta di un gruppo di ingegneri svedesi di tagliare in numerosi blocchi i templi, trasportarli una sessantina di metri più in alto e rimontarli fuori dalla portata delle acque, per poi essere rivestiti da un sottile strato di vetroresina che li avrebbe preservati dall’erosione a cui andavano soggetti. Da quel che aveva letto sui giornali, i lavori erano iniziati già da qualche mese, e la faccenda si stava trasformando in una vera e propria corsa contro il tempo, dato che l’acqua continuava a innalzarsi.
   «Solo che…» proseguì Moshti, a disagio, «…da qualche tempo non si hanno più sue notizie. Ci ha spedito una lettera, in cui ci chiedeva di contattare te, zio Indy, e da quel giorno non si sa che fine abbia fatto. Al cantiere sono disorientati quanto noi…»
   «Contattare me?» ripeté l’archeologo, confuso.
   Il figlio di Sallah annuì e, infilata una mano nella tasca della giacca, ne estrasse la breve missiva che gli era stata recapitata. La porse a Jones che la prese e la lesse. Vide che portava il timbro di nove giorni prima. Sallah l’aveva spedita mentre lui era ancora in Australia.
   «Dice che c’è urgente bisogno di me e che voi sapete come fare per contattarlo…» riassunse, pensieroso.
   «Infatti» rispose il ragazzo, annuendo. «Il problema è che, invece, non abbiamo la più pallida idea di come fare a contattarlo. Abbiamo provato a chiamarlo al cantiere, per chiedergli una spiegazione, ma il suo assistente è ancora più spaesato di noi e non sa che fine abbia fatto. Dice che è andato ad Assuan per delle incombenze amministrative e, da quel giorno, nessuno lo ha più visto. Solo che, considerato tutto quello che c’è da fare al cantiere, nessuno ha avuto modo di approfondire troppo i motivi della sua inattesa assenza.»
   «Vi siete rivolti alla polizia?» domandò Indy.
   «Certamente» replicò acidamente Yasmin, tornando in salotto mentre si asciugava le mani con uno strofinaccio. «Ma quelli, figurarsi, non hanno saputo cavare un ragno dal buco. Certo, se la polizia fosse guidata da donne sarebbe un altro discorso, ma quelli sono tutti maschilisti.» Senza aggiungere altro, cominciò a raccogliere gli abiti sparpagliati in giro e a riordinarli in una pila composta.
   «Chi avrebbe mai detto che il buon vecchio Sallah avrebbe messo al mondo una femminista militante» ridacchiò l’archeologo, guadagnandone in cambio un’occhiataccia da parte della ragazza.
   «I poliziotti dicono che, probabilmente, papà è soltanto andato in ferie e si è dimenticato di dircelo» borbottò Moshti, con tono amaro. «È chiaro che non vogliono cercarlo. Noi, comunque, non gli abbiamo parlato della lettera in cui chiedeva di te, perché abbiamo intuito subito che qualcosa non andasse per il verso giusto. Non sapendo che altro fare, abbiamo deciso di dare retta a papà e rivolgerci a te, zio Indy.»
   L’archeologo si girò a guardare dalla finestra, osservando senza realmente vederli i grattacieli circostanti e riflettendo in fretta. In lontananza, il cielo era solcato dalla scia di condensazione di un aereo.
   Dalla breve lettera e dall’urgenza con cui Sallah si rivolgeva ai figli chiedendogli di chiamare lui, poteva comprendere che doveva esserci sotto qualcosa di importante. La presenza dei russi in quella regione, inoltre, lo preoccupava. Temeva che il suo vecchio amico si fosse cacciato in un qualche brutto guaio, anche se, per il momento, era impossibile sapere di che cosa si trattasse realmente. Il fatto stesso che la polizia si rifiutasse di provvedere a indagare, comunque, sembrava indicare che ci fossero in qualche maniera implicati i sovietici, di cui l’Egitto di Nasser si era proclamato grande amico.
   Di qualsiasi cosa si fosse trattato, però, lui non si sarebbe tirato indietro: non lo avrebbe abbandonato. Sallah era venuto in suo aiuto innumerevoli volte. Adesso era il momento di rendergli il favore.
   «Be’, allora che aspettiamo?» borbottò, alzandosi in piedi e avvicinandosi alla valigia che non aveva ancora disfatto. La chiuse con uno scatto. «Approfittando del fatto che il bagaglio sia già pronto, direi che non c’è bisogno di perdere altro tempo. Lasciatemi giusto il tempo di fare una telefonata a casa…»
   Ripensandoci, intuì che se avesse parlato direttamente con Marion lei si sarebbe infuriata, sapendo che partiva di nuovo, anziché fare rientro a casa. Non era proprio il caso di affrontare le ire funeste della signora Jones.
   «Anzi, no, meglio mandare un biglietto.» Ci rifletté ancora un istante, trovando una soluzione ancora più geniale, che gli avrebbe permesso di sottrarsi del tutto alle grinfie di Marion. «Ma no, mi sa che spedirò una cartolina direttamente da Abu Simbel.»
   Sorrise in maniera incoraggiante ai due figli di Sallah.
   «Partiamo per l’Egitto e andiamo a cercare vostro padre.»


 
   
 
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