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Autore: Gaia Bessie    23/01/2022    3 recensioni
Ti sei dimenticata le tue vans preferite, le ha detto (e lei l’ha sentito sorridere), quelle rosse.
Lei ha pensato di richiamarlo, solo per un momento, e dirgli che non le ha dimenticate – le ha lasciate a casa sua, come un feticcio inutile, un Horcrux, un pezzo della sua anima lasciato a marcire nell’armadio di Suga.
Lui non l’ha capito – che lasciargli quelle scarpe era l’unico modo per dargli un frammento di sé che non appartenesse al cuore.
[Suga/Shimizu | OS]
Partecipa all'iniziativa "To be Writing Challenge" indetta da BellaLuna sul forum "Ferisce più la penna".
Questa storia partecipa agli "Oscar della penna 2022" nella categoria "Miglior Colonna Sonora" indetti sul forum Ferisce più la penna.
Genere: Angst, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kiyoko Shimizu, Koushi Sugawara
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Il titolo della storia è ripreso dall'omonimo romanzo di Elena Ferrante, ma la trama non ha a che fare con esso in alcun modo, quindi storia spoiler-free.
 
L’amore molesto
 
Vive dentro due Vans, nella maglia dei Guns
Vuole fare l'attrice, ma mamma no
Scaccia tutte le avances, primo anno di DAMS
Passa ore a copiare Marilyn Monroe
 
Vans nere ai piedi e zaino in spalla, Kiyoko prende e si trasferisce in Italia: non serve a niente farle notare che sia una pessima idea, perché lei raccoglie in due valigie i suoi vestiti e qualche libro e sparisce su un aereo.
Un mese dopo, si è già ambientata, imparando a pronunciare le sue prime parole di italiano: Bologna è tutto un portico, quando vaga sotto la pioggia di ottobre ripassando mentalmente quel poco che è riuscita a cogliere della lezione di quella mattinata, le vans con la punta bagnata e i calzini a righe che fuoriescono dai pantaloni – un tocco di colore. Kiyoko non è mai stata la ragazza dei vestiti multicolore, un abito da cocktail o cose del genere.
I calzini colorati, con frutta o animaletti o fantasie di dubbio gusto, però le danno quel senso di disuniformità che tanto ritrova nella sua vita: che è il motivo per cui ha salutato i suoi amici, dando un bacio sulla guancia a ognuno di loro, per poi perdere i contatti. Non pensa mai a loro, cerca di non farlo – ma, qualche volta, quando nel dormiveglia perde il controllo dei propri sogni a occhi chiusi, Kiyoko ci pensa.
E si domanda se Asahi avrà infine trovato il coraggio di uscire a Nishinoya, se Daichi abbia davvero intrapreso la strada del poliziotto. Se Suga avrà trovato la sua felicità in un sorriso che non sia quello che si rivolge allo specchio, se.
Ma poi Kiyoko spalanca gli occhi e si dice che tagliare i ponti vuol dire segarli, amputarli e lasciarli a sanguinare sopra i pensieri, oscurandoli. E allora non pensa più, costringendosi a ripetere la lezione di storia del cinema.
Quando ha detto a sua madre che avrebbe voluto far l’attrice, la signora Shimizu si è messa a ridere sonoramente, sguaiatamente: le ha preso il volto tra le mani – hai davvero un visino da cinema, figlia mia, ma il lavoro deve nobilitare l’uomo: non ci vedo niente di nobile, nel prostituirsi davanti a una telecamera. Le ha detto, scandendo le parole come se Kiyoko non fosse in grado di comprenderle, che per lei aveva sacrificato la sua vita e, allora, doveva viverla lei: fare l’università, magari all’estero, conseguire una laurea, trovare un lavoro ben pagato.
Kiyoko ha sospirato e detto che si sarebbe iscritta a storia dell’arte, che l’università di Bologna offriva ottimi corsi e stava in Italia, relativamente vicina a Firenze e Roma: sua madre, da sempre pittrice mai realizzatasi, aveva sorriso e le aveva schioccato un rumorosissimo bacio sulla guancia. Ecco, le aveva sussurrato, vedi che ci riesci anche tu, ad avere dei sogni, delle ambizioni!
Kiyoko aveva incassato e preparato i bagagli – non le aveva mai detto che, invece della facoltà di Beni culturali, si era immatricolata al DAMS per studiare cinema e, senza sapere altro che poche parole di italiano (e nemmeno pronunciate correttamente), aveva preso armi e bagagli ed era scappata.
Nello specchio, Kiyoko si trucca ogni mattina, senza nemmeno vedersi – ma alla sera, quando deve ripetere le lezioni del giorno appena trascorso, con le parole in italiano tradotte in inglese, inizia il vero gioco. Perché, alla fine di una frase, perde il punto: nello specchio, il suo riflesso si distorce e lei diventa Marilyn, Audrey Hepburn, Sofia Loren e tutte quelle dive che ha visto solamente in foto impolverate e vecchi film di decenni che furono.
Gioca a fare la diva – non sorride mai: se lo facesse, si spezzerebbe l’incantesimo e non le rimarrebbe niente (niente) nemmeno per poter sognare. Così, quando alla sera deve andare a letto, ha ancora la lezione del giorno stampata nella memoria e il neo sopra il labbro che ricorda la Monroe, ma il rossetto rosso non ha mai avuto il coraggio di comprarlo.
Una volta a settimana, deve videochiamare sua madre, tenendo conto del fuso orario – è quella, alla fine di tutto, la vera recita: quando Kiyoko deve dirle che va tutto bene, le lezioni sono interessanti e pianifica di andare a Roma prima o poi, cercando di essere convincente e con la sua coinquilina che ascolta i Måneskin a tutto volume, il che le facilita involontariamente le cose (anche se sua madre pensa che Arianna sia dedita al satanismo).
A lezione, qualcuno prova ad approcciarla in un inglese fortemente italianizzato, facendola sorridere piena di malinconia – respinge ogni invito a prendere un caffè o a bere qualcosa, che sia o meno con un secondo fine, senza mai fornire una spiegazione: in giro iniziano a dire che sia fredda come un blocco di ghiaccio secco o che non capisca nemmeno l’inglese e Shimizu non si fa mai niente per confermare o smentire quelle voci.
È come si sente – congelata e incapace di comprendere qualunque lingua – quando accende il telefono, la mattina, e si trova almeno una o due chiamate perse e un messaggio in segreteria: non ha mai avuto abbastanza coraggio per bloccare il numero e, così, mentre allunga il caffè con l’acqua (Ariana, che beve un caffelatte con zucchero di canna, rabbrividisce), Kiyoko cancella anche l’ultima traccia che lui ha insistito per lasciare nella sua vita.
Amputato e sanguinante, perfino il cuore. Aveva pensato che non gliel’avrebbe perdonato mai, l’essere andata via senza una parola o una spiegazione.
Ma, ed è stata l’unica volta in cui ha fatto l’errore di ascoltare i messaggi che le lascia in segreteria, quando la chiama Suga piange sempre – non le chiede di tornare, non la supplica di riamarlo: soffoca parola incomprensibili, dice che sente la sua mancanza e, alla fine, una risata gli cola tra i denti come una parvenza di ricordo.
Ti sei dimenticata le tue vans preferite, le ha detto (e lei l’ha sentito sorridere), quelle rosse.
Lei ha pensato di richiamarlo, solo per un momento, e dirgli che non le ha dimenticate – le ha lasciate a casa sua, come un feticcio inutile, un Horcrux, un pezzo della sua anima lasciato a marcire nell’armadio di Suga.
Lui non l’ha capito – che lasciargli quelle scarpe era l’unico modo per dargli un frammento di sé che non appartenesse al cuore.
 
***

E le poesie d'amore che le han dedicato
Le conserva dentro allo spam
 
Studia tutto il giorno in sala da pranzo, di fronte ad Arianna che sbuffa di fronte al libro di giapponese moderno e, qualche volta, le chiede un aiutino – Kiyoko, però, è troppo orgogliosa per domandare a lei di far lo stesso: si arrangia con Google e, qualche volta, semplicemente interpreta usando il contesto come un puzzle senza qualche tassello.
Studia senza connessione internet – l’appartamento è dotato di wi-fi, però non s’azzarda a connettere il computer: sa che inizierebbero ad arrivarle mail su mail, tutte dal medesimo indirizzo e-mail, che sa essere di Sugawara (anche se lui continua a non firmare nessuno dei suoi scritti), quella che usa per lavorare. Suga si è iscritto all’università ma, praticamente immediatamente, gli hanno offerto di fare un tirocinio in un famoso quotidiano di Tokyo – ha accettato, o così immagina dato che ha dovuto rimpiazzare la mail del liceo con una che contenesse nome e cognome al posto di “yourbestsetter” e ha anche inserito il dominio contenente il nome del giornale.
Non sa più niente, di lui, se non questi piccoli indizi che Suga ha sparso sulla sua vita come se sapesse che, in fondo, tra le costole e l’intestino, a Kiyoko importa ancora. Che c’è ancora posto in lei per quell’amore molesto, che non sa come cancellare.
Si è innamorata di lui di malavoglia, senza esserne convinta – quando gliel’ha detto, ha ribaltato il suo mondo e, l’ha compreso in quel momento, non c’era modo per Suga di uscirne tutto intero: l’ha masticato, rivoltato e ne ha disegnato i contorni a suo piacimento. E, adesso che lui è tutto sbavato e con colori che non si abbinano tra di loro, Kiyoko vorrebbe che s’arrendesse e si trovasse una ragazza abbastanza brava per mettere insieme i cocci.
Lei l’ha rotto – non lo sa riparare. E così, puntuale come un orologio, Sugawara le manda una mail al giorno, solitamente a mezzogiorno, contenente un haiku sempre diverso.
Lei i primi li ha letti ma, quando in quelle parole ha colto la mano ingenua di Suga, ha dovuto smettere – faceva troppo male.
Sua madre, il sogno di Suga, l’aveva sempre giudicato degno: diventare uno scrittore, comporre poesie senza strafarsi di erba o bere assenzio, un poeta ben poco maledetto. Sì. Ma lei, Kiyoko, aveva cominciato a crederci solamente quando aveva letto le parole dell’ex alzatore dal Karasuno (una ferita, inchiostro su carta) sulla pagina bianca del pc.
Aveva dovuto smettere ma, quando archiviava il messaggio, non poteva mai fare a meno di leggere l’oggetto della mail – e, ogni volta, rimaneva senza parole: Suga aveva inviato una cinquantina di mail, nell’arco di un mese e mezzo. Tutte con lo stesso, identico oggetto, numerato con il giorno corrente.
L’amore molesto, aveva chiamato quel fiume di haiku, e d’altronde come altro avrebbe potuto definire la loro relazione?
Era stato molesto fin dal principio, quando Kiyoko aveva dovuto lottare contro ogni remora di Suga, che sembrava tenere all’amicizia più che ai suoi sentimenti. Poi era venuto il pianto isterico di Tanaka, il silenzio perplesso di Nishinoya e l’imbarazzo generale.
Si erano abituati tutti quanti – lei mai. Lei, più di Suga, aveva dovuto fare i conti con la sua stessa interiorità: amarlo, scegliere di poterlo amare, era stato come scoppiare un punto nero. Doloroso, a tratti inutile e le aveva lasciato una cicatrice (minuscola) al centro esatto della faccia.
Ma, per quanto potesse essere uno sfregio infinitesimale, ogni volta che Kiyoko si guardava allo specchio vedeva solamente quello e nient’altro – il nome di Suga tratteggiato dall’impronta delle sue unghie sulla pelle.
«Dovresti rispondergli, sai?» borbotta Arianna, nel suo giapponese stentato. «Alla fine, ci perderà un sacco di tempo per scriverti un haiku al giorno».
Kiyoko lo sa.
E non le dice che lotta con sé stessa ogni giorno, ogni ora e ogni fottutissimo istante per non rispondergli con parole che, comunque, non troverebbe: così si limita a sposare tutte quelle mail, insieme al loro amore molesto, dentro la cartella dello spam (le salva solamente quando dovrebbero cancellarsi, in una chiavetta usb adibita allo scopo e vorrebbe tanto essere capace di smettere, ma non sa come).
«Non devo» sbiascica, impegnandosi a mostrare alla coinquilina i passi avanti con la lingua. «Si usa così, il periodo ipotetico?» aggiunge poi, in giapponese.
«Dovrei» la corregge Arianna. «Se dici “non devo” è come se ti stessi dando un ordine da sola».
E Kiyoko pensa che, effettivamente, è esattamente quel che succede quando ripensa alla propria relazione con Suga: si deve dare ordini continuamente, non fare quello o quest’altro, perché ogni movimento può riaprire la ferita – e lei sa, e lo teme, quanto amore ne può fuoriuscire.
Arianna sorride, sbirciando lo schermo del pc di Kiyoko.
«Sarebbe il ragazzo che tieni come sfondo?» domanda, curiosa. «Quello con i capelli chiari?».
Kiyoko annuisce – una foto vecchia, Suga dopo una partita, con il sorriso sulle labbra (malinconico) anche se non aveva giocato: aveva lasciato molte cose indietro, per lei e per aiutare gli altri. Chissà se, forse riguardando quelle vans rosse lasciate sul fondo del suo armadio, se n’era mai reso conto.
«Cos’ha fatto di così grave, per meritarsi questo trattamento?» chiede la sua coinquilina, alzando le sopracciglia castane. «Insomma, lo stai ignorando da quando sei arrivata qui: ti ha tradita, trattata male?».
La fa sorridere – perché, se Suga l’avesse tradita o trattata male le avrebbe comunque fatto meno male di quanto non l’avesse ferita nel profondo quel suo amore incondizionato, senza freni, che le aveva perdonato ad occhi chiusi perfino una fuga fatta di nascosto, come una ladra.
«No, al contrario» risponde Kiyoko, con sincerità. «Sono io che ho ferito lui».
 
***
 
Ha preso una stanza con una di Monza
Sembrava un'amica ma era una stronza
E tra un anno se tutto va bene
Finisce il contratto e poi se ne va
 
Arianna le ha fatto sapere che, al termine dell’anno accademico, le scadrà il contratto d’affitto e non è intenzionata a rinnovarlo: la coinquilina di Kiyoko sogna una vita più semplice di così, l’Erasmus in Giappone, un trenta e lode all’esame di Cinese. Così, Arianna le dice che prende e se ne va: Kiyoko ci vede così tanto di sé, in quella comunicazione, che non glielo sa spiegare – è tentata di domandarle se lascerà un paio di scarpe nell’armadio di Lorenzo, il suo ragazzo, ma poi inghiotte quelle parole e cerca di forzarsi a un sorriso.
È Arianna, quella a strapparsi uno sbuffo divertito dalle labbra – e si trasforma in risata vera e propria, quando il campanello suona allegramente nel piccolo appartamento.
«Vai a rispondere» commenta, con un sorrisetto. «Qualcuno ha voluto farti una sorpresa».
Kiyoko si sporge contro la porta, cercando di intravedere qualcuno nello spioncino – quando incontra gli occhi di Suga, sobbalza.
«Mi ha contattata su Facebook» trilla Arianna, con aria soddisfatta. «Un così bel ragazzo! E mi ha chiesto se potevo dirgli come rintracciarti, una volta arrivato in Italia».
Lei deve chiudere gli occhi, respirando profondamente – non le domanda come abbia fatto Suga a rintracciarla: Kiyoko tiene la propria pagina Facebook aperta per sport, con pochissimi amici e, l’unica italiana, Arianna La Torre. Adesso, lo rimpiange.
Lo rimpiange e vorrebbe che potesse cancellare dalla memoria del mondo quel suo errore grossolano e tutte le speranze che Sugawara deve averci riposto.
«Io torno a Monza da Lorenzo, questo weekend» commenta Arianna, inforcando lo zaino pieno fino a scoppiare. «Divertitevi!».
Spalanca la porta – simultaneamente, Kiyoko si costringe a immobilizzarsi, quando il suo primo istinto sarebbe voltare le spalle e rinchiudersi in camera. Sono passati due mesi.
Quando lei ha detto addio alla parte di sé stessa che aveva disprezzato di più (quella con la molestissima abitudine d’amare lui) e Suga s’è trovato a doversi ricomporre in frammenti minuscoli, taglientissimi: Kiyoko non ha mai avuto la delicatezza, d’altronde quando mai s’è considerata delicata, di domandargli come si sentisse. E, adesso che lui la guarda come per chiederle il conto di tutte quelle mail cui lei non ha mai risposto, Suga è pallidissimo.
Lei vorrebbe chiedergli come stai, ma mentre oscilla sulle vans nere e bianche, Sugawara ride – è un suono avvelenato, maledetto, che gli storce la faccia come una maledizione (silenziosa).
«Ciao».
Lo fa ridere – ci avrei scommesso, che non avresti avuto altro da dirmi: è quel che lui sussurra, lanciandole uno sguardo indecifrabile.
Suga non si aspettava una degna accoglienza, che lei gli saltasse al collo e piangesse tutte le sue lacrime: ma, quando la guarda e si vede riflesso nelle sue pupille, forse è un po’ deluso. Perché lei è ancora fredda come una lastra di ghiaccio e lui, che aveva trascorso mese dopo mese a riscaldarla respirandole sulla pelle, adesso sente il peso di quel distacco. Perché lo comprende.
Comprende che spinta, che insoddisfazione, abbia portato Kiyoko a raccogliere quel che rimaneva dei propri sentimenti per fuggire il più lontano possibile – è la stessa che gli urla, piangendo sul padiglione auricolare, di voltarle le spalle e andar via il prima possibile.
«Ciao» le risponde, a disagio. «Scusami se sono piombato qui senza dirti niente, ma… non riuscivo a contattarti in nessun modo e non potevo rassegnarmi all’idea che, semplicemente, mi stessi evitando».
«Vieni, ti offro una tazza di tè e…».
«Asahi e Noya escono insieme» butta fuori Suga, come se avesse la percezione che, se lei riuscisse a rintanarsi dentro casa, la perderebbe per sempre. «E hanno fatto una fatica boia ad accettarlo, entrambi. E Daichi è entrato all’accademia di polizia e, pensa, qualche settimana fa ha beccato una banda di ragazzini della Karasuno a fumare di nascosto dietro la scuola: avresti dovuto vederlo, era…».
«Suga» lo richiama lei, calma. «Non devi…».
«E Hinata?» continua lui, aggrappandosi a quel tentativo come se fosse in grado di permettergli di tenerla con sé. «Non hai sentito nemmeno lui, non è vero?».
«Hai intenzione di dirmelo sulla soglia o possiamo anche sederci?».
Lui arrossisce, si gratta la nuca con aria imbarazzata – lo terrorizza, l’idea di doverle dire che teme che, se le darà la possibilità di spezzare quel momento, non si ritroveranno mai. E dovrà rimanere in Giappone tutta la vita e magari sposerà una di quelle compagne di classe di cui a stento ricorda il volto, all’università, e poi avrà una famiglia, dei figli e ancora non avrà imparato a dimenticare: perché continuerà a cercarla nei sorrisi sbagliati di sua moglie, nelle prime parole dei suoi figli (mamma, mamma) e, infine, dovrà arrendersi al fatto che non la troverà mai.
E farà un male cane.
«Tu non saresti mai tornata, nemmeno per le feste. Se non fossi venuto io qui non ci saremmo mai rivisti, non è vero?».
«Certo che no» sussurra Kiyoko, chinando il capo. «Non sarei mai tornata indietro: io non… che prospettive avrei avuto, in Giappone?».
Suga ride – casa, amore, una famiglia insieme: ma, quando se l’immagina far le pose delle attrici davanti allo specchio, si rende conto che a lei non basterà mai niente di tutto questo, non le è bastato mai.
«Hai sempre dato un certo valore, ai tuoi sogni» sussurra, rassegnato. «Ma a quelli degli altri, che valore riesci a dare?».
Kiyoko non sa rispondergli – perché, guardando il viso di Suga sporco di lacrime, si rende conto di star piangendo anche lei.
Sa cosa si prova nel vedersi privati del proprio sogno e, per questo, aveva fatto da manager alla squadra di pallavolo del liceo: ma dopo, quando aveva smesso di bastare, che freno avrebbero potuto costituire i sogni degli altri?
«Non piangere» sussurra Suga, infrangendo quella barriera invisibile per sfiorarle il viso. «Hai preso quel che pensi di meritare».
Ma io, vorrebbe domandarle in un sussurro, di me cosa ti è rimasto?
Da qualche parte, risponderebbe Kiyoko scalciando la polvere con la punta delle vans, forse un brandello di ricordo.
 
***
 
Voglio quello che tu non mi mostri
I tuoi demoni e tutti i tuoi mostri
Ciò che pensi quando resti muta
Tutti i dubbi su cui sei seduta
 
Non sei una che parla tanto, non è vero?
Questo si sono detti, la prima volta (al primo giorno di scuola) in cui si sono parlati: Suga ride un sacco, anche quando le lacrime sfondano gli argini – non l’ha mai visto piangere per davvero, prima di oggi: non ha pianto nemmeno quando le ha confessato che temeva Kageyama non per le sue abilità come alzatore, ma perché sapeva imprimersi meglio di lui nella mente delle persone.
Kiyoko non l’ha capito subito – che Suga, alla fine della fiera, aveva solamente paura d’esser divenuto dimenticabile: e, quand’ha capito che lei non dimentica mai nulla, alla fine s’è dovuto innamorare. E, quando lei s’era resa conto di ricambiarlo, ne era rimasta sorpresa.
Voglio vedere come sei fatta dentro, le aveva spiegato il ragazzo gesticolando animatamente, le parti che non mostri a tutti gli altri.
Ancora una volta, Kiyoko non era stata certa d’aver compreso – è il lato di Suga che più la irrita, il fatto che spesso non sappia come fare a decifrarlo: perché lui inghiotte i sentimenti e li maschera in un sorriso, non è mai chiaro o netto, definito, ma sempre un’accozzaglia di sfumature in gradienti contrastanti.
Così, lei glielo dice: chiaro e tondo, una mezza frase che, lo sa bene, lo ferirà ben più profondamente di quanto non abbia mai fatto con la propria fuga.
«A volte non capisco perché dici di amarmi».
«Perché so cosa nascondi» è la risposta. «Quello a cui pensi quando ti ammutolisci, tutti i dubbi che ti assillano appena ti siedi e so chi sei. Io ti conosco, più di quanto non abbia mai conosciuto nessun altro».
«Pensi che basti?» domanda lei, atona.
Vorrebbe tanto che fosse abbastanza ma, senza riuscire a guardarlo in viso, conosce già la risposta: non può bastare.
«Certo che no» sussurra Suga, passandosi una mano tra i capelli. «Ma vorrei che potessi fartelo bastare».
«A te basta?».
«A me è bastato da quando mi hai concesso di conoscerti».
Lei non si sa spiegare – apre la bocca, la richiude: non gli sa dire che, la parte di sé che meno capisce è quella che lui dice di amare, quella così crepata e odiosamente silenziosa (non sei una che parla molto, non è vero?).
Vorrebbe davvero potergli dire qualcosa.
Ma Suga sorride nel suo silenzio, disorientandola.
«Non importa, davvero» le sussurra, con un sorriso pieno di rimpianti. «Non mi aspettavo nessun finale da favola, solo… che mi permettessi di continuare a scoprirti».
Lei nemmeno s’è resa conto d’avergli preso la mano, con poche parole in bocca – puoi.
È seduta su dei cocci di vetro: quand’è che c’è caduta sopra, su tutti i suoi dubbi, solamente per comprendere di dover tornare indietro, verso quell’amore molesto che le rimbomba nel cuore.
Suga sorride ancora una volta, disorientandola.
 
 
Voglio quello che tu non mi mostri
I tuoi demoni e tutti i tuoi mostri
Ciò che pensi quando resti nuda
Tutti i dubbi su cui sei caduta
(Pinguini Tattici Nucleari, Scooby Doo)

 
Che dire?
Mentre mi mangio le mani per l'ansia, eccomi qui a tornare in questo fandom con una coppia di cui leggo io, me stessa ed io lol
Spero che quest'idea sia piaciuta a qualcuno, perché io sono ancora molto perplessa in merito.
Grazie per avermi letta,
Gaia
   
 
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