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Autore: IndianaJones25    24/01/2022    1 recensioni
Di ritorno da una disavventura in Australia, Indiana Jones scopre che il suo vecchio amico Sallah si è volatilizzato, senza lasciare tracce.
Indy decide allora di partire verso l’Egitto meridionale, dove è in corso una delle più grandi imprese archeologiche del Novecento, per poter rintracciare il suo amico scomparso. Ancora non sa che questo lo condurrà nell’ennesima sfida contro il tempo per sventare un complotto che, se andasse a buon fine, potrebbe portare nelle mani dei sovietici un’antica e pericolosa arma, risalente all’epoca degli dèi e dei faraoni…
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Henry Walton Jones Jr., Nuovo personaggio, Sallah el-Kahir
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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    6 - IL GRANDE CANTIERE

    Abu Simbel, Egitto

   Tutta la zona brulicava di operai intenti a smuovere pietre e a movimentare terra; nell’aria, satura dell’odore del gasolio dei tubi di scappamento, risuonavano i rumori dei bulldozer e dei camion in movimento, che si allontanavano carichi di detriti. Le gru ruotavano incessantemente con un forte ronzio, trasferendo materiale da una parte all’altra. Voci si chiamavano dappertutto, martelli picchiavano, seghe entravano in funzione. Dove un tempo si erano svolte lente processioni di sacerdoti, si affaccendavano adesso in fretta muratori e tagliatori di marmo, dove si erano posate le barche sacre che celavano la statua di un dio si innalzavano baracche prefabbricate al cui interno gli ingegneri fumavano aspre sigarette studiando carte e discutendo concitati con gli archeologi.
   L’austera e sacrale pace che, per lunghi e inossidabili millenni, aveva vegliato i colossi di Ramses II, era scomparsa. Adesso, sotto le antiche volte del tempio e sulle impalcature che rivestivano le colossali statue, si udivano passi e voci di molti uomini indaffarati al lavoro. Se non fosse stato per l’anacronistico fetore del diesel e per gli stranieri rumori dei mezzi mossi dall’elettricità, si sarebbe quasi potuto credere di aver compiuto un viaggio all’indietro nel tempo, tornando all’epoca in cui il grande faraone aveva ordinato di scolpire le montagne della Nubia per eternare la sua gloria e la sua vittoria contro il nemico.
   Indy, le mani infilate in tasca e il volto ombreggiato dalla tesa del cappello, osservava il viavai di mezzi e di operai, ripensando con nostalgia a quanto fosse stata diversa Abu Simbel, quando lui l’aveva conosciuta per la prima volta, in un tempo che, a giudicare da ciò che vedeva attorno a sé, sembrava ancora più lontano di quanto realmente fosse. La sua visita era coincisa con il suo primo viaggio in Egitto, nel 1908.
   All’epoca, il grande tempio era tornato alla luce da meno di un secolo, da quando, cioè, Burckhardt lo aveva riscoperto, nel 1813, e da quando Belzoni, eliminando una parte della sabbia in cui era quasi completamente sommerso, vi era penetrato per la prima volta, nel 1817.
   Nel momento stesso in cui i suoi occhi di bambino si erano posati su quei visi ieratici eppure sereni scolpiti nella roccia, con le gambe di una delle statue che ancora affondavano nella sabbia, il piccolo Indy si era sentito invadere da un’energia misteriosa e antichissima, che lo aveva afferrato allo stomaco e non lo aveva mai più abbandonato.
   Quel luogo, nei ricordi della sua infanzia, era ancora immerso nel silenzio quasi totale, se non fosse stato per i richiami di un falco che volteggiava alto nel cielo tinto di un blu che non aveva paragoni nel mondo intero. Non era difficile comprendere perché quel tempio dalla facciata meravigliosa, un incanto a occhi aperti, si trovasse lì e non altrove. Chiunque, risalendo il Nilo dal meridione, provenendo dal cuore selvaggio dell’Africa più nera, avrebbe visto quei colossi emergere dalla roccia alle porte dell’Egitto, comprendendo così di stare penetrando in una terra cara agli dèi e da essi stessi governata. Chi altro, se non un dio, avrebbe infatti potuto essere così imponente e forte da trasformarsi in un monumentale essere fatto di pietra?
   «Ramses II fu uno dei più importanti faraoni della storia dell’Egitto antico» aveva detto suo padre, fermo accanto a lui, sussurrando come se non osasse turbare la sacralità di quel luogo. «Non a caso, noi lo ricordiamo come Ramses il Grande. La sua gloria ha valicato i secoli e i millenni e ancora oggi non possiamo fare altro che inchinarci dinnanzi alla sua possanza.»
   Pur non trovando nessuna parola da poter dire, Junior aveva annuito, dando ragione a suo padre. Pochi giorni prima era stato nella Valle dei Re, poi lui e Senior avevano proseguito il viaggio lungo il Nilo, giungendo fino all’antica Nubia. Ora quei colossi lo infiammavano con la loro presenza, facendogli comprendere quale grandiosa vivacità avesse agito nei cuori degli uomini del passato.
   Il silenzio lo avvolgeva, l’antica sapienza degli egizi lo riempiva, le loro opere meravigliose gli facevano traboccare il cuore. Quel fascino lo stava raggiungendo immutato, parlandogli con voce alta e tonante attraverso il fluire costante delle epoche. Si sentiva piccolo, schiacciato da quell’immensità, proprio come dovevano essersi sentiti gli antichi nubiani dinnanzi a tanto splendore. Eppure non ne aveva paura, bensì si sentiva attratto verso di essa; un’attrazione che non lo avrebbe abbandonato mai più.
   Quello era davvero il luogo in cui si era realizzata la pace dei secoli, l’armonia dei millenni, l’immortalità della grandezza umana scolpita nell’arenaria.
   Ora era tutto molto diverso da come ricordava di averlo visto in quella prima occasione e nelle sue visite successive, l’ultima delle quali risaliva alla primavera del ’58, quando lui e Marion si erano concessi un lungo – e, ovviamente, come si addiceva a due come loro, avventuroso e irto di situazioni inattese – viaggio di nozze. Non riuscì a trattenere un sorriso nel rammentare il lungo bacio che lui e la moglie, approfittando di un momento di solitudine, si erano scambiati proprio dinnanzi all’ingresso del tempio minore, vegliati dallo sguardo dolce e innamorato di Nefertari. Era come se l’antica sposa del faraone, sorridendo dal passato, avesse contribuito a sacralizzare la loro unione.
   Adesso gli uomini non chinavano il capo dinnanzi alla grandezza e alla potenza del faraone, timorosi di compiere un gesto sbagliato; al contrario, si muovevano veloci e indaffarati al suo cospetto, in una corsa contro il tempo, nel tentativo di salvare quegli splendidi colossi di pietra dalla distruzione a cui li avrebbe condannati quella medesima acqua che, per oltre tremila anni, era scorsa placida dinnanzi ai loro occhi inamovibili. Gli imponenti templi rupestri dedicati a Ramses II e alla sua grande sposa reale Nefertari si accingevano a essere smantellati blocco su blocco, per essere messi in salvo e venire così consegnati, ancora una volta, alla gloria luminosa dell’eternità.
   «Che razza di casino e di disordine» commentò Yasmin, affiancandosi all’archeologo, facendo vagare lo sguardo su tutto il cantiere. «Si vede che manca la mano di una donna, in questa faccenda.»
   «Ricordati che non siamo qui per mettere in ordine, ma solo per scoprire che fine abbia fatto papà» le rammentò Moshti, fermo sull’altro lato di Indy. «Anzi, continuo a ribadire che questa è una faccenda per soli uomini e che tu non saresti dovuta ven…» Un’occhiataccia raggelante della sorella lo costrinse a interrompersi.
   Erano giunti al Cairo il giorno prima. Dopo una breve sosta a casa di Sallah, dove si erano accertati che dello scavatore non ci fosse ancora nessuna notizia, erano partiti in aeroplano per Abu Simbel, dove erano giunti da poche ore. Moshti e Yasmin avevano insistito per accompagnare Indy e per non lasciarlo da solo.
   «D’accordo» aveva accettato l’archeologo, cedendo alle loro insistenze. «Però occhi aperti, mi raccomando. Finché non scopriamo che cosa sia accaduto, dovremo stare molto attenti a come ci muoveremo. Questa faccenda, ve lo confesso, mi inquieta parecchio.»
   Adesso che erano giunti al cantiere, però, Indy cominciava a rendersi conto che l’impresa di trovare Sallah si sarebbe rivelata ancora più complessa del previsto. C’erano centinaia di persone, in quel luogo, e con la confusione che regnava non sarebbe stato semplice riuscire a raccogliere indizi utili per scoprire che cosa fosse successo realmente.
   Distogliendo lo sguardo dal tempio maggiore, l’archeologo accennò con la testa a una delle baracche prefabbricate dove avevano sede gli uffici.
   «Venite» disse. «Proviamo almeno a trovare l’assistente di vostro padre.»

 
* * *

   «Ne siete sicuri?» sbottò il colonnello Volkov, versandosi una generosa dose di vodka ghiacciata nel bicchiere.
   Arcigno, calvo, il volto pallido e spigoloso, magro e nervoso, Sasha Volkov era la determinazione in persona. Quando riceveva un incarico lo portava a termine a ogni costo, eliminando qualsiasi ostacolo si frapponesse tra lui e il risultato finale. E agiva con tanta più determinazione da quanto più in alto arrivavano gli ordini ricevuti. E, siccome in quel caso gli ordini arrivavano direttamente dalla scrivania più importante di tutto il Cremlino, non avrebbe tollerato nessun disguido.
   Svuotò il un sorso solo il bicchiere e fece scivolare gli occhi azzurri e freddi come il ghiaccio sui due agenti del KGB in piedi di fronte a lui, immobili dall’altro lato dell’improvvisata scrivania ottenuta da un tavolino da campo.
   «Sì, compagno colonnello» replicò il più alto in grado dei due. «Non abbiamo nessun dubbio: il professor Jones è giunto al cantiere. Abbiamo controllato più volte i nostri fascicoli e ci siamo fatti inviare in maniera rapidissima un rapporto dettagliato da Mosca. È proprio lui.»
   «Maledizione!» sbraitò Volkov, colpendo con un pugno il ripiano della scrivania e facendo rovesciare il portapenne. «Sono certo che Jones non sia coinvolto in nessun modo nella missione dell’UNESCO! Quel guastafeste deve avere subodorato qualcosa, non c’è altra spiegazione! Ancora una volta, si sta mettendo di mezzo per intralciare i nostri piani!»
   «Questo non è esattamente il nostro parere» ammise l’agente, cercando di mantenere il sangue freddo. «Abbiamo controllato tutti i membri della missione. Tra di loro, come ha detto lei, Jones non appare. Tuttavia, il supervisore incaricato dal governo egiziano è un suo vecchio amico, che risulta scomparso nel nulla, e l’americano è giunto ad Abu Simbel in compagnia di due figli di quel funzionario. Forse, è per quel motivo che Jones si trova qui, e non ha nulla a che vedere con quello che abbiamo in mente di fare.»
   Volkov si grattò il mento, facendo ordine nei propri pensieri.
   «Può darsi, effettivamente, che sia come dite voi» borbottò. «Ma non commettete l’errore di scordare che un uomo, ad Assuan, è stato sorpreso mentre ascoltava i nostri discorsi, e non è più stato acciuffato per colpa della vostra incapacità. Chi ci dice che non fosse proprio il funzionario scomparso? Potrebbe aver scoperto la verità e aver avvertito Jones!»
   I due agenti si scambiarono una rapida occhiata, interdetti e nervosi. Aprirono la bocca come per replicare qualcosa, ma poi preferirono non parlare.
   Il colonnello si versò un altro bicchiere di vodka, ma questa volta non lo bevve.
   «Nondimeno, se anche Jones fosse qui per ben altri motivi, non possiamo fingere di ignorare la sua presenza ad Abu Simbel proprio mentre ci apprestiamo a condurre a termine la nostra importante ricerca» disse. «È necessario agire al più presto contro di lui. Non dimentichiamo, peraltro, che Indiana Jones è un nemico dichiarato dell’Unione Sovietica e che, sette anni or sono, ha vanificato i sforzi dell’eminente e sempre compianto colonnello Spalko. Per quello che ci è dato sapere, potrebbe essere lui stesso il responsabile della morte del colonnello, il cui corpo non è mai stato recuperato. In un caso o nell’altro, non può continuare a restare impunito. Bisogna darsi da fare: quell’americano deve essere eliminato.» Si sporse in avanti, fissando i due agenti del KGB. «Ovviamente, dovrà sembrare un incidente. Un’automobile che gli piomba contro, un carico che si stacca e lo schiaccia, una zuffa tra indigeni… quello che volete voi, purché nessuno possa compiere un collegamento con noi. La sua morte non dovrà essere in nessun modo imputata alla Russia. Anche se abbiamo tutto l’appoggio del governo egiziano, non possiamo dimenticare di avere gli occhi del mondo intero puntati addosso.»
   «Lasci fare a noi, compagno colonnello!» rassicurò l’agente, irrigidendosi nel saluto militare.
   Il colonnello li squadrò entrambi con freddo disprezzo.
   «Vi siete già fatti sfuggire lo spione ad Assuan. Non deludetemi una seconda volta, perché non vi sarà concessa una terza possibilità.» Svuotò un’altra volta il bicchiere di vodka e soggiunse: «Se fallite, finirete i vostri giorni in un campo di detenzione in Siberia, ve lo assicuro.»

 
* * *

   L’assistente di Sallah era un piccoletto di nome Salim Fahmy. Un paio di enormi e spessi occhiali in bilico sul naso gli conferivano una discreta somiglianza con una talpa, meglio sottolineata dall’enorme paio di baffoni neri che si allungavano verso gli angoli della bocca, da dove cadevano verso il mento. Sedeva dietro a una scrivania ingombra di alte pile di carte di vario genere e le pesanti occhiaie che gli ombreggiavano lo sguardo denotavano quanto poco avesse riposato, in quelle ultime settimane. Sudava abbondantemente, nonostante avesse slacciato il colletto della camicia beige, perché all’interno del soffocante prefabbricato faceva un caldo da scoppiare.
   «Non ho la più pallida idea di che cosa sia accaduto al signor el-Kahir» annunciò in tono sbrigativo, dopo aver ascoltato le spiegazioni di Indy. Come se la cosa non lo riguardasse, afferrò un foglio e cominciò a leggerlo.
   L’archeologo, che era già in un bagno di sudore a causa della calura insopportabile dell’angusto ufficio colmo di schedari dove non circolava un filo d’aria, lo fissò torvo, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni. Ai suoi lati, appena un passo più indietro, Moshti e Yasmin erano altrettanto accaldati, oltre che sconcertati da quell’atteggiamento sbrigativo.
   «Ma come, il responsabile del cantiere scompare nel nulla e lei non se ne cura in nessun modo?» sbottò Jones.
   Salim scrollò le spalle, senza staccare gli occhi dal foglio.
   «Innanzitutto, il signor el-Kahir non è responsabile del cantiere, bensì soltanto un supervisore nominato dal governo» precisò. «Inoltre, scomparendo in quel modo, ha fatto cadere su di me, che già ho mille occupazioni, anche tutte le sue incombenze.»
   «E il fatto che nostro padre sia scomparso non le ha acceso nessun campanello d’allarme?!» quasi urlò Yasmin, tremando di rabbia. Il fratello allungò una mano e gliela posò sul braccio, per invitarla a restare calma.
   Il funzionario non la degnò di uno sguardo, né si accinse a rispondere, come se non l’avesse nemmeno sentita.
   «Allora?» lo incitò Indy, con tono duro. «Le è stata fatta una domanda. Vuole rispondere o no?»
   Salim si strinse un’altra volta nelle spalle.
   «Io non parlo con le donne. Anzi, non so proprio perché ve ne siate portati dietro una, anziché lasciarla a casa sua, in cucina, nell’unico posto in cui dovrebbe stare. Io sono troppo impegnato per perdere tempo con voi e…»
   Con uno scatto fulmineo, estratte le mani dalle tasche, Indy si chinò in avanti e, afferrato l’ometto per la camicia, lo strappò di peso dalla sedia, trascinandolo sopra la scrivania in un tramestio di carte e penne che finirono sul pavimento alla rinfusa. Tenendolo sollevato dal pavimento, lo sbatté con forza contro una parete e lo fulminò con lo sguardo.
   «Stammi bene a sentire, razza di tricheco puzzolente» sibilò, fissandolo negli occhi. «O mi dici quello che sai, oppure io ti faccio pentire amaramente di essere stato tu, a non rimanertene in casa tua. Mi hai capito?!»
   Piagnucolando per lo sconcerto e il terrore, Salim farfugliò qualcosa di incomprensibile.
   «Mi hai capito?!» ripeté Indy, sbattendolo di nuovo contro la parete.
   Il funzionario annuì, spaventato, ma non disse una parola.
   «Allora?» lo incalzò l’americano.
   Capendo la malaparata, finalmente Salim si decise a dire ciò che sapeva. La sua voce era diventata acuta e tremebonda.
   «Il signor… il signor el-Kahir era andato ad Assuan per sbrigare alcune faccende. Si… si era fermato fuori per la notte, in un albergo… sarebbe dovuto tornare per il mezzogiorno, ma… non avendo fatto rientro, il giorno dopo ho provato a cercarlo per telefono… e l’albergatore mi ha detto che era uscito il mattino precedente per una passeggiata… e non aveva più fatto ritorno… il suo bagaglio non è stato toccato…» Si interruppe, ansante.
   Indy gli fece scivolare le dita attorno al collo, minacciando di strozzarlo. Compresa l’antifona, Salim proseguì.
   «Allora… io… ho chiamato al ministero… per sapere… come comportarmi… mi… mi hanno detto di… andare avanti come al solito… che… che… che avrebbero pensato a tutto… loro…» Piagnucolò qualcosa e si lamentò per un dolore alla schiena, prima di aggiungere: «È la verità, non so altro!»
   L’archeologo lo fissò in cagnesco ancora per qualche istante. Infine, persuasosi che quell’omiciattolo fosse sul serio all’oscuro di ogni cosa, lo lasciò andare, facendolo cadere sul pavimento. Salim restò fermo qualche istante, massaggiandosi le terga indolenzite, poi con uno scatto improvviso si alzò da terra e si slanciò verso la porta.
   «Aiuto…!» provò a gridare.
   Non riuscì nemmeno a sfiorare la maniglia, perché le dita di Yasmin gli si strinsero attorno al braccio, trattenendolo. Sbilanciato all’indietro, l’ometto finì di nuovo tra le grinfie di Indy che, sollevatolo senza sforzo, lo scagliò oltre la scrivania, mandandolo a rovesciarsi contro la sedia. Ancora una volta, il funzionario tentò di alzarsi e di darsi alla fuga, ma l’archeologo gli fu immediatamente addosso e, con un pugno sulla testa, lo mise al tappeto.
   «Questo dormirà per almeno mezz’ora» bofonchiò, risistemandosi il giubbotto di pelle. Si rivolse con un sogghigno ai due figli di Sallah. «Acqua in bocca, mi raccomando. Se ce lo domandano, noi qui dentro non ci siamo mai entrati, e se quel gallinaccio prova ad andare in giro a starnazzare qualcosa, siamo tutti d’accordo di dovergli dare del bugiardo.»
   «Non preoccuparti, zio Indy» lo rassicurò Yasmin, con un sorriso complice.
   Moshti, invece, si tormentò i baffi con nervosismo.
   «Purtroppo non ci ha detto nulla che non sapessimo già» borbottò. «Che fosse scomparso ad Assuan già lo sapevamo.»
   L’archeologo si passò una mano sulla guancia, pensieroso. Era già ispida di barba.
   «Però ci ha confermato che, il governo, in questa faccenda non vuole sbilanciarsi troppo» disse. «Il che conferma i miei timori che, la sparizione di Sallah, possa in qualche maniera essere collegata ai sovietici che ci sono in questa zona.»
   Aprì la porta e fece un cenno con la testa verso l’esterno del prefabbricato.
   «Venite, usciamo da qui. Si scoppia dal caldo. Vediamo se, all’aria aperta, riusciamo a farci venire qualche buona idea.»
   Indy cercò di non lasciare intendere ai due figli di Sallah di essere molto preoccupato. Aveva sperato di poter cavare qualcosa di interessante da quel funzionario, che magari avrebbe in qualche modo potuto orientarli sulla pista giusta. Esaurite le poche informazioni che era riuscito a strappargli, e che non aggiungevano assolutamente nulla a ciò che più sapeva, non aveva la più pallida idea di che altro fare.
   Purtroppo, Indiana Jones era un uomo abituato ad agire partendo dai fatti. Non era Sherlock Holmes, in grado di ricostruire le ultime mosse di una persona scomparsa. Pur trovandosi nella luce calda e abbagliante dell’Egitto meridionale, doveva ammettere con se stesso di star brancolando nel buio.
   Stava per dire qualcosa, quando si sentì chiamare da una voce sconosciuta.
   «Professor Jones! Da questa parte, presto!»


 
   
 
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