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Autore: IndianaJones25    25/01/2022    1 recensioni
Di ritorno da una disavventura in Australia, Indiana Jones scopre che il suo vecchio amico Sallah si è volatilizzato, senza lasciare tracce.
Indy decide allora di partire verso l’Egitto meridionale, dove è in corso una delle più grandi imprese archeologiche del Novecento, per poter rintracciare il suo amico scomparso. Ancora non sa che questo lo condurrà nell’ennesima sfida contro il tempo per sventare un complotto che, se andasse a buon fine, potrebbe portare nelle mani dei sovietici un’antica e pericolosa arma, risalente all’epoca degli dèi e dei faraoni…
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Henry Walton Jones Jr., Nuovo personaggio, Sallah el-Kahir
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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    8 - IL CARRO D’ORO

   «Papà!» esclamò Yasmin, riconoscendolo. «Sei davvero tu?!»
   Moshti assunse una sfumatura color porpora per l’imbarazzo.
   «Ma… ma che cosa ci fai vestito da donna?» domandò, incredulo.
   Sallah si lanciò uno sguardo attorno, osservando tutti gli uomini feriti o morti stesi al suolo. Si rivolse poi a Indy, che stava ancora sogghignando, facendogli un cenno veloce.
   «Le spiegazioni a dopo» borbottò. «Ora penso che sia meglio toglierci da qui. Venite, seguitemi…!»
   Camminando in fretta, lo scavatore guidò l’amico e i suoi figli di nuovo verso il cantiere.
   Una volta giunti qui, Sallah – dopo essersi accertato di essere ben coperto dal velo – prese con decisione la direzione che conduceva verso l’uscita, facendosi largo tra gli operai indaffarati e seguendo la pista in terra battuta in salita che era stata costruita per permettere il viavai dei mezzi.
   La stradicciola era piuttosto ripida e tutti e quattro, stanchi per la lotta sostenuta, arrancarono e sbuffarono sotto il sole impetuoso. Indy aveva mille domande a ronzargli per la testa – una su tutte, sapere chi diavolo fossero quei mascalzoni che li avevano assaliti – ma, in quel momento, pensava soltanto a camminare e a risparmiare il fiato.
   Infine, guadagnata la strada esterna, che costeggiava la parte alta del sito archeologo, dove sarebbero stati trasportati i blocchi tagliati dei templi per essere ricostruiti, raggiunsero una vecchia casupola a due piani, circondata da un giardino sabbioso in mezzo a cui cresceva soltanto una palma dalla corteccia riarsa e sbiancata dal sole, che sorgeva a non molta distanza.
   L’egiziano diede un paio di forti colpi alla porta, che venne aperta da un vecchio dalla barba bianca; l’uomo, dopo averlo riconosciuto, si scostò per lasciar passare lui e gli altri. L’interno era fresco e in penombra, perché le pareti della casupola erano spesse e le finestre, coperte da stuoie, non lasciavano passare la luce accecante del sole. L’arredamento era piuttosto misero: un vecchio tappeto liso, una cassapanca accostata al muro, uno scaffale chiuso da anticelle, un divanetto che aveva visto tempi migliori. Fu qui che, tra i cigolii di protesta delle vecchie molle, Sallah si lasciò cadere con un grugnito.
   «Murad, per favore, portaci qualcosa da bere!» urlò a pieni polmoni lo scavatore, così forte da costringere i figli e Indy a tapparsi le orecchie con le dite. «Ho la gola piena di polvere…» soggiunse con un borbottio, sfilandosi dalla testa il velo.
   Il vecchio, fatto un leggero cenno d’assenso, scomparve dietro una porta che immetteva in un altro locale.
   I due figli di Sallah, stanchi, si misero a sedere sopra il tappeto, a gambe incrociate. Indy, invece, si accostò con la spalla alla parete, fissando l’amico in attesa di una qualsiasi spiegazione per tutto quel mistero. Lo scavatore, però, stava ancora cercando di riprendere fiato.
   Fu Moshti il primo a parlare.
   «Si può sapere che cosa sta succedendo?» domandò, impaziente. «Che posto è, questo? Chi è quell’uomo? E, in nome del cielo, perché sei conciato in quella maniera assurda?!»
   L’archeologo incrociò le braccia sul petto.
   «In effetti, Sallah, avremmo voglia di saperne qualcosa di più, su tutta questa faccenda…» grugnì.
   In quel momento, il vecchio di nome Murad fece ritorno con un vassoio su cui aveva posizionato una brocca piena di acqua fresca e limone e quattro bicchieri. Ne riempì uno per Sallah, che lo scolò con gusto, e poi ne consegnò uno per ciascuno agli altri ospiti. Indy prese il suo ma non bevve. Il vecchio, senza una sola parola, uscì di nuovo dalla stanza.
   «Molto loquace, il tuo amico» commentò Yasmin.
   Finalmente, ripresosi un poco dalla stanchezza, Sallah riuscì a bofonchiare: «Murad è quasi completamente sordo. È un mio vecchissimo amico, lo conosco praticamente da sempre. Ha lavorato per anni come custode dei templi di Abu Simbel, anche se ha perso l’udito durante la guerra, a causa di una mina che gli è esplosa vicino. Quando gli ho spiegato la situazione, ha acconsentito senza nessuna esitazione a darmi ospitalità…»
   «Magari, adesso, potresti spiegarla anche a noi, la situazione» interloquì Jones. «Che diavolo sta succedendo, si può sapere? Mi chiami con urgenza ad Abu Simbel e, invece di incontrare te, mi trovo alle prese con dei pazzi scatenati. Chi diavolo erano? Pensavo, in tutta onestà, che ci fossero i russi, dietro questa faccenda… di qualsiasi faccenda si tratti.»
   Sallah si versò altra acqua e limone e ne bevve un sorso.
   «E pensavi bene, Indy» confermò. «Si tratta proprio dei russi. Quei tizi che vi hanno assalito… non erano previsti, non so chi siano, a dire il vero. Ma posso presumere che siano stati i sovietici ad arruolarli, quando hanno saputo della tua presenza qui, anche se non ne comprendo il motivo…»
   L’archeologo si strinse nelle spalle.
   «Oh, ti assicuro che io e i sovietici siamo vecchi amici. Ci vogliamo così bene che, appena ci incontriamo, non possiamo fare a meno di cercare di scannarci.»
   Lo scavatore ridacchiò, ma poi il suo sguardo si fece severo, posandosi sui due figli.
   «Voi, invece, che ci fate qui?» borbottò. «Non sapete che è pericoloso? Io…»
   Prima che Moshti e Yasmin avessero avuto modo di replicare qualsiasi cosa, fu Indy a farlo al loro posto.
   «Suvvia, Sallah, non sono ragazzini. Sono adulti quanto noi. Inoltre, come accidenti facevamo a sapere che ci fosse qualche pericolo, se tu non lo hai detto?» disse. «E poi non crederai che, di qualsiasi cosa si tratti, possiamo fare tutto io e te da soli, come ai vecchi tempi.» Sogghignò, anche se con un leggero velo di amarezza nello sguardo. «Stiamo diventando due nonnetti, amico mio, e dobbiamo prenderne atto. Ci vuole l’aiuto dei giovani, per quanto roda pensare di essere quasi sulla via di diventare pezzi da museo come i templi di Ramses.»
   Sallah si strinse nelle spalle.
   «Sì, immagino che tu abbia ragione» commentò. Bevve un altro sorso d’acqua.
   I due giovani avevano seguito il loro scambio di battute in silenzio, muovendo lo sguardo dall’uno all’altro. Adesso, però, la curiosità cominciava a prendere il sopravvento, e non vedevano l’ora di capire qualcosa di più, di quella storia.
   «Sì, d’accordo, siamo tutti coinvolti» concluse Yasmin. «Ma possiamo almeno sapere in che cosa, siamo coinvolti?» Squadrò il padre con sguardo penetrante. «Siamo andati fino in America a prendere lo zio Indy, lo abbiamo portato fin qui, abbiamo fatto a botte con dei pazzi armati e ora, se permetti, vorremmo saperne qualcosa di più, riguardo a tutto questo, anziché restare qui a guardare te vestito da donna che bevi la limonata.»
   Sallah ridacchiò. In sua figlia vedeva ogni giorno di più il carattere determinato e deciso della sua Fayah.
   «Avete ragione, avete ragione» disse, con tono giovale. «Vi avrei detto tutto già un’ora fa, se non si fossero messi di mezzo quegli individui. Vi stavo per chiamare io… a proposito, non c’era davvero bisogno di malmenare a quel modo il povero Salim… è un po’ ottuso, lo ammetto, ed è un burocrate della peggior specie, ne sono consapevole, ma non era davvero informato di nulla.»
   L’archeologo si strinse nelle spalle.
   «Tanto, prima o poi, una lezione se la sarebbe meritata ugualmente» borbottò.
   Sallah fece un gesto di approvazione e, dopo aver preso un altro sorso dal bicchiere, iniziò il suo racconto.

 
* * *

   Boris e Oleg, i due agenti del KGB, si guardarono allibiti.
   Da dietro il loro riparo, appena oltre la porta del tempio minore, dove era stata eretta un’impalcatura per i lavori in corso, avevano assistito all’aggressione, certi che né il professor Jones né il ragazzo e la ragazza che lo accompagnavano ne sarebbero usciti vivi. D’altra parte, avevano versato fior di rubli nelle tasche di quei ladroni perché si sbarazzassero di Jones e degli altri due, facendolo passare per un tentativo di rapina concluso nel peggiore dei modi.
   Invece, contrariamente a tutte le previsioni, quei tre ne erano usciti praticamente illesi, mentre la maggior parte dei briganti era stata messa fuori combattimento. La ragazza con il velo sui capelli picchiava davvero duro e l’americano, per quanto vecchio e mummiforme potesse essere, sapeva davvero il fatto suo. Alla fine, quando era arrivata quella specie di valchiria del deserto, la situazione si era volta a completo favore delle loro vittime.
   «Questa cosa non piacerà, al compagno colonnello» commentò Oleg, torcendosi le mani.
   «Non è ancora detto che sia tutto perduto» borbottò Boris, accarezzandosi il mento. Non aveva nessuna intenzione di essere deportato in Siberia per un’inezia simile.
   Come se gli avesse letto nel pensiero, Oleg al suo fianco rabbrividì. Si era abituato troppo bene al tepore egiziano per pensare di venire spedito nella gelida Siberia. Eppure lo spettro di quella possibilità calò su di loro mentre continuavano a contemplare il punto in cui si era svolta la battaglia, ormai deserto, se non si consideravano i corpi di cui era costellato.
   «Che cosa possiamo fare?» domandò Oleg.
   «Ho ancora qualche asso nella manica» rivelò Boris. «Certo, ci costerà caro, perché Adham vuole essere pagato molto più di quei ladroni, ma lui non fallirà di certo. Vieni, seguimi.»
   Con passo svelto, i due agenti del KGB sgusciarono dal loro riparo e uscirono dal tempio. Aprendo la strada, Boris guidò il collega attraverso il cantiere, fino a fermarsi dinnanzi a una casupola di mattoni da cui proveniva un sordo martellare.
   Si affacciarono alla porta aperta e, nella semioscurità, videro un uomo di forme colossali, alto più di due metri, a torso nudo, che martellava con foga sopra alcuni attrezzi di acciaio che erano stati rovinati dall’uso. A ogni colpo, l’acciaio si piegava senza difficoltà, come se anziché uno dei metalli più duri, quell’uomo stesse lavorando con del burro morbido e malleabile. Ogni martellata faceva sollevare nugoli di scintille, che gli bruciacchiavano la lunga barba nerissima e i peli del petto e gli scottavano i muscoli delle braccia, possenti come tronchi d’albero.
   «Adham» chiamò Boris.
   Senza smettere di martellare, l’energumeno emise un grugnito gutturale per far comprendere che avevano la sua attenzione.
    «C’è un lavoro per te» rivelò il russo. «Quello di cui abbiamo già parlato, ricordi?»
   Un altro grugnito lasciò intendere che l’uomo ricordava perfettamente.
   «Metà dei soldi subito e l’altra metà a lavoro ultimato.»
   Questa volta, anziché grugnire, l’uomo appoggiò il martello rovente sull’incudine e si volse verso i due sovietici. Li squadrò per un istante, poi le sue braccia scattarono all’improvviso e le dita di entrambe le mani si serrarono attorno alle loro gole. Prima che avessero avuto la possibilità di fare qualsiasi cosa, li sollevò entrambi dal terreno, in apparenza senza alcuno sforzo.
   «Ahhh…» sbuffò Boris, diventando verde, mentre il suo collega non riusciva nemmeno a parlare. «…va bene… tutto i… il paga… mento… subito…»
   Soddisfatto, Adham li lasciò andare entrambi, facendoli ripiombare sul terreno, dove rimasero stesi per qualche istante, cercando di riprendere fiato. Quando, finalmente, ancora tremanti e spaventati, riuscirono a rialzarsi, se lo trovarono piazzato di fronte, le gambe larghe e la mano tesa con il palmo rivolto verso l’alto.
   A malincuore, Boris aprì il portafogli e ne riversò il contenuto – una nutrita schiera di banconote di vario taglio – nella mano del gigante. Quello prese i soldi e li contò lentamente, valutando ogni singolo biglietto. Infine se li fece scomparire in tasca ed emise un grugnito soddisfatto.
   «Vorremmo che il lavoro fosse fatto subito» precisò Boris, vedendo che l’energumeno stava riprendendo in mano il martello.
   A rispondergli fu un grugnito. Adham mise in tasca il martello e, presa una lurida camicia che aveva gettato in un angolo, la infilò senza abbottonarla.
   «Sai dove trovarli?» domandò l’agente del KGB.
   Un grugnito, che i due colleghi interpretarono come affermativo, fu la sola risposta che ne ricevettero in cambio.

 
* * *

   «Quindi, ricapitolando, tu stavi semplicemente facendo una passeggiata e hai sentito i russi parlare e quindi ti sei avvicinato?» bofonchiò Indy, non sapendo se mettersi a ridere per quella storia che pareva assurda. Gli era capitato più volte, in vita sua, di imbattersi in complotti o in misteriosi reperti archeologici – o, molto spesso, in entrambe le cose insieme – nei più svariati modi, ma quello li batteva davvero tutti.
   «Eh già» disse Sallah, sorridendo. «Mi era parso davvero strano sentire fare il nome del faraone Ramses in una loro discussione. A loro, in genere, queste cose non interessano. Anzi, se fosse dipeso da loro, avrebbero lasciato che i templi fossero sommersi dalle acque del fiume, senza un solo rimpianto.»
   L’archeologo scosse il capo, sogghignando.
   «Stiamo proprio invecchiando, se ci mettiamo a tirare le orecchie verso i discorsi altrui come delle comari impiccione che non hanno niente di meglio da fare che spettegolare…» commentò.
   «Perciò ti sei avvicinato per origliare» suppose Moshti, severo.
   «Esatto…» replicò Sallah.
   «Papà, non lo sai che ascoltare i discorsi altrui è un comportamento da donne?» lo riprese suo figlio, guardandolo con serietà.
   Un sorriso ancora più gioviale comparve sotto la barba dello scavatore, mentre cercava di assumere un’aria civettuola.
   «Ma infatti, non vedi come sono vestito…?» domandò, ilare, fingendo di rassettarsi il lungo abito.
   «Sentitevi!» intervenne Yasmin, con fervore. «Tre maschilisti fatti e finiti!»
   Tutti e tre le fissarono, indecisi se fosse meglio replicare o mantenersi in silenzio.
   «Proprio a me doveva capitare di avere come sorella il capo delle femministe del Cairo!» finse alla fine di lamentarsi Moshti, sollevando le braccia al cielo.
   Indy ridacchiò, ma poi riportò la conversazione sul binario principale.
   «E che cosa si stavano dicendo, i russi, per spaventarti tanto? E perché poi hai pensato bene di sparire e di travestirti? Si può sapere che è successo?»
   Sallah si strinse nelle spalle.
   «Be’, mi hanno scoperto ad ascoltare i loro discorsi e mi hanno inseguito. Mi ero nascosto dietro un albero, ma ho… be’, ho starnutito, così ho attirato la loro attenzione senza volerlo. Sono riuscito a sottrarmi alla cattura, ma temevo che mi avessero riconosciuto. Così, ho chiesto a mia cugina, che abita ad Assuan, di prestarmi questo abito, per poter tornare indisturbato ad Abu Simbel. Ascoltando un po’ di chiacchiere in giro, mi sono poi reso conto che, a dire il vero, non ero stato riconosciuto proprio da nessuno, e che i russi non mi stavano cercando. Probabilmente, avranno pensato che, quello che stava origliando i loro discorsi, forse soltanto uno sfaccendato che non aveva niente di meglio da fare.»
   «Un po’ è vero» lo accusò Moshti, ancora seccato all’idea che suo padre si fosse comportato come una donna. Per tutta risposta, si guadagnò una gomitata nel costato da parte di Yasmin.
   Indy aggrottò le sopracciglia.
   «Ma, allora, perché hai continuato con questa pagliacciata?» domandò.
   «Ho pensato che, comunque, avrei potuto agire più indisturbato rimanendo nell’ombra. Inoltre, c’era il rischio di dover dare troppe spiegazioni su quello che mi era successo, se fossi riapparso di punto in bianco come se non fosse accaduto nulla.»
   Moshti era confuso.
   «Se i russi non sapevano di te, e di conseguenza non avevano allertato il governo, perché la polizia non ha voluto cercarti?» domandò, massaggiandosi il punto che aveva impattato con il gomito della sorella.
   «È probabile che, in segreto, abbiano ugualmente fatto delle ricerche» rispose Sallah, atteggiando le labbra a un sorriso amaro. «Ma non potevano certo sbandierare la storia ai quattro venti come se niente fosse. Non dimentichiamo che l’Egitto, ormai, è un paese retto dai militari, e che in questo momento ha gli occhi di tutto il mondo puntati addosso. Nel raggio di pochi chilometri sono concentrati esponenti del blocco occidentale, di quello orientale e dei paesi non allineati. Non è certo il periodo giusto per fare scandali. Un funzionario scomparso lo si può sempre sostituire senza troppo rumore. Dover rivelare il motivo della sua scomparsa, qualsiasi esso sia, è tutto un altro paio di maniche.»
   «Niente elementi di disturbo, insomma» borbottò Indy, giocherellando con il manico della frusta. «D’accordo, questo lo abbiamo capito. La polizia non c’entra niente e anche il tuo assistente non mentiva, dicendo di non saperne proprio nulla. Pazienza. Ora ti spiacerebbe a dire anche a noi, però, quello che hai scoperto?» Fissò lo sguardo in quello dell’amico. «Perché mi hai voluto qui? Cos’è questa storia dei russi?»
   Sallah sospirò, lisciandosi la barba. Finì di bere la sua acqua e limone e, mettendosi più comodo sul divano, cominciò finalmente il suo racconto.
   «Come ho detto, ero uscito molto presto per una passeggiata. Volevo andare a vedere come procedono i lavori alla diga, prima di ripartire per Abu Simbel. Quando sono arrivato sul posto, ho notato subito un gruppo di uomini che confabulavano. La cosa mi è parsa strana, perché era molto presto, praticamente era appena l’alba. Ho notato subito che erano russi, e ho riconosciuto uno di loro: il colonnello Volkov, inviato qui come responsabile della sicurezza degli scienziati che stanno lavorando alla costruzione della diga. Be’, la cosa mi è parsa strana, perché parevano dei cospiratori, così mi sono avvicinato senza fare rumore.»
   «Non si fa» lo interruppe suo figlio. «Non si fa e non si fa. Non si ascoltano i discorsi altrui, è maleducazione. E non provare a dirmi niente, perché sei stato tu a insegnarmelo, fin da bambino…»
   «Sì, ma se è servito, direi che a volte vale la pena fare uno strappo alla regola, no?!» lo rimbrottò Yasmin, con tono acido.
   «Eccome se è servito» borbottò Sallah. «Perché mi sono servite poche, pochissime parole, per rendermi conto che stava succedendo qualcosa di pericoloso…»
   Con gli occhi della mente, rivisse quella scena, mentre la rivelava ai figli e all’amico.

 
* * *

   I cinque russi erano fermi sul limitare del fiume. Sembrava che stessero guardando in direzione della grande diga che stava a poco a poco sorgendo verso il cielo, eppure non parevano affatto interessati al progredire di quella gigantesca opera di ingegneria che avrebbe sancito in eterno il rapporto di amicizia tra l’antico paese dei faraoni e l’Unione Sovietica.
   «Allora, professor Smolnikov, come procedono i lavori?» domandò il colonnello Volkov, accedendosi una sigaretta.
   L’uomo chiamato Smolnikov fece un breve cenno con il capo.
   «Le ricerche, per ora, continuano. Dobbiamo procedere con lentezza, adeguandoci ai ritmi del cantiere per non dare nell’occhio, ma penso proprio che siamo a buon punto.»

 
* * *

   «Aspetta un attimo» interloquì Indy, alzando una mano per fermare l’amico e fissandolo negli occhi. «Hai proprio capito bene? Ha detto Smolnikov? Il nome era proprio quello?»
   Sallah annuì con sicurezza.
   «Sì, il nome è quello. Me lo sono fissato a fondo nella mente per non dimenticarlo.» Ricambiò il suo sguardo. «Perché, lo conosci?»
   Jones assentì con il capo in segno di affermazione.
   «Non di persona» spiegò, «ma lo conosco. È un archeologo sovietico. Vladimir Smolnikov. Negli ultimi anni si è occupato parecchio anche di egittologia. Ho letto alcuni dei suoi articoli. È un convinto assertore del fatto che, le antiche civiltà, avessero sviluppato sistemi economici e sociali di stampo comunistico: prodomi della moderna Unione Sovietica, insomma. Devo ammettere che ha una mente molto brillante, sebbene sprechi il suo intelletto creando dei falsi storici a uso e consumo del Cremlino. Spesso e volentieri, infatti, ribalta le fonti a modo suo, per leggervi ciò che desidera.» Un sogghigno svergolo gli deformò il viso. «Presumo che, in Unione Sovietica, l’unico modo per continuare a svolgere una professione intellettuale come la nostra sia quello di compiacere i capi dandogli la prova dell’eternità delle idee comuniste.»
   Sallah annuì, pensoso. «Se è così fedele agli ideali marxisti, mi spiego meglio la sua presenza in Egitto.»
   «Continua» lo esortò Moshti, desideroso di conoscere il resto del racconto.

 
* * *

   «Compagno, vorrei ricordarle che non possiamo permetterci di perdere troppo tempo. Non siamo al corrente di quali nuovi tipi di armamento stiano sviluppando gli americani, ma è necessario procurarci al più presto questo nuovo vantaggio, in modo da metterlo sotto studio al più presto» disse Volkov, traendo una boccata di fumo dalla sua sigaretta.
   «Le assicuro, compagno colonnello, che io e i miei uomini stiamo facendo il possibile» rispose Smolnikov, con una punta di risentimento nella voce. «Tuttavia, lavorare in mezzo a tutti gli archeologi e agli operai del cantiere di Abu Simbel non è affatto semplice. Abbiamo un nostro piano d’azione, d’accordo, ma dobbiamo rivederlo di continuo. Come lei ben sa, il rischio di venire scoperti è molto alto, con tutto il fermento che c’è in quel luogo. Ed è una fortuna, in ogni caso, che possiamo sfruttare il cantiere come copertura, lei lo sa perfettamente. Senza di quello, non avremmo mai potuto sperare di intraprendere…»
   Il colonnello Volkov gli puntò addosso uno sguardo gelido, che indusse l’archeologo a indietreggiare di un passo. Gli altri tre uomini fissarono il Nilo con insistenza, fingendo di non essersi resi conto di nulla.
   «Lei chiacchiera troppo, compagno professore, e a me le chiacchiere non interessano. A me interessano i risultati, e non ne sto vedendo di soddisfacenti. Come la vogliamo mettere?»
   Smolnikov trasecolò. Il suo viso abbronzato si scolorì. Boccheggiò un paio di volte, come se stesse annaspando in acqua, ma non riuscì a proferire parola. Evidentemente, il colonnello Volkov era circondato da una fama piuttosto sinistra.
   «Spero di non doverle ricordare, professore, che coloro che rappresento pretendono esiti positivi – e rapidi – da questa missione.»
   «Le… le assicuro che il governo non sarà deluso…» bofonchiò finalmente l’archeologo. «Raddoppieremo i nostri sforzi, faremo tutto il possibile… se necessario rinunceremo anche alla prudenza che ci ha guidati fino a questo punto… insomma, le giuro che troveremo il carro, e che la Gloria di Amon diventerà un nostro potentissimo alleato…»
   In quel preciso momento, un insetto che si stava arrampicando lungo il tronco di un sicomoro pensò bene di cambiare direzione e di andare a farsi una passeggiata tra i peli della barba dell’uomo che vi stava appostato dietro. Con un balzo preciso, lo scarabeo atterrò sulla sua nuova destinazione. Solo che, nel farlo, solleticò il naso dell’uomo, provocandogli un fragoroso starnuto.
   I russi, allarmati, cacciarono un grido e iniziarono a correre nella sua direzione. Vistosi scoperto, Sallah fece un rapido dietrofront e si allontanò verso l’edificio che ospitava gli ingegneri. Ma le grida del colonnello stavano richiamando alcuni soldati, che si trovavano proprio lì dentro. Cambiata direzione, il cuore che batteva a mille per l’emozione e lo spavento, Sallah fece perdere le proprie tracce in mezzo ai dedali di viuzze della città di Assuan.

 
* * *

   «La Gloria di Amon?» ripeterono in coro Moshti e Yasmin, senza comprendere.
   «La Gloria di Amon» confermò Sallah, annuendo con serietà.
   «La Gloria di Amon…» parlottò tra sé Indy, nervoso, andando alla finestra.
   Gli sguardi di tutti e tre si fissarono sulla sua nuca, mentre quello dell’archeologo si perdeva sul paesaggio circostante. Le valli aride e le montagne rossicce dell’antica Nubia avvolsero la sua mente, senza però toccarla veramente, occupata com’era da ben altri scenari.
   All’improvviso, Indiana Jones si sentiva ringiovanito. Gli sembrava di essere tornato indietro di trent’anni, ai tempi in cui aveva dovuto ricorrere a ogni suo espediente per combattere contro i nazisti e impedire che si impadronissero dell’Arca dell’Alleanza. Adesso era di nuovo in Egitto, sotto lo stesso sole, con qualche ruga in più e con i capelli grigi, eppure era bastato che Sallah pronunciasse quelle poche parole per fargli comprendere che, ancora una volta, toccava a lui mettere a repentaglio la propria vita per intervenire e salvare la situazione prima che fosse troppo tardi.
   «Immagino che tu abbia sentito bene» borbottò, senza girarsi. «Non hai problemi di udito come il tuo amico Murad, vero?»
   Sallah scosse il capo.
   «Ci sento alla perfezione, Indy» rispose. «E non mi sono ingannato in nessun modo: parlavano proprio della Gloria di Amon.»
   Yasmin sbuffò, spazientita.
   «Ancora questa frase…» commentò. «Si può sapere di che accidenti state parlando?»
   Indy si volse all’improvviso e la fissò per qualche secondo, prima di dire: «Gloria di Amon è il nome che venne dato al magnifico carro d’oro che il faraone Ramses II condusse da solo contro l’intero esercito hittita schierato di fronte a lui, a Qadesh sull’Oronte, sbaragliandolo completamente.»
   «Completamente?» ripeté Moshti, confuso. «Che significa?»
   L’archeologo, ancora turbato dai suoi pensieri, fece un cenno a Sallah perché fosse lui a spiegare.
   «Si tratta di storia antica, ovviamente» disse subito lo scavatore. «Parliamo del…» guardò Indy, in cerca di conferme, «…del quinto anno di regno di Ramses II, giusto?»
   Jones annuì una volta.
   «Nella primavera del 1274 avanti Cristo» precisò.
   «Bene, Ramses aveva deciso di riconquistare la città fortificata di Qadesh, sul fiume Oronte, che gli avrebbe permesso di controllare l’intera regione della Siria» riprese a raccontare Sallah. «Anni prima, lui e suo padre, il faraone Seti, avevano già brevemente conquistato la fortezza, che però era ricaduta quasi subito in mano hittita. Da quel giorno, Ramses aveva sempre sognato il momento di riprenderla. Era diventata una specie di ossessione, per lui.»
   «Così, dopo una prima trionfante campagna bellica nell’anno quarto del suo regno, il faraone prese la decisione di agire come si proponeva» proseguì Indy, infilando le mani in tasca. «Approntato un grande esercito, suddiviso in quattro divisioni a cui si aggiungevano altre truppe di rinforzo, partì dalla sua nuova capitale nella regione del delta nel Nilo, Pi-Ramses, e si diresse a oriente, verso Canaan, da dove poi raggiunse la Siria.»
   «Giovane e focoso, Ramses era certo della propria vittoria» andò avanti Sallah, mentre gli occhi dei suoi figli, dopo aver osservato l’archeologo, tornavano sul suo viso. «Ma, nell’anno che era trascorso dalla precedente campagna, anche gli Hittiti avevano avuto modo di riorganizzarsi e di preparasi a difendere il loro impero dalle mire espansionistiche del giovane avversario. E il faraone fu ingannato con un trucco piuttosto semplice: due finti traditori dell’esercito hittita lo convinsero che, le truppe nemiche, si trovassero a centinaia di chilometri di distanza. Così, raggiunta Qadesh con due sole divisioni, mentre le altre marciavano più indietro e le truppe di rinforzo erano ancora più lontane lungo un’altra strada, pose il campo di fronte alla città. La mattina seguente, invece di poter iniziare l’assedio della cittadella come si era augurato, si trovò sottoposto a un attacco improvviso da parte dei carri hittiti, che per tutto il tempo si erano mantenuti nascosti dietro un crinale a breve distanza.»
   Yasmin fece un sorrisetto compiaciuto nell’udire quello sviluppo.
   «Ecco quello che succede a lasciare che siano gli uomini a comandare» giudicò.
   Moshti sbuffò, spazientito.
   «Non mi pare proprio il caso di metterti a fare adesso i tuoi soliti commenti» bofonchiò.
   Abituato da tempo ai continui battibecchi dei suoi figli, Sallah li ignorò, andando avanti con la sua rapida lezione.
   «La prima divisione, chiamata Ra, colta completamente alla sprovvista dall’attacco dei carri hittiti, venne travolta e, spaccata in piccole parti, fu ricacciata indietro alla rinfusa verso il campo di Ramses. La divisione di Amon, a sua volta, non riuscì a reggere l’urto e si disperse. A quel punto, il faraone si trovò solo, abbandonato dai suoi soldati e da tutti gli ufficiali. Soltanto il suo fedele scudiero… ehm…»
   «Menna» gli venne in aiuto Indy.
   «Esatto» annuì Sallah. «Soltanto il suo scudiero Menna, sebbene diventato bianco per il terrore, rimase saldo al suo fianco.»
   Adesso fu l’archeologo a prendere la parola. Il tuo tono era cupo.
   «Anziché fuggire o abbandonarsi alla morte, Ramses trascinò Menna verso il suo carro d’oro e, spronando i suoi due arditi cavalli – che si chiamavano “Vittoria in Tebe” e “Mut è contenta” – si lanciò all’assalto contro le truppe hittite. Il faraone era solo, ma la sua mano non tremò e il suo cuore restò saldo. La sua mente volò alta, oltre i confini dei cieli, invocando il nome di suo padre Amon, il re degli dèi, e gli chiese di accordargli il suo aiuto. A quel punto, le cronache narrano che il carro – che da quel momento prese appunto il nome di Gloria di Amon – cominciò ad avvampare come una fiamma, e il faraone, avvolto nella sua armatura di cuoio e di bronzo, splendette come se fosse divenuto una statua scolpita nell’oro più puro, abbagliando i nemici. La sua spada di bronzo luccicò come se si fosse tramutata in una lama di luce e lui, da solo, con sei ripetuti attacchi, ricacciò gli Hittiti dentro l’Oronte, dove molti morirono annegati e quasi tutti i carri da guerra andarono perduti. Muwatalli, l’imperatore hittita, udendo lo strepito aveva creduto di avere ormai vinto. E, invece, raggelò, vedendo la miglior parte del suo esercito annientata.»
   L’archeologo tacque per un istante, provando a immaginare la scena. La storia era la sua professione, ed era sempre riuscito a vederla con gli occhi della sua mente. Tuttavia, non poteva negare a se stesso che gli sarebbe piaciuto vivere almeno una volta in diretta l’emozione di quei momenti, assistendovi in prima persona. Scosse la testa, allontanando quelle fantasie, e concluse il discorso.
   «Nel pomeriggio, quando finalmente le truppe di rinforzo in arrivo da Amurru e le due divisioni di Seth e di Ptah che marciavano da meridione giunsero sul luogo della battaglia, trovarono che era già tutto finito. Ramses, seduto sul suo trono tra i resti distrutti dell’accampamento, stava facendo la paternale ai suoi ufficiali per averlo abbandonato e lasciato solo davanti ai nemici, come…»
   Indy si morse il labbro, fermandosi appena in tempo prima di dire “come se i suoi uomini fossero state donnicciole”. Avvertì su di sé lo sguardo penetrante, tagliente e infuocato di Yasmin e, deglutendo, si corresse per evitare il peggio.
   «…come se i suoi uomini fossero stati dei pavidi codardi» disse quindi. Scampato pericolo.
   Sulla stanza calò il silenzio, mentre tutti e quattro cercavano di figurarsi l’incredibile momento della battaglia in cui un uomo solo, rivestito di una luce divina, sbaragliava un intero esercito. Un istante degno di essere eternato per sempre.
   Infine, fu Moshti il primo a parlare.
   «Ma… ma è una leggenda, no?» balbettò. «Conosco il bollettino della vittoria di Qadesh…» Tentò di fare ordine nella propria mente. «Si trattava soltanto di propaganda, giusto?»
   I due vecchi amici si scambiarono una rapida occhiata. Avevano troppe esperienze, dietro le proprie spalle, per sapere quanto le leggende fossero, molte volte, fin troppo reali.
   «Un tempo sarei stato anche io del tuo stesso parere» borbottò Indy. «Ma ho imparato da molti anni a mettere da parte ogni tipo di pregiudizio sul passato.»
   Yasmin torse il lembo del velo che le ricadeva sulle spalle, nervosa.
   «Ma che cosa c’entrano, i russi?» domandò. «Perché sono interessati a quel carro?»
   Indy scrollò le spalle e andò di nuovo a guardare dalla finestra.
   «Oh, questo è chiaro» sbottò. «La Gloria di Amon sarebbe un’arma micidiale, nelle mani di una potenza come l’Unione Sovietica. Otterrebbero un vantaggio non indifferente nella loro corsa agli armamenti. E, a quanto pare, Smolnikov ha scoperto che il carro è nascosto qui, ad Abu Simbel, da qualche parte, e sta approfittando dei lavori di smontaggio dei templi per poterlo trovare.»
   Un lieve pizzicore alla parte posteriore della testa avvertì l’archeologo che aveva tra paia di occhi fissi addosso. Aspettavano soltanto una sua parola per sapere che cosa fosse necessario fare. La risposta la conosceva già benissimo e, dentro di sé, doveva ammettere che lo stuzzicava. Non poteva farci niente. Era la sua natura, quella, e non l’avrebbe cambiata mai.
   «Resta soltanto una cosa, a questo punto, da poter fare…» borbottò.
   Lasciò perdere il paesaggio fuori dalla finestra e si voltò di nuovo verso gli amici, squadrandoli uno per uno. Infine, il suo sguardo risoluto si concentrò su Sallah e, in lui, vide brillare lo stesso fuoco che stava animando da dentro il suo animo. Si sorrisero con fare complice, ritrovando lo slancio e la spregiudicatezza del passato.
   «Dobbiamo trovare il carro di Ramses e nasconderlo prima che se ne impadroniscano i comunisti» concluse.


 
   
 
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