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Autore: IndianaJones25    25/01/2022    1 recensioni
Di ritorno da una disavventura in Australia, Indiana Jones scopre che il suo vecchio amico Sallah si è volatilizzato, senza lasciare tracce.
Indy decide allora di partire verso l’Egitto meridionale, dove è in corso una delle più grandi imprese archeologiche del Novecento, per poter rintracciare il suo amico scomparso. Ancora non sa che questo lo condurrà nell’ennesima sfida contro il tempo per sventare un complotto che, se andasse a buon fine, potrebbe portare nelle mani dei sovietici un’antica e pericolosa arma, risalente all’epoca degli dèi e dei faraoni…
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Henry Walton Jones Jr., Nuovo personaggio, Sallah el-Kahir
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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    9 - IL COLOSSO DI ABU SIMBEL

   Mentre Sallah e i suoi figli, dietro indicazione dell’archeologo, si davano da fare per trovare alcuni operai fedeli che avrebbero potuto assisterli nella loro ricerca, Indy raggiunse il versante superiore della parete rocciosa che digradava verso il grande sito di Abu Simbel. Dopo aver distolto lo sguardo dalla strada che saliva verso di lui, lungo la quale, in quel momento, stava camminando un solitario uomo gigantesco, concentrò la sua attenzione sull’imponente cantiere, una quarantina di metri più in basso.
   L’attività ferveva. Le ruspe scavavano incessantemente, riempiendo i cassoni dei camion. Le gru spostavano i carichi più pesanti da un punto all’altro. Muratori e tagliatori di pietra si muovevano veloci come formiche industriose, diretti da vocianti ingegneri che, con le mani impegnate da strumenti di misurazione, cambiavano di continuo i loro calcoli. Dalla parte del fiume, altri uomini erano indaffarati a sollevare dei robusti terrapieni per contenere momentaneamente le acque del Nilo, che crescevano di giorno in giorno. Gli archeologi, preoccupati, facevano la spola in avanti e in dietro verso ogni singolo reperto, per accertarsi che nulla fosse stato danneggiato. In un certo senso, era come se, dopo interi millenni di silenzio, tutta quella zona fosse rinata a nuova vita.
   Indy sapeva bene che, quella, era soltanto la parte preliminare dell’opera. La più delicata e importante avrebbe avuto inizio non appena le grandi facciate, e poi gli interni dei templi rupestri, fossero stati tagliati in numerosi blocchi per essere trasportati più in alto, dove già si stava approntando l’immensa struttura di cemento e acciaio in cui, si sperava, i colossi di Ramses II – e con loro tutta la gloriosa storia dell’Egitto – sarebbero stati ammirati in eterno, finalmente in pace.
   In quel momento – pur consapevole di star assistendo a un importantissimo avvenimento di portata storica, nonché a un’impresa archeologica senza precedenti – a Jones non interessava tanto il lavoro nel cantiere, quanto invece ciò che vi stava avvenendo di nascosto. I suoi occhi attenti seguirono diversi operai, scartando quelli che non gli interessavano. Cercava segni di nervosismo, tracce che potessero indicare attività illecite, movimenti sospetti.
   Un uomo attrasse la sua attenzione. Lo vide gettarsi attorno occhiate furtive e, all’improvviso, abbandonare la pala con cui stava scavando e dirigersi verso un recesso nascosto, all’ombra di un mucchio di terra e di detriti. Indy si spostò con cautela lungo il crinale, senza perderlo d’occhio. Lo guardò mentre aggirava il piccolo tumulo, saltellando sui piedi. Finalmente, l’uomo abbassò la cerniera dei pantaloni ed espletò i suoi bisogni fisiologici, con il volto attraversato da un’espressione di sollievo riconoscibile anche a tanta distanza. Un falso allarme. Doveva cercare qualcosa di meglio.
   Lo sguardo dell’archeologo tornò a vagare sul cantiere. Riconobbe Sallah – che, dietro ordine perentorio di Moshti, aveva ripreso abiti maschili, anche se gli era stato concesso di indossare una grande kefiah per mascherare i propri tratti e non essere riconosciuto – mentre confabulava con un uomo barbuto, che annuiva a ogni sua parola. Poco più in là, i suoi figli Moshti e Yasmin erano fermi accanto ad altri tre uomini, tutti molto seri. Perlomeno, la squadra che si sarebbe dovuta occupare dello scavo si stava formando. Stava a Indy, adesso, raddoppiare gli sforzi per scoprire dove, di preciso, avrebbero dovuto scavare.
   Stava quasi per rassegnarsi a discendere a sua volta nel cantiere per osservare le cose più da vicino, quando un gruppo di uomini attirò il suo interesse. Erano vestiti come gli egiziani, con lunghi abiti e con turbanti, ma parevano a disagio e si muovevano piuttosto goffamente, come se non fossero affatto abituati a indossare quel genere di capi d’abbigliamento. Inoltre, la maggior parte di loro aveva volti troppo pallidi, o arrossati dal forte sole nubiano, per poter essere davvero scambiati per arabi.
   «Russi» grugnì tra sé e sé, seguendoli con lo sguardo.
   Davanti a loro, molto più sicuro degli altri ed evidentemente giù uso a indossare abiti di simile foggia, camminava un uomo dal passo rapido e deciso. Aveva un volto tondo, paffuto e giovale, che si distingueva facilmente anche a quella grande distanza. Non gli ci volle che un istante per riconoscerlo: era Smolnikov, l’archeologo sovietico.
   «E ora fatemi vedere che cosa state facendo, amici miei…» borbottò Indy.
   Il gruppo di uomini si fece largo attraverso gli altri operai. Nessuno gli badò. Soltanto un ingegnere, voltandosi all’improvviso, indicò qualcosa a Smolnikov, che parve annuire. Poi, però, quando il responsabile si fu girato di nuovo, l’archeologo fece un cenno perentorio ai suoi uomini, perché si affrettassero ad allontanarsi da lì. Indy li vide dirigersi verso l’ingresso del tempio maggiore di Abu Simbel e…
   Un urto violento lo colpì nella schiena, spingendolo in avanti. Sbilanciato, l’archeologo rischiò di cadere di sotto, ma una mano lo afferrò strettamente per la spalla e, dopo averlo sollevato di peso come se fosse stato un fuscello, lo scaraventò nella direzione opposta.
   Indy piombò pesantemente sul terreno ghiaioso, sbucciandosi i palmi delle mani e ferendosi le ginocchia.
   Alzò la testa per cercare di capire che cosa stesse succedendo, ma vide soltanto una massa immane torreggiare su di lui, prima che un pugno gli calasse a martello sulla testa. Di nuovo, Jones si sentì schiacciare a terra e, per la seconda volta in pochi istanti, provò la sensazione di essere stato percosso da un maglio.
   Stordito, con scintille che gli lampeggiavano impazzite davanti allo sguardo, riconobbe l’imponente energumeno che, poco prima, aveva notato mentre risaliva nella sua direzione. Quello non gli diede il tempo di riflettere oltre, colpendolo con un pesante calcio al fianco sinistro.
   Rotolando nella sabbia, stringendo i denti per non urlare dal dolore, l’archeologo cercò di mettersi fuori portata dall’aggressione di quell’essere mostruoso, ma il gigante non gli diede tregua, continuando a sferrargli calci.
   Quando provò a rimettersi in piedi per poter reagire a quella scarica di colpi che lo stavano massacrando, Indy si sentì nuovamente sollevare e, con i piedi a penzoloni, si trovò faccia a faccia con il volto di quella specie di distruttore. Senza attendere oltre, gli mollò una craniata contro il naso e, al contempo, gli sferrò una ginocchiata all’inguine. Fu come se gli avesse regalato soltanto una carezza.
   Restando impassibile, l’uomo lo lasciò andare e, prima che toccasse terra, lo colpì con un violento pugno in pieno viso, facendolo volare all’indietro. Indy crollò nuovamente al solo, battendo rudemente il gomito sinistro contro una pietra. La fitta dolorosa che ne seguì lo attraversò da parte a parte.
   A quel punto, il mostro infilò la mano nella tasca dei pantaloni e ne estrasse un grosso martello. Lo sollevò in alto e lo abbassò con estrema violenza contro l’archeologo. Jones assistette a quella scena come se la stesse vedendo al rallentatore. Si rese conto in meno di una frazione di secondo che, se fosse stato raggiunto da quell’arma improvvisata, si sarebbe ritrovato con la testa spappolata oppure con la cassa toracica sfondata. Una prospettiva che non gli piaceva molto.
   Con un movimento repentino, dettato più dalla disperazione che dalle reali forze di cui disponeva, Indy si scansò, mettendosi fuori portata. Il martello, ormai avviato nella sua corsa omicida, fendette l’aria e colpì la pietra contro cui era rimasto appoggiato fino a quel momento, frantumandola.
   «Cristo santo…» imprecò Indy, balzando in piedi.
   Se avesse potuto, avrebbe messo mano al revolver e avrebbe donato a quella belva un confetto di piombo bollente in mezzo agli occhi. Purtroppo, aveva commesso l’imperdonabile leggerezza di non ricaricare l’arma, dopo che aveva utilizzato tutti i colpi nella rissa davanti al tempio di Nefertari.
   Tentò allora di afferrare la frusta, ma quel mostro di muscoli, al di là delle apparenze dovute alla stazza, era persino agilissimo. Con un solo balzo gli fu accanto e lo colpì con un manrovescio al mento, sbilanciandolo all’indietro. Ancora una volta, Jones incespicò, rischiando di cadere. Tuttavia, questa volta riuscì a non perdere l’equilibrio e, quindi, fece la sola cosa che gli restava da fare: scappare.
   Girate le spalle al mostro, cominciò a correre in direzione della casa di Murad, sperando di poter trovare là dentro qualcosa con cui difendersi. Una specie di terremoto che risuonò dietro di lui gli comunicò che il suo aggressore non aveva nessuna intenzione di arrendersi e lo stava inseguendo.
   Ansante, pieno di dolori, coperto di sabbia e di sudore, sanguinando da più parti, Indiana Jones riuscì a guadagnare la porta della casa di Murad. Quando si fermò per aprirla, si sentì raggiungere da un nuovo colpo alla schiena. Un altro sasso rimbalzò accanto a lui. Quel demonio aveva raccolto delle pietre e lo stava prendendo a sassate!
   Senza fermarsi a sottolineare quanto quel combattimento fosse sleale, Indy si precipitò dentro. Si guardò in giro in maniera concitata, cercando qualcosa di utile per affrontare quella bestia. Non notò nulla che facesse al caso suo, quindi si diresse in direzione della cucina, sperando che, almeno lì, potesse esserci qualcosa in grado di tramutarsi in un’arma.
   Entrato nel locale, vi trovò Murad, chino sopra una pentola di olio bollente in cui aveva immerso delle frittelle di farina. L’amico di Sallah gli voltava le spalle e non parve accorgersi del suo ingresso. Jones, che in vita sua non aveva mai incontrato nessuno tanto sordo, stava quasi per richiamare la sua attenzione, quando il mostruoso gigante lo raggiunse.
   Lo afferrò alla base del collo, lo staccò dal pavimento e gli mollò un paio di ceffoni al viso. Questa volta, deciso a tutto, Indy reagì colpendolo con rapida sequela di pugni al volto, spaccandogli il naso e le labbra. Persino la pelle di quel demonio era dura, tanto che sentì le nocche lacerarsi. Restando impassibile, l’immenso uomo gli piazzò un pugno potentissimo, scaraventandolo contro i fornelli. Murad, che si era appena allontanato canticchiando tra sé per andare a recuperare qualcosa dalla dispensa, non si accorse proprio di nulla.
   Indy cercò di rialzarsi. Vide che il mostro veniva verso di lui, implacabile, e quindi gli fece cenno con la mano perché gli concedesse un istante di tregua. Quello, indifferente, continuò a farsi avanti, scansando con una manata il tavolo della cucina, che si ribaltò con un frastuono assordante, rovesciando al suolo stoviglie, bicchieri e tutte le frittelle che Murad ci aveva appoggiato sopra a raffreddare.
   «Ehi, quelle dovevano essere davvero buone…» commentò Indy.
   Quella vista, unita all’odore dell’olio bollente che gli giunse alle narici, gli diede comunque l’idea improvvisa.
   Balzato in piedi con un vigore che sorprese persino il suo avversario, oltre che lui stesso, cercò con le mani le presine abbandonate sul pianale da lavoro. Quindi, stringendole, afferrò la pentola d’olio e, con un solo e fluido movimento, la scagliò contro il mostro.
   Il pentolone compì un arco perfetto nell’aria, prima di finire contro l’energumeno e rovesciargli addosso tutto il suo contenuto.
   Nell’aria si diffuse un odore ripugnante mentre il mostro di muscoli, emettendo grida inumane, si schiantava con pesantezza a terra, dove restò a contorcersi su se stesso in una maniera raccapricciante. L’olio bollente gli si appiccicò alla pelle, ustionandola completamente. Il fumo si innalzò da ogni parte del suo corpo, come se stesse per andare a fuoco.
   Indy lo osservò inorridito. Anche se aveva agito per puro istinto di sopravvivenza, non poté restare indifferente dinnanzi a uno spettacolo tanto orrendo. Si guardò attorno, alla ricerca di qualcosa che potesse servirgli ad aiutare quel disgraziato. Accanto all’acquaio, notò un secchio pieno d’acqua.
   Con uno scatto, si precipitò ad afferrarlo. Fece un po’ di fatica a sollevarlo, a causa delle braccia indolenzite. Poi, con una mossa flessuosa, lo rovesciò addosso al disgraziato energumeno. Fu una scelta decisamente sbagliata, anche se l’archeologo se ne rese conto troppo tardi.
   L’acqua, infatti, al contatto con l’olio bollente, evaporò e schizzò da tutte le parti, provocando piaghe ancora più profonde e orribili nella carne del mostro. Il quale, però, come se si fosse improvvisamente rianimato, balzò in piedi e si avventò come una furia contro Indy, prendendolo a pugni con entrambe le mani. Forse a causa del dolore e della disperazione, la sua energia pareva quasi raddoppiata rispetto a prima.
   Colto alla sprovvista da quel nuovo attacco che non si aspettava di ricevere, Jones dovette rassegnarsi a venire colpito al petto, allo stomaco e al viso ripetutamente, prima di poter a sua volta fare qualcosa. Con la mano sinistra bloccò l’ennesimo pugno che gli stava arrivando addosso, afferrando il polso del gigante. Poi, con la destra, lo colpì ripetutamente al viso.
   La bestia incassò ogni colpo come se non fosse neppure stato sfiorato. Quindi, con una testata alla trachea, mise al tappeto l’americano, che si accasciò tossendo e ansimando. Prima ancora di toccare terra, tuttavia, Indy si sentì afferrare, sollevare in alto per l’ennesima volta e lanciare come un proiettile verso la finestra, che era chiusa da ante a grata che lasciavano filtrare poca luce.
   Con un volo tremendo, Jones investì la finestra, la sfondò completamente e si trovò steso al suolo all’esterno della casa.
   «Porca miseria…» imprecò, cercando di districarsi dai frammenti di legno.
    Alzò lo sguardo e, con sgomento, vide che il suo avversario si stava arrampicando fuori da ciò che restava della finestra, per poterlo raggiungere di nuovo. Fu una visione davvero orripilante: il mostro, lucido di olio bollente, emanava fumo e la sua carne, da cui la pelle si stava staccando a larghi lembi, era rossiccia e riarsa. Eppure, chissà in che maniera, era ancora sufficientemente vitale da non volersi arrendere.
   Approfittando del momentaneo vantaggio – l’energumeno stava trovando qualche difficoltà a passare attraverso lo stretto vano – Indy lanciò rapide occhiate tutto attorno in cerca di aiuto. Appoggiato al tronco dell’unica palma che ornava il disadorno giardino di Murad, notò un grosso e pesante badile arrugginito.
   Subito, l’archeologo si alzò, avviandosi in fretta verso l’albero. Inciampò nei propri piedi ancora insicuri, rischiando di cadere, ma riuscì a mantenere l’equilibrio. Le sue mani si strinsero attorno al manico del badile nell’esatto momento in cui il suo mostruoso nemico, riuscito a uscire dalla casa, gli si avventava addosso, caricando a testa bassa come un toro infuriato.
   Con un movimento rapido e deciso, Indy girò su se stesso e colpì con una fortissima badilata la testa del colosso. Si udì un rumore sordo e, come un titano abbattuto, l’essere mostruoso si rovesciò all’indietro, crollando a braccia spalancate nella sabbia, con il sangue che usciva da una profonda ferita nella parte superiore del cranio.
   Respirando veloce, le mani strette attorno al manico del badile in posizione di difesa per essere pronto a un nuovo attacco, Jones gli si avvicinò guardingo. Lo osservò per qualche istante. Pareva proprio morto.
   «Maledetto… me ne hai dato, di filo da torcere» grugnì finalmente l’archeologo, lasciando andare il badile.
   Fu una leggerezza madornale.
   Come rianimatasi all’improvviso, la montagna di muscoli scattò a sedere e, afferrato il manico del badile prima ancora che toccasse terra, lo saettò come una spada, fendendo l’aria nel tentativo di colpire le caviglie di Indy. L’archeologo, spostandosi all’indietro con un veloce balzo, evitò appena in tempo quell’ennesimo attacco, ma con suo sommo orrore non poté fare altro, perché il mostro si alzò con agilità e, tenendo la pala alta sopra la testa come una clava, gli si avventò addosso, deciso a farla finita una volta per tutte.
   Jones, che non riusciva a credere ai propri occhi, si sentì invadere dal terrore più puro e, per la seconda, girò le spalle all’avversario e si diede alla fuga, arrancando lungo il terreno sabbioso. Esattamente come accaduto prima, il rumore di passi pesantissimi, che facevano tremare e rimbombare il terreno, e una serie di rauchi respiri, gli comunicarono che quel bestione non era affatto intenzionato a mollare.
   Di rado, in vita sua, Indiana Jones aveva avuto paura. Anche di fronte alle situazioni più spinose e intricate, aveva sempre mantenuto il suo sangue freddo e le aveva affrontate con ironia, consapevole che, al massimo, se proprio gli fosse andata male, sarebbe morto e non avrebbe avuto più alcunché di cui preoccuparsi. Forse soltanto i serpenti erano riusciti a fargli provare qualche brivido.
   Stavolta, però, iniziava a essere davvero terrificato. Di mostri muscolosi che parevano fatti di pietra e acciaio ne aveva pestati parecchi, spesso con parecchia fatica, ma non ricordava di averne mai visto uno che fosse addirittura immortale, capace di resistere a ustioni che avrebbero ucciso chiunque altro e a lesioni del cranio che, a persone normali, non avrebbero lasciato alcuno scampo.
   Continuando a correre, Indy superò una svolta della strada e, in lontananza di fronte a sé, vide il grande cantiere in cui si stava realizzando la struttura che avrebbe ospitato il tempio di Ramses una volta smontato e ricostruito. Chiedendo al proprio fisico un ultimo sforzo, accelerò la corsa e si avviò in quella direzione, sperando di poter trovare aiuto. Il mostro, però, non gli diede tregua, continuando a tallonarlo, come se non avvertisse in alcun modo la fatica o la sofferenza.
   Con il cuore in gola e il fiato corto, l’americano superò le reti di protezione che cingevano l’area e si guardò attorno. Il cantiere, in quel momento, sembrava essere deserto. Probabilmente, essendo ormai ora di pranzo, gli operai si erano ritirati per andare a mangiare. Una grossa scavatrice cingolata era ferma accanto a una montagnola di detriti e, per un istante, Indy valutò l’idea di salirci e utilizzarla per schiacciare il suo persecutore. Dovette scartare l’idea quando si rese conto che il mostro gli era già addosso, mulinando il badile come una sciabola.
   Si abbassò appena in tempo per evitare il nuovo attacco. La pala lo sfiorò, fischiandogli pericolosamente vicino all’orecchio, e Indy, non sapendo che cos’altro fare, ricominciò a correre. L’energumeno, però, stufo di quella fuga continua, scagliò in avanti la sua arma, colpendolo con violenza alla schiena.
   Dolorante e senza fiato, Jones stramazzò al suolo, rotolando tra sabbia, terra e frammenti di roccia. Un rumore sordo e un ringhio simile a quello di una bestia selvaggia lo informarono che il suo assalitore era già sopra di lui.
   «Dannazione…!» imprecò Indy quando quello, afferratolo sotto l’ascella, lo sollevò di peso dal terreno, per poi colpirlo con un pugno al collo e rispedirlo in terra.
   Il mostro cercò di ghermirlo un’altra volta e ripetere tutta l’operazione. Questa volta, però, l’archeologo strinse la mano attorno a una manciata di terriccio e, voltatosi all’improvviso, glielo scagliò negli occhi, guadagnando così qualche istante per trascinarsi sulle ginocchia e mettersi fuori portata.
   Mentre il marcantonio brancolava alla cieca, una mano protesa in avanti e l’altra che sfregava gli occhi nel tentativo di liberarli dalla terra, Indy prese la rincorsa e, in pochi passi, raggiunse l’immensa impalcatura a forma di gabbia metallica che, un giorno, sarebbe servita come scheletro interno della futura struttura templare.
   Non sapendo più a quale santo votarsi, dopo essersi gettato un’occhiata disperata alle spalle e aver scorto il gigante che riprendeva a inseguirlo, iniziò ad arrampicarsi, sperando che questo bastasse a mantenersi fuori portata.
   Non bastò.
   Come se non avesse avuto neppure il più piccolo graffio sul corpo, anche quel prodigioso mostro cominciò ad arrampicarsi lungo le impalcature, usando i travi metallici per sostenersi. Il suono dell’acciaio percosso dalle sue manate si propagò nell’aria con una vibrazione acuta. Indy, con suo sommo raccapriccio, scoprì che saliva veloce e agile come una scimmia, al contrario di lui, che stava facendo parecchia fatica a guadagnare metri. Quella schifezza umana doveva essere una specie di prodigio della scienza: poteva soltanto sperare di avere la possibilità di tramutarlo al più presto in un cadavere da donare a qualche laboratorio perché lo analizzasse e scoprisse come fosse fatto di preciso.
   Il colosso lo aveva già raggiunto e, tenendosi aggrappato con una mano a un tondino di metallo, cercò con l’altra di afferrargli la caviglia per poterlo strattonare. L’archeologo ritrasse appena in tempo il piede e, subito dopo, lo calò con rabbia contro le dita del mostro, strappandogli un uggiolio di dolore. Approfittando del momentaneo vantaggio, Indy diede un’altra pedata al nemico, questa volta sul naso, da cui sgorgò una lunga scia di sangue.
   «Muori, maledetto, muori…!» imprecò Indy, che iniziava a non avere più forze sufficienti per reagire.
   Ma la bestia, come se non avesse sentito proprio nulla, questa volta riuscì a catturargli lo stinco nella propria presa ferrea, tirando verso il basso. Jones, con uno sforzo incredibile, stringendo i denti e contraendo il viso in una smorfia, si afferrò più saldamente all’impalcatura e cercò di opporre resistenza. Il gigante lo stava strattonando così forte che temeva che, da un momento all’altro, gli avrebbe strappato la gamba. Inoltre, lo teneva talmente stretto che cominciava a perdere sensibilità all’arto.
   Doveva fare qualcosa, o sarebbe stata la sua fine.
   Con sforzo sovraumano, riuscì a sollevare il ginocchio e ad abbattere di nuovo la gamba verso il basso, costringendo l’energumeno a lasciarlo andare. Dopo avergli rifilato un forte calcio nella tempia, che però non bastò a indurlo a lasciar perdere, ricominciò a inerpicarsi lungo la struttura.
   L’archeologo continuò a salire, senza fermarsi né guardarsi attorno, sempre più in alto. Infine, quasi incredulo di esserci riuscito, raggiunse il vertice della struttura a forma di arco, a oltre trenta di metri di altezza dal suolo. Intravista un’impalcatura che gli avrebbe permesso di alzarsi in piedi, Jones si trascinò lungo la gabbia metallica, cercando di raggiungerla.
   Il suo tenace persecutore, però, non si diede per vinto, ripetendo ogni suo gesto nel tentativo di farsi più vicino e poterlo afferrare di nuovo. Indy, ormai, non riusciva a comprendere chi dei due fosse più ostinato, se il mostro nel volerlo uccidere o lui nel volersi sottrarre ai suoi generosi tentativi di omicidio. Decise che la sua personale ostinazione gli andava molto più a genio di quella del suo affezionato mostriciattolo.
   Finalmente, le mani dell’archeologo si strinsero attorno alla polverosa e instabile asse di legno che, in pratica, era la sola piattaforma che si trovasse a quell’altezza. Con un ultimo sforzo, si sollevò, vi salì stando in ginocchio e, subito, si alzò in piedi. Cercando di non badare al fatto che potesse disporre, per muoversi, di uno spazio largo una cinquantina di centimetri, sui due lati del quale si apriva un precipizio di oltre trenta metri, Indy mise mano alla frusta e si preparò a cominciare quella che, lo sperava, sarebbe stata la sua ultima manche contro il colosso. Gettò soltanto una breve occhiata al sottostante cantiere. Là sotto, ai piedi dell’immensa struttura in gabbia di ferro, scavatrici e furgoni sembravano i modellini di un plastico ferroviario.
   La testa ustionata e sanguinante del mostro fece capolino dal limitare dell’asse, entrambe le mani strette attorno al legno. Il suo sguardo pieno di odio e di rabbia fiammeggiò in direzione dell’archeologo che, malgrado tutto, riuscì a trovare il coraggio per atteggiare la labbra a un sogghigno ironico.
   «Non pensi che, invece di picchiarci in questa maniera, avremmo potuto andare in un bar e berci qualcosa in compagnia?» lo apostrofò, sarcastico.
   Poi, senza aspettare la risposta, tenendo una gamba in avanti e una indietro e il braccio sinistro sollevato verso l’esterno per mantenersi in equilibrio, Indy fece partire un colpo di frusta. Il nerbo, saettato con la solita agile eleganza, schioccò sonoramente e andò a colpire il volto del mostro. Il quale, però pur contraendo la faccia in una smorfia orrenda, continuò a salire.
   Incapace di credere a ciò che stava vedendo, Indy alzò un’altra volta il braccio armato e colpì di nuovo. Questa volta la frusta raggiunse con precisione l’occhio destro dell’energumeno, spappolandolo. Come se non fosse accaduto assolutamente nulla, il gigante diede una manata all’asse, piegandola verso di sé.
   Perso il proprio precario equilibrio, Indy cadde in ginocchio e si piegò in avanti, trovandosi ad abbracciare il legno per non cadere. Riuscì comunque a mantenere la presa sulla frusta e, appena vide che il mostro era salito sull’asse, sollevò il braccio e la scoccò in avanti, avvolgendogliela attorno alle ginocchia. A quel punto diede uno strattone, cercando di farlo cadere.
   Ma, ancora una volta, l’energumeno riuscì a sorprenderlo. Afferrato il nerbo, lo tirò verso di sé, con tale forza che Indy si sentì scottare il palmo della mano. Fu costretto a lasciarlo andare e il mostro, dopo essersi liberato le gambe, lo gettò via.
   Mentre lo faceva, Jones cercò di rialzarsi, preparandosi a sostenere quello che, lo sospettava, sarebbe stato il suo ultimo scontro. Dinnanzi agli occhi gli passò l’immagine di Marion, la sua amata moglie, e disse a se stesso che, forse, avrebbe fatto mille volte meglio ad andare da lei, piuttosto che partire per l’Egitto senza dirle nulla.
   Si sollevò, ancora piegato in due, ma un pugno del mostro lo raggiunse sopra la testa prima ancora che avesse potuto mettersi dritto. Il colpo fu duro e pesante; eppure, in qualche maniera, l’archeologo riuscì a incassarlo senza sbilanciarsi, aiutato anche dal cappello che attutì l’impatto. Il secondo e repentino attacco, che avvenne immediatamente dopo, invece, lo colse completamente di sorpresa e, questa volta, non poté fare nulla per evitarlo.
   Il colosso, infatti, lo colpì con una manata al fianco e lo spinse di lato. Indy si sentì mancare la solidità dell’asse da sotto i piedi e scoprì con orrore di stare precipitando. In un ultimo impeto di freddezza, riuscì ad allungare le braccia per stringersi attorno ai travi della gabbia.
   Fu come ricevere una scarica elettrica. Quando si appese, il dolore gli si propagò attraverso tutti i nervi, facendogli provare un crampo immane che, partendo dai polsi, gli attraversò il corpo da parte a parte, mozzandogli il fiato. In compenso, era ancora vivo e, soprattutto, non stava più cadendo di sotto. Cercando di ignorare la sofferenza che stava patendo, sollevò lo sguardo, per cercare di capire dove fosse finito il suo nemico.
   Lo vide, ributtante e disgustoso, in piedi sull’asse, soltanto pochi centimetri sopra di lui. Gli era parso di precipitare per decine di metri, mentre invece non era caduto che per pochissimo. Perlomeno, il suo nemico adesso non era in vantaggio; al contrario, Indy avrebbe potuto approfittare di quel momentaneo distacco per cercare di ridiscendere in fretta dall’impalcatura. Tuttavia, il colosso non parve affatto d’accordo con lui.
   Afferrato un lungo spuntone metallico che sporgeva dalla gabbia, lo strattonò un paio di volte fino a riuscire a divellerlo dalla sua sede. Indy sbarrò gli occhi. Non aveva mai visto nessuno riuscire a maneggiare l’acciaio come se fosse stato burro.
   Il suo stupore, però, lasciò il passo al terrore quando il mostro, sollevata la sbarra, la calò con forza verso di lui. Il colpo cadde a pochi centimetri dalle sue dita, mancandole di pochissimo e sollevando scintille che volarono dappertutto. Il colosso sollevò di nuovo il pezzo d’acciaio, pronto a colpirlo di nuovo, e Jones intuì che, questa volta, non avrebbe sbagliato la mira.
   Mosso più dalla forza della disperazione che dalle vere – e sempre più scarse – energie che abitavano il suo corpo, Indy staccò la mano destra dall’impalcatura e, continuando a mantenersi aggrappato con la sinistra, la strinse attorno al bordo dell’asse. Poi, a costo di farsi venire un’altra ernia in aggiunta a quella che già aveva nella schiena, fece leva con tutta la forza che gli rimaneva. In aggiunta a quella, vi si spinse contro anche con la spalla, mettendo ogni residua stilla di vigore in quell’operazione disperata.
   Il pezzo di legno, dapprima, non parve smuoversi. Poi, però, a poco a poco, cedette, fino a staccarsi con uno schianto secco dal supporto a cui era stato fissato. Sotto la sua spinta vigorosa, l’asse si ribaltò all’indietro.
   Per la prima volta, sul volto del mostro comparve l’ombra della paura. Lasciata andare la sbarra di metallo, agitò le braccia in alto e in avanti, nell’inutile tentativo di trovare qualche supporto a cui afferrarsi per non cadere. Fu una ricerca vana e le sue dita si strinsero attorno al nulla.
   Senza lasciarsi intenerire da quella visione, Jones continuò a spingere, finché l’asse cedette del tutto, capovolgendosi all’indietro e precipitando verso il suolo, trascinando con sé il proprio occupante. Per un breve istante, anche l’archeologo, spinto in avanti dalla forza cinetica, temette di cadere, ma riuscì appena in tempo ad afferrarsi alla gabbia, tenendosi stretto.
   Per il suo immane nemico, invece, andò molto peggio.
   Con un grido spaventoso, agitandosi tutto nell’angosciosa ricerca di un appiglio che non esisteva, il mostro precipitò verso il basso. Il suo volo parve durare un’eternità, mentre invece impiegò soltanto tre secondi a raggiungere il suolo. Impattò di testa, con la velocità di un proiettile, e il cranio gli si incassò completamente nella cassa toracica. Il suo corpo tremò ancora per un brevissimo istante, poi restò immobile, circondato da una pozza di sangue vischioso che scompariva in fretta nel terreno riarso e ghiaioso del cantiere.
   Indy distolse lo sguardo per non vedere quello spettacolo raccapricciante. Poi, senza perdere altro tempo, cominciò a discendere la gabbia di metallo, provando a ignorare tutti i crampi che gli attraversavano a ondate il corpo.

 
* * *

   Boris e Oleg, nascosti dietro un cumulo di terriccio, osservarono con immenso stupore l’archeologo che, dopo essere ridisceso a terra e aver recuperato la sua frusta, si allontanava a passi lenti dal cantiere. Poi il loro sguardo incredulo corse all’orribile visione del cadavere di Adham, il colosso a cui avevano affidato la perfetta riuscita del loro piano.
   «Non è andata come pensavamo…» borbottò Oleg, grattandosi la testa.
   «Quell’americano deve avere il diavolo dalla sua parte, non c’è altra spiegazione» commentò Boris, mettendo per una volta da parte l’ateismo a cui era obbligato dal Partito.
   Oleg guardò Jones che, proprio in quel momento, aveva raggiunto l’uscita del cantiere.
   «Potremmo occuparcene noi…» propose, seppure titubante. «In questo momento sembra abbastanza vulnerabile… se lo cogliessimo di sorpresa, forse…»
   Boris guardò l’archeologo, che effettivamente zoppicava ed era parecchio curvo, e valutò la proposta del collega; poi, però, il suo sguardo tornò di nuovo all’orribile visione del cadavere di Adham e provò a immaginare di esserci lui, al posto del colosso che avevano ingaggiato. Decisamente, non aveva nessuna voglia di mettere di nuovo alla prova Indiana Jones e scoprire di persona se avesse ancora qualche asso nella manica.
   «No» disse, cercando di mascherare la propria paura sotto un tono secco e autoritario. «La sua morte non deve essere collegata in nessun modo a noi, neppure per un minimo sospetto. Non possiamo agire di persona contro di lui.»
   Oleg tornò a respirare, sollevato. Neppure lui, in fondo, aveva molta curiosità di scoprire di che cosa ancora fosse capace quel coriaceo americano.
   «Allora, che cosa facciamo?» domandò.
   Il collega scosse il capo.
   «Non lo so, ancora. Ma qualcosa dovremo inventarci, e anche in fretta, oppure questa volta il compagno colonnello ci spedirà sul serio, in Siberia…»


 
   
 
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