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Autore: IndianaJones25    25/01/2022    1 recensioni
Di ritorno da una disavventura in Australia, Indiana Jones scopre che il suo vecchio amico Sallah si è volatilizzato, senza lasciare tracce.
Indy decide allora di partire verso l’Egitto meridionale, dove è in corso una delle più grandi imprese archeologiche del Novecento, per poter rintracciare il suo amico scomparso. Ancora non sa che questo lo condurrà nell’ennesima sfida contro il tempo per sventare un complotto che, se andasse a buon fine, potrebbe portare nelle mani dei sovietici un’antica e pericolosa arma, risalente all’epoca degli dèi e dei faraoni…
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Henry Walton Jones Jr., Nuovo personaggio, Sallah el-Kahir
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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    10 - INTERROGATORIO

   «Ma si può sapere che cosa è successo?» domandò Sallah, guardandosi attorno nella cucina distrutta.
   Quando lui, Moshti e Yasmin erano rientrati, avevano trovato la casa in quelle condizioni. Murad, sconsolato, stava inchiodando con delle assi la finestra distrutta; Indy, che si era tolto giubbotto e camicia, era invece stravaccato a torso nudo sopra un divano, le mani malmesse occupate da un involto pieno di ghiaccio che cercava di passarsi sopra lividi ed escoriazioni.
   «Te l’ho detto, uno dei colossi di Ramses si è svegliato e ha deciso di venire a fare pugni con me…» borbottò Jones, cercando di comprimersi con il ghiaccio la spalla indolenzita.
   «Oh, zio Indy, aspetta, lascia che ti aiuti…» sussurrò Yasmin, intenerita.
   Gli si avvicinò e, strappatogli di mano l’impacco, cominciò a tamponarlo. Indy emise un gemito doloroso quando lei gli sfiorò un graffio particolarmente profondo.
   «Uhi… ferma…» si lamentò, cercando di sottrarsi alle sue cure non richieste. «Ahi… aspetta… faccio io… non ho bisogno di un’infermiera…»
   «Non fare il bambino e stai buono» ordinò Yasmin con tono pungente, continuando a passargli sulla pelle malconcia il fazzoletto freddo.
   Rassegnato, l’archeologo la lasciò fare. Lanciò un’occhiata a Sallah, che si era messo a sedere sopra una sedia girata, con braccia e testa appoggiate allo schienale. Moshti gli era a fianco e guardava con un sorrisetto la sorella.
   «Allora, avete trovato qualcuno che possa aiutarci?» borbottò.
   Strinse i denti e contenne a stento un nuovo gemito quando la ragazza gli scoprì un nuovo livido quasi alla base della schiena.
   «Sì, certo, Indy: ho messo insieme una squadra che fa al caso nostro…» replicò Sallah. «Tutta gente fidata, con cui ho già collaborato varie volte in passato…» Lo osservò preoccupato. «Ma mi vuoi dire cosa è accaduto? Chi ti ha ridotto in quelle condizioni?»
   Indy fece un sorrisetto, subito sostituito da una smorfia quando Yasmin, senza perdersi in troppe cerimonie, gli posò il ghiaccio sopra una grossa ecchimosi al di sotto del braccio sinistro.
   «Te l’ho detto, è stato un colosso…»
   Quindi, riassumendo in fretta, raccontò tutto ciò gli era capitato.
   «Due attacchi che sarebbero potuti essere mortali nel giro di una sola mattina mi paiono un po’ troppi» concluse. «Evidentemente, qualcuno non ha gradito il mio arrivo qui ad Abu Simbel e sta agendo in fretta e furia per togliermi di mezzo.»
   Moshti si passò una mano sui baffi.
   «Pensi che possano essere i russi, zio Indy?» domandò.
   L’archeologo si strinse nelle spalle.
   «E chi altro, se no?» brontolò. «Avranno saputo che sono qui e probabilmente si sono spaventati. Avranno creduto che fossi qui per mettergli i bastoni tra le ruote. E, questo, ci fa capire una cosa: quella che hai sentito, Sallah, è una storia vera. I sovietici stanno davvero cercando il carro di Ramses, e lo vogliono al punto da essere pronti a sbarazzarsi di chiunque potrebbe essere loro d’intralcio.»
   Si alzò in piedi con un grugnito.
   «Non ho ancora finito!» lo richiamò Yasmin, guardandolo storto.
   L’archeologo le batté una mano sulla spalla.
   «Non importa, ci penseremo più tardi» rispose. «Ora dobbiamo darci da fare e passare al contrattacco. I russi non si arrenderanno e studieranno di sicuro un altro sistema per togliermi di mezzo, magari anche più sottile e meno pericoloso di quelli a cui sono ricorsi finora. E noi dobbiamo sbrigarci ad anticiparli prima che facciano qualcosa come rivolgersi al governo egiziano per chiedergli di caricarmi sopra un aereo e rispedirmi in America.»
   Indy afferrò la camicia che aveva buttato sopra lo schienale del divano e se la infilò.
   «Cos’hai in mente?» domandò Sallah, guardandolo mentre l’abbottonava.
   «Qualcosa che loro non si aspettano che io possa fare» replicò Indiana Jones.

 
* * *

   I colossi di Ramses II, con le teste cinte della corona che simboleggiava l’unione dell’Alto e del Basso Egitto, sorridevano immobili e ieratici all’oriente, con gli occhi rivolti ogni mattina al sole nascente, sebbene in quel periodo non potessero vedere in totale libertà il levarsi del sole a causa delle impalcature che gli coprivano gli occhi. Sul frontone del tempio, al di sopra delle imponenti sculture, una lunga serie di babbuini, uno per ciascuna provincia dell’antico Egitto, attendeva da millenni il medesimo momento, che si sarebbe ripetuto in eterno, fino alla fine del mondo. Ai lati dei colossi torreggiavano le statue di Nefertari e di Tuia, la moglie e la madre del sovrano, le sue donne più amate e rispettate; mentre, tra le loro gambe, facevano capolino i ritratti di quattro dei numerosi figli di Ramses. Sopra il portale d’ingresso, in una nicchia scavata nella roccia, il grande dio Ra-Harakhte, il sole del mezzogiorno, riceveva le offerte del faraone, il quale, rinnovando giorno per giorno i sacrifici dovuti alla divinità, permetteva che la legge di Maat continuasse a vivere nel paese e, di conseguenza, faceva sì che l’Egitto potesse prosperare.
   Mentre il tempio era stato concepito per accogliere la nascita di Khepri, il giovane sole del mattino, adesso Atum, il vecchio e stanco sole della sera, stava tramontando a occidente, per intraprendere il lungo viaggio nel mondo sotterraneo dove, in forma di dio dalla testa di montone, avrebbe combattuto dalla sua barca le forze del male, per rinascere a nuova vita all’alba seguente. Per tutte le migliaia di anni della loro storia, gli antichi egizi avevano atteso con ansia e trepidazione la nuova levata solare, timorosi che il grande dio fosse stato infine sconfitto da Apophis, il gigantesco serpente suo eterno nemico. Ma mai, neppure una volta, il dio aveva ceduto alle inside del suo mortale rivale.
   Tutti questi pensieri attraversarono in fretta la mente del professor Smolnikov, mentre si soffermava a osservare la facciata rupestre di quella che, a suo avviso, era la più bella e spettacolare costruzione eretta dagli Egizi nel corso della loro lunghissima storia. Nemmeno le piramidi di Giza, neppure l’immensa sala ipostila di Karnak e neanche l’austera e sacrale bellezza dell’isola di File riuscivano a reggere il confronto, se paragonati a una simile realizzazione. Pensare che tanta magnificenza fosse scaturita dalle mani di abili scalpellini vissuti in un’epoca remotissima era commovente persino per un comunista distaccato e solerte come lui.
   Adesso che il cantiere era silenzioso e in pace, inoltre, era molto più facile godere del respiro sacro di quel luogo. Era come trovarsi, ancora una volta, al cospetto del faraone in persona, il signore dell’Egitto, Horus incarnato in forma umana.
   Una smorfia comparve sul volto del professore. Non doveva lasciarsi suggestionare da quelle antiche superstizioni. Lui era lì per un motivo e, finalmente, era vicinissimo a compiere la sua missione. Soltanto quello contava: portare a termine il compito che gli era stato affidato e che, in breve, lo avrebbe consegnato alla storia, tramutandolo in un Eroe dell’Unione Sovietica. Il professor Vladimir Smolnikov sarebbe presto stato annoverato tra i più grandi uomini che avessero servito la causa del comunismo.
   Aveva lavorato sodo, ma c’era riuscito. Aveva scoperto, infine, l’ingresso alla stanza segreta. Per questa sera, aveva dovuto mandare a riposare i suoi aiutanti, fiaccati dall’ennesimo giorno di duro lavoro; ma, il giorno seguente, sarebbe stato quello fondamentale: sarebbe penetrato nel sotterraneo segreto e si sarebbe impadronito della Gloria di Amon. Tutto procedeva secondo i piani e, come aveva pensato, la presenza di Indiana Jones, che tanto aveva preoccupato il compagno colonnello, non aveva significato nulla.
   Alzò di nuovo lo sguardo al volto del faraone. La logica gli suggeriva di andarsene a dormire, per riposare in vista delle emozioni e delle fatiche che avrebbe dovuto affrontare il giorno seguente. Ma chi mai avrebbe potuto pensare di dormire in una notte magica come quella? Sentiva nell’aria tiepida il profumo della vittoria, leggeva nelle stelle che cominciavano a comparire nel cielo che si tingeva di blu scuro il presagio del suo immane trionfo. Andare a stendersi sulla brande e chiudere gli occhi in attesa di essere avvolto dal sonno sarebbe stato impossibile.
   Dall’ombra ai lati delle statue sbucarono all’improvviso due sagome che si mossero rapide verso di lui. Smolnikov le guardò sorpreso. Che si trattasse di quei due stupidi agenti del KGB che seguivano Volkov come cagnolini obbedienti? No, non potevano essere loro: non avrebbero mai indossato lunghi abiti di foggia egiziana, né si sarebbero avvolti le kefiah attorno al capo in quella maniera.
   Non ebbe nemmeno il tempo di porre una domanda, perché qualcun altro lo afferrò di sorpresa alle spalle, imbavagliandolo e tenendogli le mani bloccate. L’archeologo cercò di scalciare per liberarsi, ma una delle due figure che stavano venendo incontro si chinò e lo prese per le caviglie. Sollevato di peso, impossibilitato a urlare per chiedere aiuto, il professore cercò invano di ribellarsi; ma i tre uomini non gli badarono e lo trascinarono via di peso.

 
* * *

   «Questo non era previsto!» sibilò Boris, nascosto dietro il palo di una gru, osservando il rapimento di Smolnikov.
   «Pensi che dovremmo intervenire?» domandò Oleg, tremebondo.
   Boris valutò la situazione. I tre uomini, che sembravano arabi, e anche piuttosto robusti e coriacei, avevano già portato via Smolnikov, e non si vedevano più da nessuna parte. Se anche avessero voluto fare qualcosa, si sarebbero trovati a ciondolare alla cieca per tutto il cantiere.
   «No. Non abbiamo ordini in merito. Per quello che ne sappiamo, potrebbe essere stato il compagno colonnello Volkov in persona, a ordinare questo rapimento. Il compagno professore non sta dando i risultati sperati nei tempi previsti, e il colonnello ha già perso più volte la pazienza per i suoi ritardi. Forse ha deciso di punirlo. Non dobbiamo immischiarci.»
   Oleg titubò, non molto convinto da quelle parole.
   «E se non fosse opera del colonnello?» obiettò.
   «In questo caso, non cambierebbe nulla. Nessuno sa che siamo qui e nessuno lo saprà mai, se non glielo diremo» gli rammentò Boris. «Noi stiamo cercando Jones…»
   «Che, per altro, abbiamo perso» borbottò Oleg, cupo.
   Era da quando lo avevano guardato allontanarsi dal cantiere che non lo avevano più visto. Avevano provato a sbirciare nella casa del vecchio custode ma, a parte il sordo Murad che aveva ricominciato a friggere nella cucina rimessa a posto alla meglio, non avevano visto niente. Jones e i suoi amici se n’erano già andati, e loro non avevano idea di dove fossero finiti.
   «Solo momentaneamente» replicò Boris, ottimista. «Presto lo riacciufferemo e, quindi, ci faremo venire qualche buona idea per togliercelo di mezzo per davvero. Sempre, beninteso, che i nostri tentativi di ucciderlo non lo abbiano alla fine indotto a tagliare la corda, il che sarebbe per noi un bel vantaggio. In ogni caso, noi abbiamo l’incarico di occuparci di lui, non del professore. Noi non abbiamo visto niente di strano stanotte, giusto?»
   Oleg osservò il punto da cui i tre uomini avevano portato via di forza il professor Smolnikov e aggrottò le sopracciglia. Poi, però, annuì.
   «Giusto. Noi non abbiamo visto niente. Soprattutto, non abbiamo assistito a un rapimento.»
   Il collega gli fece un cenno di approvazione.
   «È così che si fa. Ci si occupa della propria missione e il resto non conta. Ognuno ha i propri compiti e non deve interferire in quelli degli altri. Ora andiamocene. Per stanotte non avrebbe alcun senso continuare a cercare Jones, tanto non lo troveremmo. Chissà dov’è, ormai. Dai, andiamo nel mio alloggio, ho una scorta di vodka sopraffina…»
   Perciò, in silenzio, senza più badare al tempio o rivolgere anche un solo pensiero al professore rapito sotto i loro occhi, i due agenti del KGB uscirono dal loro riparo e sgattaiolarono nell’oscurità.

 
* * *

   «Se ne sono andati» bisbigliò Moshti, guardando da dietro un muricciolo che era stato innalzato di recente per contenere i detriti che si accumulavano.
   Indy, che teneva bloccate le braccia del professor Smolnikov, fece un cenno affermativo.
   «Evidentemente ci siamo sbagliati. Quei due non dovevano essere le guardie del corpo del nostro amico» commentò.
   «Eppure sono certo di averli riconosciuti: li ho già visti in compagnia del colonnello Volkov» replicò Sallah, che sorreggeva il professore per le gambe.
   «Be’, vuol dire che i russi farebbero meglio a scegliersi dei collaboratori migliori» tagliò corto l’archeologo. Indicò a Moshti di fare strada. «Sbrighiamoci.»
   Guidati dal figlio di Sallah, i due amici trasportarono il professore, che continuava inutilmente ad agitarsi, in direzione della zona delle baracche. Ormai il cantiere era praticamente deserto e, i tre guardiani, erano vecchi amici di Sallah: per quella notte, avrebbero guardato altrove.
   Accostatosi alla porta di un prefabbricato che aveva tutte le tapparelle abbassate, Moshti bussò un paio di volte e sussurrò qualcosa. La porta venne aperta dall’interno e tutti e tre entrarono. Yasmin, che li stava aspettando dentro, richiuse in fretta, facendo scattare la serratura.
   Indy e Sallah lasciarono andare il professore, buttandolo a terra come se fosse stato un sacco di patate. Subito, l’archeologo sovietico, sebbene stordito, cercò di sgattaiolare verso la porta, ma Indy lo agguantò per la collottola e, sollevatolo di peso, lo sbatté contro uno scaffale pieno di faldoni, che si rovesciarono sulla testa del poveretto.
   «Mi riconosci, Smolnikov?» ruggì, dopo essersi abbassato la kefiah che gli mascherava i lineamenti, fissandolo da pochi centimetri di distanza.
   «J… Jones…!» balbettò quello, sbiancando.
   «Bene!» replicò Indy. «Così evitiamo di doverci perdere in lunghe presentazioni.»
   Lo sbatté ancora una volta contro lo scaffale, strappandogli un gemito, mentre Sallah e i due figli assistevano impassibili.
   «Si può sapere perché tu e i tuoi amici volevate farmi secco?!» sibilò l’archeologo, guardando il russo che scrollava la testa.
   «Io… non…» tentò di dire Smolnikov.
   «Risposta sbagliata!» ruggì l’americano.
   Lo lasciò andare e lo colpì con un violento montante al mento, mandandolo al tappeto. Fece cenno a Sallah di rialzarlo e, non appena il professore fu di nuovo in piedi, Indy lo bersagliò con un gancio demolitore, che lo rovesciò un’altra volta sul pavimento.
   «Allora?!» lo incitò.
   «Io non ho…» grugnì il sovietico, prima di lasciar partire un urlo acuto: Indy gli stava schiacciando la mano destra con il piede.
   «Dimmi la verità o ti stritolo!» lo avvertì. «Non sono un uomo paziente e, stasera, non ho proprio tempo da perdere!»
   Smolnikov piagnucolò qualcosa e alzò gli occhi imploranti verso Yasmin, forse sperando che il suo animo femminile potesse indurla a venire in suo aiuto. La ragazza, però, lo stava fissando a braccia conserte e non mosse un solo muscolo. Da lei, e da nessun altro in quella stanzetta soffocante, a malapena rischiarata dalla luce giallognola dell’unica lampadina che pendeva dal basso soffitto, non avrebbe potuto aspettarsi alcun soccorso.
   «Non è partita da me l’iniziativa, io non c’entro niente!» riuscì finalmente a dire il poveretto, mentre le fitte dolorose iniziavano a risalirgli lungo il braccio.
   Indy schiacciò più forte, concentrando tutto il suo peso sulla mano di Smolnikov.
   «Non mentire!» ordinò, secco.
   «Non sto mentendo, lo giuro!» urlò il sovietico. «È stata un’idea del colonnello… temeva la sua presenza qui… e poi voleva vendicarsi per una vecchia storia…»
   Dopo aver riflettuto per un secondo, Jones si decise a lasciarlo andare. Smolnikov si rannicchiò in posizione fetale, tenendo stretta a sé la mano e piagnucolando.
   «La mia presenza qui, eh?» borbottò, alzando lo sguardo verso Sallah, che annuì.
   «Forse Volkov aveva paura che tu fossi qui per interferire nella loro ricerca» ipotizzò lo scavatore.
   «È probabile» grugnì Indy.
   Piantò un calcio nel fianco di Smolnikov per richiamare la sua attenzione.
   «Pensavate forse che potessi intromettervi nel vostro tentativo di trovare il carro di Ramses?» lo inquisì.
   Come colpito da un fulmine, Smolnikov alzò su di lui uno sguardo stupefatto, dimenticandosi di tutti i suoi dolori e di tutti i suoi patimenti.
   «Parla!» lo incitò bruscamente l’archeologo, sferrandogli un altro calcio.
   «Quindi è vero! Ma come fa lei a sapere del…» cominciò a dire Smolnikov, ma Indy non gli lasciò il tempo di continuare.
   Agguantatolo un’altra volta, lo sollevò da terra e lo sbatté contro il muro, rifilandogli un paio di rapidi cazzotti nello stomaco, così forte che lo costrinse a piegarsi in due. Subito, però, gli afferrò il mento e glielo spinse con forza all’indietro, per costringerlo a guardarlo.
   «Qui dentro le domande le faccio io!» gli ricordò. «E ora, te lo ripeto un’ultima volta: Volkov temeva forse che io potessi cercare la Gloria di Amon al posto vostro?!»
   Smolnikov lo guardò e si rese conto che faceva sul serio. Quel bestione americano non si sarebbe mai fermato, pur di strappargli le informazioni che voleva. E, per quanto fosse pronto a diventarne un eroe, il professore non aveva ancora voglia di immolare la propria vita per l’Unione Sovietica.
   «È così» ammise. «Il colonnello Volkov ha saputo del suo arrivo questa mattina stessa e ha dato immediatamente l’ordine di toglierla di mezzo. A me, invece, ha comunicato di procedere come sempre, ma di raddoppiare gli sforzi. E, infatti, sono ormai vicinissimo a…» Si morse la lingua. Non doveva esagerare, correndo il rischio di dire troppo.
   Ormai, però, il guaio era stato fatto.
   «Siamo vicinissimi» lo corresse Jones. «Perché, adesso, tu mi porterai nel posto in cui è nascosta la Gloria di Amon e mi aiuterai a recuperarla.»
   Smolnikov, in un impeto di fierezza, scosse eroicamente il capo.
   «No, mai e poi mai!» urlò.
   Il pugno di Indy lo raggiunse al volto, subito seguito da un secondo e da un terzo. Gli incisivi di Smolnikov saltarono tutti, riempiendogli la bocca di sangue. Un quarto pugno, diretto allo stomaco, gli tolse il fiato, e un quinto, al petto, gli incrinò le costole. Una ginocchiata all’inguine lo lasciò definitivamente senza forze, facendolo piegare su se stesso.
   «Scegli tu» concesse Indy, con tono minaccioso, portando la mano sotto la lunga veste. «O mi porti subito allo scavo che tu e i tuoi accoliti state eseguendo in segreto…» Estrasse la mano, armata con il revolver, che puntò alla testa del poveraccio. «…oppure, domani mattina, in questo cantiere verrà trovato il cadavere di un russo.»
   Smolnikov strinse i pugni e ansimò, ma infine fu costretto a cedere alla violenza.
   «Metta via quell’arnese, Jones» sussurrò, sputando sangue. «La condurrò al sotterraneo…»
   A un cenno dell’archeologo, Sallah e Moshti afferrarono il sovietico e lo sollevarono. Dopo avergli stretto di nuovo il bavaglio attorno alla bocca, tenendolo per le braccia, lo condussero fuori dalla baracca.
   Indy, invece, restò indietro insieme a Yasmin, per recuperare il cappello che, in precedenza, aveva ripiegato e infilato nella cintura. Con una scrollata lo rimise in forma e se lo pose sulla testa.
   «Sei stato un po’ cattivello con lui, zio Indy» commentò la ragazza, guardandolo di sbieco.
   Jones si strinse nelle spalle.
   «Oggi ho rischiato due volte di finire fatto a pezzi per colpa sua e dei suoi capi» borbottò. «Sì, immagino di aver avuto la mano piuttosto pesante. A dire il vero non volevo arrivare al punto di rompergli i denti, quello mi è scappato senza volerlo. Vorrà dire che gli rifonderò le spese odontoiatriche. Ma in ogni caso se lo meritava, anche solo per il fatto che sia intenzionato a trovare il carro di Ramses per trasformarlo in una nuova arma, come se non avessimo già abbastanza bombe e missili dappertutto. E poi dobbiamo sbrigarci, il tempo stringe.»
   Fece per avviarsi dietro agli altri, ma vide che la giovane esitava, come se avesse voluto domandargli qualcosa. Si voltò a guardarla e la incitò con lo sguardo, fissandolo nei suoi grandi occhi color nocciola.
   «Davvero…» mormorò Yasmin, con la voce che tremava leggermente, «…davvero lo avresti ucciso, se non avesse acconsentito ad aiutarci?»
   Un sogghigno ironico comparve sul volto di Indiana Jones. Puntò la pistola verso l’alto e fece scattare numerose volte il grilletto. Ciascuna di esse, il cane risuonò a vuoto.
   «Scarica» ammise. «Ma, quando la gente non lo sa, l’effetto è lo stesso che farebbe se fosse carica, non trovi?»
   Yasmin ridacchiò, sollevata, e lo seguì fuori dalla baracca.


 
   
 
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