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Autore: IndianaJones25    26/01/2022    1 recensioni
Di ritorno da una disavventura in Australia, Indiana Jones scopre che il suo vecchio amico Sallah si è volatilizzato, senza lasciare tracce.
Indy decide allora di partire verso l’Egitto meridionale, dove è in corso una delle più grandi imprese archeologiche del Novecento, per poter rintracciare il suo amico scomparso. Ancora non sa che questo lo condurrà nell’ennesima sfida contro il tempo per sventare un complotto che, se andasse a buon fine, potrebbe portare nelle mani dei sovietici un’antica e pericolosa arma, risalente all’epoca degli dèi e dei faraoni…
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Henry Walton Jones Jr., Nuovo personaggio, Sallah el-Kahir
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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    13 - L’IPOGEO DI RAMSES II

   L’oro era dappertutto. Copriva le statue degli dèi, rivestiva la mobilia finemente intagliata offerta in dono. Collane lucenti splendevano dalle superfici su cui erano poggiate, in un gioco di splendente perfezione quando il biondo metallo incontrava il blu dei lapislazzuli e del turchese. Vasi d’oro e d’argento coprivano il pavimento come una foresta di ricchezza incommensurabile. Mucchi di monili lucenti facevano il paio con depositi di preziosissimi scarabei di mirabile fattura. E, dalle pareti, splendidi affreschi e geroglifici meravigliosamente incisi raccontavano le più grandi gesta di Ramses II.
   Indy e i suoi compagni restarono a bocca aperta per la sorpresa e l’ammirazione. Persino il professor Smolnikov, dimenticando di essere stato rapito e malmenato, non poté fare a meno di ammirare quel tesoro senza pari, capace persino di far sfigurare le “cose meravigliose” che Howard Carter aveva trovato quattro decenni prima nella tomba di Tutankhamon. Al termine di quel lungo corridoio, si apriva un vastissimo ipogeo ipostilo stipato di ricchezze inimmaginabili.
   La grande sala si stendeva sotto di loro, al termine di una breve scalinata. Dalla loro posizione sopraelevata, potevano ammirare quello spettacolo senza uguali. Doveva essere stata scavata interamente nella roccia, in maniera estremamente accurata. Il pavimento era rivestito da splendide mattonelle di maiolica verde e blu, mentre il soffitto – sorretto da alte e massicce colonne papiriformi – era dipinto di un blu scuro punteggiato di stelle e di immagini che raffiguravano le costellazioni egizie. Le pareti presentavano raffigurazioni colossali del faraone trionfante, colto sia nell’atto violento di abbattere e decapitare i nemici che in quello intimo e riservato in cui presentava offerte agli dèi. L’ambiente era immerso nell’oscurità, eppure era sufficiente che i fasci delle loro torce colpissero un qualsiasi oggetto d’oro perché si creassero dei giochi di luce che parevano accendere per intero la sala, facendola avvampare di bellezza. L’aria, secca e polverosa, celava ancora un lievissimo sentore di incenso e di gelsomino, le essenze pregiate che migliaia di anni prima erano state sparse in onore delle divinità, forse dalle mani stesse di Ramses.
   Con una certa fatica, Indy staccò gli occhi da tutti quei tesori per osservare la scalinata che conduceva verso il basso. Anche se larga, era parecchio ripida; nell’oscurità, avrebbero fatto fatica a notarla. Se l’oro non li avesse abbagliati, immobilizzandoli e stordendoli con il suo etereo ed eterno fascino, sarebbero andati incontro a un bel capitombolo.
   Tra loro calò un silenzio sacrale. Era difficile trovare parole adatte da poter esprimere di fronte a un simile tesoro. Sembrava che qualcuno di loro, assumendo il ruolo di Alì Babà, avesse pronunciato la formula magica – iftah ya simsim – e avesse fatto aprire la porta segreta per accedere alla caverna dei quaranta ladroni. Forse avevano davvero lasciato la vita reale di tutti i giorni per immergersi in una storia fantastica. Una delle tante magie che soltanto l’oriente misterioso sapeva essere capace di regalare.
   Moshti borbottò qualcosa di incomprensibile. Yasmin mugolò a sua volta una parola indecifrabile. Sallah fece un sospiro profondo e Smolnikov imprecò sottovoce qualcosa in russo. Pur non aprendo bocca, Indy si sentì a sua volta affiorare in direzione della lingua una girandola di parole difficili da legare l’una all’altra.
   «Ma…» disse infine la ragazza, ritrovando la capacità di parlare. «Ma… ce lo stiamo immaginando… oppure…»
   Quelle poche frasi bastarono per strapparli al sogno e per riportarli alla realtà. Era tornato il momento di darsi da fare, rinunciando alla contemplazione allucinata di tutto quello splendore. Quello non era il deposito dei quaranta ladroni e neppure la grotta di Aladino: era un ipogeo egizio, colmo di incommensurabili ricchezze. E, una di quelle, nascondeva un potere misterioso, ed era soltanto per quel motivo che si trovavano lì. Non era il momento adatto per dimenticarsene.
   «Dubito che un’allucinazione potrebbe essere così nitida» replicò Indy, ritrovando in fretta il suo solito fare pratico. «Seguitemi, mettendo i piedi dove li metto io.»
   Fece per avviarsi lungo la breve scalinata. La mano di Sallah gli artigliò il braccio.
   «Non pensi che potrebbe essere pericoloso?» domandò, insicuro.
   L’archeologo gli rivolse un sogghigno sarcastico.
   «È sempre pericoloso» gli rammentò. «Ma, dal momento che siamo giunti fino a qui, c’è un solo modo per scoprire che cos’altro ci stia aspettando.»
   Cauto, con circospezione, cominciò a scendere. A ogni passo tastava con attenzione gli scalini, pronto a balzare all’indietro nel caso avesse fatto scattare qualche trappola. Si aspettava che una voragine gli si aprisse all’improvviso sotto i piedi, oppure che una grossa pietra cadesse dal soffitto. Non accadde nulla di tutto questo e poté giungere incolume a toccare il pavimento di maiolica, impolverata ma ancora lucida e splendente nonostante l’andare dei millenni. Rassicurati, Yasmin e Moshti lo seguirono. Sallah, tenendo d’occhio Smolnikov, si affrettò a fare lo stesso.
   «E ora…?» disse, quando ebbe raggiunti gli altri.
   Indy non rispose. Teneva la torcia alta ed era impegnato a scrutare attraverso la sala.
   Il bagliore dell’oro, riflettendosi da un monile all’altro, stava illuminando un rialzo al capo opposto dell’ipogeo. Al di sopra di una piattaforma intagliata nella roccia arenaria per formare un altare, si trovava un baldacchino d’oro dalle colonne quadrangolari interamente ricoperte di geroglifici. Armi di bronzo di incredibile bellezza erano ammucchiate al di sotto: spade, scudi, archi, frecce, scuri, lance e falcetti. Nel centro esatto dell’altare e del baldacchino, sorgeva un sarcofago di pietra tendente al rossiccio. Era molto ampio, troppo perché si potesse pensare che fosse destinato al corpo di un uomo.
   Gli altri seguirono il suo sguardo, individuando ciò che aveva catturato la sua attenzione.
   «Zio Indy…» mormorò Moshti. «Tu credi…?»
   Fu Smolnikov a rispondere. Ormai del tutto dimentico di essere in mezzo ai suoi nemici, anche l’archeologo sovietico era stato catturato dal fervore della scoperta.
   «Sembra uno dei sarcofagi destinati ad accogliere il sonno eterno dei tori Api» borbottò. «Come quelli del Serapeo di Saqqara.»
   «Esattamente» approvò Indy, con un veloce cenno del capo. «Ma qui non siamo in un tempio funerario, e Abu Simbel non è una necropoli, bensì un luogo deputato a commemorare i trionfi del faraone. Quindi, là dentro…»
   Non terminò la frase. Tutti sapevano a che cosa stesse alludendo. In quel sarcofago doveva essere riposto il carro d’oro di Ramses II. La Gloria di Amon li attendeva, silente e immobile da migliaia di anni. Il suo segreto era sul punto di essere rivelato.
   Jones e Sallah si scambiarono uno sguardo. In quel preciso istante si sentirono ringiovanire di trent’anni. Erano un’altra volta sul punto di attraversare una sala dimenticata per svelare uno dei più grandi misteri dell’antico Egitto. E, proprio come a Tanis nel 1936, sapevano di dover agire in fretta, perché qualsiasi minuto perduto sarebbe stato del tempo prezioso donato ai loro avversari, che avrebbero potuto mangiare la foglia da un momento all’altro e sorprenderli in maniera inaspettata.
   «Forza» borbottò Indy. «Muoviamoci.»
   Mettendo da parte tutte le precauzioni, si avviò a passo rapido in direzione dell’altare.

 
* * *

   Il colonnello Volkov esaminò l’apertura nel pavimento. Il suo sguardo gelido scrutò l’oscurità impenetrabile del sotterraneo. Così, Jones aveva trovato l’ingresso al luogo segreto che i suoi uomini stavano invano cercando da settimane. Doveva dargliene atto: quell’americano della malora sapeva il fatto suo. Se fosse stato comunista, l’Unione Sovietica avrebbe potuto disporre di un grande alleato.
   Ma Indiana Jones non era affatto un alleato. Era un nemico e, come tale, andava distrutto. E, da parte sua, al di là delle divisioni politiche, il colonnello Sasha Volkov aveva anche un motivo personale per odiarlo con tutta la propria essenza.
   Quel motivo si chiamava Irina Spalko.
   Sasha e Irina, ancora adolescenti, si erano conosciuti in piena guerra, combattendo fianco a fianco nelle file dell’Armata Rossa contro gli invasori nazisti. La loro era stata un’amicizia nata a prima vista, rafforzata e irrobustita dalle bombe, dai proiettili e da tutti i patimenti che avevano sopportato insieme. In seguito, avevano servito entrambi presso la polizia segreta sovietica, prima che le loro strade divergessero: lui per seguire una carriera esclusivamente militare, lei per proseguire nel suo interesse principale, la scienza occulta. Si diceva che, in questo, fosse stata favorita da Stalin in persona, di cui la scaltra donna era diventata amante: non certo perché ne fosse innamorata – Volkov era più certo che Irina non fosse in grado di amare nessuno, al di fuori del proprio lavoro – bensì perché sapeva bene che, così, avrebbe spianato la strada alle sue ricerche in campo parapsicologico. Nessuno avrebbe infatti osato opporsi alla cocca di Stalin – come la chiamavano le malelingue – e alla sua crescente influenza.
   Ma questo non aveva scisso la loro grande unione. Sebbene le occasioni di incontro si fossero assai ridotte, per anni avevano continuato a mantenere un contatto epistolare molto stretto e profondo. A ben vedere, Volkov poteva vantarsi di essere stato il solo, vero amico di quella donna dal cervello geniale. Sebbene il loro rapporto non fosse mai andato oltre una solida e cameratesca amicizia – se Irina non era capace di amare, lui lo era ancora meno – sapere di aver avuto un simile legame con lei era ancora adesso un immenso onore. La sua compagnia lo aveva reso un uomo di vedute molto più ampie di quanto non fosse mai stato in precedenza. Grazie a lei, il colonnello era riuscito a vedere al di là della semplice materialità di ogni giorno.
   Irina, però, era scomparsa. Nessuno sapeva di preciso che cosa le fosse accaduto, ma non c’era alcun dubbio che fosse morta. La ricerca di Akator le era stata fatale, e Volkov sapeva che, in un modo o nell’altro, questo era dipeso dal fatto che Jones ci avesse messo il suo zampino. Aveva giurato a se stesso che l’avrebbe vendicata. Ma giurare non serve a nulla, se non si presenta un’occasione valida per mettere in pratica il proprio giuramento.
   Ora aveva quell’occasione. Adesso Indiana Jones era a portata del suo braccio e lui non avrebbe esitato. Questa volta se ne sarebbe occupato di persona, senza più demandare la faccenda a degli incompetenti. Il compagno colonnello Spalko avrebbe avuto la sua meritata vendetta. E sarebbe stata una lunghissima agonia per chi aveva osato agire contro di lei.
   «Avanti, mano alle torce e dentro» ordinò, indicando ai suoi uomini di procedere lungo il corridoio che si inoltrava nelle tetre profondità del tempio.

 
* * *

   Indy e i compagni risalirono i gradini polverosi della piattaforma..
   Ora il sarcofago era a portata del loro braccio. Era lì, vero e concreto, non un semplice sogno a occhi aperti. Ed era di una bellezza rara, tanto che la semplice pietra di cui era composto – granito rosso di Assuan, fu la veloce valutazione che ne diede mentalmente Indy – appariva in grado di rivaleggiare con tutto l’oro che lo circondava. L’intera superficie della vasta arca era ricoperta di mirabili iscrizioni geroglifiche. A una prima decifrazione, Indy vide che esaltavano la potenza del sovrano guidato dal dio Amon. Il coperchio, invece, presentava un mirabile bassorilievo che mostrava Ramses II, assurto in tutta la sua potenza, mentre scoccava frecce contro i nemici da sopra il proprio carro.
   Una ridda di pensieri attraversò la mente di Indiana Jones.
   Per un momento, si sentì trasportare indietro nel tempo, e si ritrovò ad ammirare il faraone che, rivestito di luce divina, respingeva i suoi nemici al di là del fiume Oronte, salvando se stesso e il futuro della nazione egiziana da un probabile disastro. Se quel giorno Ramses II fosse morto, se tutto il suo esercito fosse stato annientato, le porte dell’Egitto sarebbero state spalancate agli invasori, la legge di Maat che governava le Due Terre sarebbe stata calpestata, il male avrebbe imperversato ovunque e tutta la storia del mondo antico sarebbe mutata in modo drastico. Ma così non era stato. Ramses II aveva vinto quella battaglia e, sebbene non avesse poi potuto perseguire i propri ideali di conquista, la guerra non si era volta neppure a favore del nemico hittita. Anzi, da quell’episodio era sorto qualcosa di grandioso, seppure a diversi anni di distanza, quando il giovanile ardore abbandonò la mente del faraone, ormai conscio di non poter più annettere la Siria ai propri domini: il primo trattato di pace internazionale ricordato dalla memoria storica. Un altro record del più celebre dei sovrani dell’Egitto faraonico.
   Le mani dell’archeologo toccarono la pietra. Doveva assicurarsi che fosse tutto vero, non un miraggio. Quelle di Yasmin si unirono alle sue, poi anche quelle di Moshti e di Sallah. Per ultimo, persino Smolnikov fece altrettanto. Era tutto vero. Non lo stavano soltanto sognando. Il sarcofago, solido e massiccio, appariva al tatto esattamente come alla vista.
   L’atmosfera era pervasa da una vibrazione misteriosa. Nessuno di loro avrebbe saputo dire se si trattasse soltanto di una sensazione, dovuta all’imminenza di una rivelazione millenaria, o se fosse reale. Forse era entrambe le cose allo stesso tempo.
   Indy vide la bocca di Yasmin aprirsi, come se stesse per dire qualcosa. Si richiuse subito, in silenzio. Brava ragazza. Sapeva riconoscere i momenti in cui le parole perdevano di significato. Quello era l’istante della contemplazione e della meditazione. Non lo si poteva rovinare con domande a cui nessuno sarebbe stato capace di dare una risposta.
   Eppure, non si poteva nemmeno perdere troppo tempo in quella maniera. Li attendeva una faticaccia, che avrebbero dovuto portare a termine prima dell’alba. Dovevano riuscire a completare tutto prima che occhi indiscreti potessero notare che stesse accadendo qualcosa di insolito.
   Tra Indy e Sallah corse uno sguardo di intesa. Sapevano che cosa c’era da fare. Entrambi si sbarazzarono delle torce, consegnandole ai ragazzi; si posizionarono sui due lati corti del sarcofago e strinsero con forza le mani attorno al coperchio. A un cenno, iniziarono a fare forza, spingendo verso l’alto.
   Un dolore acuto attraversò immediatamente i nervi dell’americano, diffondendosi dalle braccia alla schiena. La sua ernia, che da qualche mese si era assopita, tornò subito a farsi sentire; la lasciò fare, ignorandola come se non esistesse neppure. Lo sforzo che stava facendo era davvero elevato, ma non avrebbe ceduto il proprio posto a qualcun altro, per nessun motivo. Voleva essere lui a farlo, insieme a Sallah, come ai bei tempi in cui rughe e capelli grigi non erano neppure un pensiero fugace. I suoi occhi notarono la smorfia contratta sul viso dell’amico e immaginò che, sul suo, l’espressione non dovesse essere troppo differente.
   Il coperchio, sebbene soltanto appoggiato, si era come saldato alla pietra sottostante. La pressione esercitata per millenni dal suo peso lo aveva reso un tutt’uno con il resto del sarcofago. I due amici dovettero raddoppiare i propri sforzi per riuscire a smuoverlo, chiedendo ai loro muscoli di far confluire all’esterno ogni stilla di energia.
   Dapprima parve non accadere nulla. Il lastrone sembrava inamovibile. Senza demordere, Indy e Sallah continuarono a sospingerlo verso l’alto. Un leggero rumore, un movimento quasi impercettibile, un’inclinazione appena percettibile, comunicarono loro che ci stavano riuscendo. Ormai incapaci di sentire la fatica, mossi dal fuoco della scoperta e dall’esaltazione di essere sul punto di rivelare un grande segreto, si sforzarono ancora di più.
   Per un istante non successe più nulla. Poi, a un tratto, il coperchio si staccò, tutto d’un colpo. Lo fece con tale impeto improvviso che i due vecchi compagni, sorpresi, per un istante vacillarono sotto il suo peso, rischiando di lasciarlo andare. La sorpresa cedette subito il passo alla consapevolezza. Continuarono a sollevare, portando le braccia all’altezza del petto. Moshti, per evitare che la lastra tornasse al proprio posto, si affrettò a infilare il palanchino che aveva portato con sé nello spazio rimasto vuoto.
   Da sopra la pesantissima lastra di granito rosso, lo sguardo corrugato di Sallah cercò quello di Indy. L’archeologo accennò alla propria destra. Con un solo, fluido e deciso movimento, buttarono il coperchio da quella parte. Smolnikov e Yasmin, che si trovavano proprio lì, furono costretti a fare un balzo all’indietro per evitare di essere travolti da quella massa non indifferente. Con un tonfo sordo, il pietrone levigato e finemente inciso cadde sul pavimento, scheggiando e frantumando le piastrelle di maiolica, spaccandosi a metà e spandendo ovunque un polverone grigio. Indy e Sallah, stanchi ma soddisfatti, si accasciarono sui bordi del sarcofago, ansanti.
   La grande fatica compiuta li aveva sfiniti, ma ne era valsa davvero la pena. I loro occhi, stravolti e lacrimanti, dentro cui si riversava il sudore che scivolava dalle loro fronti, poterono posarsi sopra uno spettacolo davvero eccezionale, che li ripagò di tutti gli sforzi compiuti. Anche Moshti, Yasmin e il professor Smolnikov si avvicinarono, la bocca spalancata dalla meraviglia. L’ormai inutile palanchino venne abbandonato sul pavimento.
   All’interno della grande arca, era racchiuso il carro a bordo del quale il faraone Ramses il Grande aveva sbaragliato i suoi nemici. La Gloria di Amon, costruita in legno di acacia ricoperto da lamina d’oro, sembrava sfolgorare di luce propria. Era perfetto, come se fosse stato riposto soltanto il giorno prima. I finimenti di cuoio, morbidi ed elastici, pendevano ancora dalla lunga staffa a cui venivano aggiogati i cavalli. Dal pianale si levava il parapetto ricurvo, al cui fianco era ancora infissa la faretra, che conteneva una dozzina di frecce sottili, dalla punta di bronzo. Le ruote a sei raggi, smontate e appoggiate al suo fianco per evitare che si ovalizzassero, parevano pronte a rimettersi a rotolare da un momento all’altro, per andare di nuovo all’assalto verso tutti i nemici dell’Egitto. La foglia d’oro che lo rivestiva mostrava incisioni di incredibile precisione e bellezza, intarsiate con inserti di madreperla, di turchese e di pasta vitrea dai bellissimi colori. Ogni immagine era volta ad esaltare la figura del faraone vincitore e del dio Amon, suo nume tutelare nella battaglia di Qadesh.
   Indy scosse il capo e sbatté le palpebre, abbagliato da tanto splendore.
   «Oh, è incredibile…» borbottò.
   Aveva visto innumerevoli testimonianze del passato risorgere dinnanzi a sé, eppure ogni volta era come la prima. Non poteva mai fare a meno di stupirsene, restando incantato da tanta bellezza. Non era mai semplice accettare che gli esseri umani fossero stati capaci di dare vita a simili prodigi. Dovette fare un lungo e profondo respiro per riuscire a mantenere il controllo. Si accorse che le mani gli tremavano, e non era affatto per la grande fatica appena portata a termine.
   Anche gli altri, poco per volta, riuscirono a riscuotersi dall’incanto che li aveva invasi.
   «E ora come facciamo a portarlo fuori?» domandò Yasmin, con fare pratico.
   Moshti si strinse nelle spalle.
   «Immagino che dovremo rassegnarci a sollevarlo, e poi a montarlo sulle ruote per poterlo spingere» borbottò. «Non sarà un’impresa semplice…»
   Sallah sorrise sotto la barba scura, costellata di fili di ferro.
   «Io e Indy abbiamo trasportato pesi maggiori di questo e ce la siamo cavati in situazioni decisamente peggiori» replicò. «In un qualche modo ce la caveremo anche questa volta, vedrete.»
   «Io non vi aiuterò» disse in tono secco il professor Smolnikov. «Mi rifiuto di proseguire oltre con questa pagliacciata!»
   Lo sguardo di Sallah lo fulminò, facendolo trasalire.
   «Vorrà dire, professore, che dopo aver tirato fuori il carro, ci chiuderemo lei, in questo sarcofago! Almeno, saremo certi che non ci darà più alcun fastidio!» promise, sebbene con un tono giovale che non riuscì a rendere minacciose le sue parole.
   Senza badare alle loro chiacchiere, Indy si piegò verso l’interno del sarcofago, studiando il modo migliore per riuscire a estrarre il carro d’oro. Notò che, sulla parte inferiore dei fianchi del parapetto, erano stati infissi quattro anelli di bronzo dorato; poiché non sembravano avere nessuna attinenza con il resto della biga, intuì subito che dovevano essere serviti al trasporto. Altri due piccoli cerchi, disposti di traverso al pianale, si trovavano sulla parte superiore. Probabilmente, lì attorno dovevano esserci dei pali da infilare in quegli anelli.
   Si allontanò di qualche passo, guardandosi attorno. Yasmin lo seguì, per fargli luce con la torcia.
   Posò i suoi occhi su tesori di vario genere, tra cui tavolette d’argento ricoperte di scritte in geroglifico e in cuneiforme – doveva trattarsi delle copie originali del trattato di pace con gli Hittiti, intuì con un brivido di emozione che lo percosse da capo a piedi – e altri oggetti di immenso valore. Poi, finalmente, notò quello che stava cercando: due lunghi pali di legno, dipinti di colore dorato, appoggiati ai piedi dell’altare.
   Si affrettò a raccoglierne uno. Era leggero, flessibile e resistente.
   «Sallah, prendi quello» ordinò con tono sbrigativo, indicando il secondo. L’amico si affrettò a fare come gli era stato detto.
   Tornati vicino all’altare, Indy studiò di nuovo il carro. I quattro anelli che si trovavano in basso potevano servire per il trasporto, come pensava. I due attaccati alla parte superiore, invece, sarebbero dovuti servire per far uscire il carro dal sarcofago.
   Con mille precauzioni, fece passare uno dei lunghi pali attraverso i due anelli trasversali. Come immaginava, la lunga sbarra ci passò alla perfezione. Strinse le mani attorno all’estremità e indicò a Sallah di impugnare quella opposta.
   Senza parlare, sotto lo sguardo attento e incantato degli altri tre, i due amici si scambiarono un ennesimo cenno di intesa. Cominciarono a sollevare, facendo attenzione non sforzare troppo: sapevano più che bene che, antico com’era, il legno si sarebbe potuto rivelare molto più fragile di quanto apparisse.
   Alcuni scricchiolii sinistri risposero alle loro sollecitazioni. Per un momento, spaventati dall’idea di poter provocare un disastro, entrambi pensarono di fermarsi. Ma non lo fecero e, presto, sentirono che il carro si muoveva, mentre la sua parte inferiore si sollevava lentamente, staccandosi dalla pietra su cui era rimasto immobile per migliaia di anni.
   Era davvero molto leggero. Ben presto, fu completamente fuori dal sarcofago, sollevato tra i due amici.
   «E adesso?» domandò Smolnikov, rabbuiato.
   Tenendo le braccia sollevate, grugnendo per lo sforzo, Indy e Sallah avanzarono di qualche passo, fino a raggiungere una delle estremità dell’arca. Lì, stando attenti a non combinare nessun tipo di danno, si chinarono lentamente verso terra, appoggiando con delicatezza il carro sul pavimento.
   «Ecco fatto» borbottò Sallah, lasciando andare il palo e asciugandosi la fronte che si era imperlata di sudore.
   Anche Indy era in un bagno di sudore, ma non certo per lo sforzo. Il peso del carro, tutto sommato, era quasi irrisorio. Erano state semmai l’emozione e la paura di sbagliare a ridurlo in quelle condizioni.
   Con altrettanta cautela di quando l’aveva infilata, ritrasse la sbarra dorata dai due anelli e si piegò per farla scivolare in quelli sul lato inferiore sinistro del carro. Anche in quel caso, le dimensioni combaciavano alla perfezione. Sallah, fatto un gesto in direzione del figlio, che aveva intanto recuperato l’altro palo, se lo fece consegnare e ripeté l’operazione sul lato destro. Adesso, camminando uno davanti e uno dietro, avrebbero potuto trasportare il carro alla stessa maniera in cui gli antichi sacerdoti lo avevano portato fino a lì.
   «Prendete le ruote e appoggiatele al pianale» borbottò Indy, mentre contemplava l’opera che avevano portato a termine.
   Moshti e Yasmin, sotto la supervisione di Sallah, si affrettarono a fare come chiedeva, maneggiando con delicatezza le preziose ruote in legno di acacia che, come il resto del carro, erano rivestite di foglia d’oro. Non appena furono riposte sulla pedana del veicolo e l’archeologo si fu accertato che non avrebbero rischiato di cadere a causa dei loro movimenti, venne il momento cruciale.
   Certo, una pausa non avrebbe fatto male. Avrebbero potuto recuperare le energie e, mentre riposavano, si sarebbero potuti aggirare in quel vasto ipogeo, studiandone tutti i tesori preziosi che racchiudeva. Quello scrigno delle meraviglie avrebbe potuto riservare chissà quanti altri innumerevoli segreti. Ma, per l’ennesima volta, il senso di ansia e di fretta prese il sopravvento su tutto il resto. Dovevano sbrigarsi a tagliare la corda.
   «Pronto?» domandò Indy, dando uno sguardo a Sallah.
   «Pronto» confermò lui, con un cenno d’intesa.
   Si posero alle due estremità del carro, l’americano davanti e l’egiziano dietro, e strinsero un’altra volta le mani attorno ai pali di trasporto. Con una coordinazione degna di nota, sollevarono la Gloria di Amon e, un passo dopo l’altro, cominciarono a trasportarla giù dall’altare. Una volta superati i gradini, iniziarono a muoversi a passi lenti lungo la vasta sala ricolma di tesori. Le piastrelle di maiolica scricchiolavano sotto i loro piedi.
   «Io protesto deliberatamente!» sbottò Smolnikov, osservando l’intera operazione. «Questo è un furto fatto e finito! La scoperta è mia e…»
   Moshti, che aveva recuperato il suo palanchino, lo pungolò nella schiena, interrompendolo.
   «Basta ciance e muoviti!» ordinò, sospingendolo in avanti.
   «Le consiglio di fare come dice: mio fratello è uno dei tipi più sbrigativi che io conosca» trillò Yasmin, con ironia.
   Rassegnato, l’archeologo sovietico fu costretto a obbedire, incamminandosi alle spalle di Sallah e di Indy.
   I due giovani lo seguirono da vicino, dando inizio a un corteo estremamente diverso da quello ieratico e composto che, tremila anni prima, guidato da Ramses il Grande in persona, tra nubi di incenso e inni sacri pronunciati in tono basso e solenne, aveva condotto il carro nella direzione opposta.


 
   
 
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