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Autore: IndianaJones25    26/01/2022    1 recensioni
Di ritorno da una disavventura in Australia, Indiana Jones scopre che il suo vecchio amico Sallah si è volatilizzato, senza lasciare tracce.
Indy decide allora di partire verso l’Egitto meridionale, dove è in corso una delle più grandi imprese archeologiche del Novecento, per poter rintracciare il suo amico scomparso. Ancora non sa che questo lo condurrà nell’ennesima sfida contro il tempo per sventare un complotto che, se andasse a buon fine, potrebbe portare nelle mani dei sovietici un’antica e pericolosa arma, risalente all’epoca degli dèi e dei faraoni…
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Henry Walton Jones Jr., Nuovo personaggio, Sallah el-Kahir
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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    17 - LA GLORIA DI AMON

   Il grande cortile di Ramses II, all’interno del tempio di Amon a Luxor, era un luogo pieno di fascino intramontabile. Una meraviglia tra le meraviglie, incastonata in una terra che ne aveva a decine da offrire agli occhi stupefatti che le ammiravano. L’intero complesso era cintato da un doppio ordine di colonne in forma di papiro, in mezzo alle quali, a intervalli, spiccavano le statue rappresentati il faraone trionfante. Se ad Abu Simbel si celebrava la grandezza di Ramses come vincitore dei nemici in guerra, lì si ribadiva il suo essere figlio di dio e dio a sua volta.
   Era calata la notte. Le stelle sfolgoravano a migliaia nel cielo limpido al di sopra del cortile. Erano il coronamento naturale di tanta soverchiante bellezza, lo sfondo di innumerevoli cerimonie che in quel luogo avevano celebrato i misteri di un culto le cui origini si perdevano tra le sabbie del tempo.
   La cerimonia che stava per avere inizio, però, era molto differente da quelle a cui avevano assistito per secoli gli antichi sacerdoti, incaricati di perpetrare il culto degli dèi come rappresentati del faraone, unico vero tramite tra la terra e la divinità.
   I militari, in alta uniforme, con il fucile in spalla, erano schierati in quattro file, due per lato. Erano tutti rivolti verso il centro del cortile, dove il carro d’oro era stato sistemato in attesa. Due cavalli marroni, con pennacchi di piume colorate sulla sommità del capo, gli erano stati aggiogati, e ora attendevano, inquieti. Uno stalliere arabo, visibilmente turbato, li teneva buoni dandogli leggere carezze sui musi e sussurrando parole dolci.
   Legato a una delle colonne, Indy fissava con sconcerto quello che i russi avevano organizzato. Dovevano essere diventati pazzi: una spiegazione migliore non sarebbe stato in grado di trovarla.
   Li avevano condotti nel tempio la mattina, ed erano stati subito legati alle colonne, a coppie: lui e Sallah contro una, Yasmin e Oleg contro un’altra. Poi si erano immediatamente dati da fare per i preparativi, obbedendo agli ordini che il professor Smolnikov aveva cominciato a gridare come un forsennato invasato.
   Il giorno era parso non finire mai. Infine, però, il sole era calato oltre l’orizzonte e le stelle erano comparse nel cielo. I militari si erano schierati in quella maniera, gli occhi rivolti al carro. Erano in attesa, come pure lo erano Indy e i suoi amici. Stava per accadere qualcosa. Restava soltanto da capire che cosa, di preciso, sarebbe accaduto.
   Un movimento vicino al pilone d’ingresso al cortile attrasse l’attenzione dell’americano, che si voltò da quella parte per guardare.

 
* * *

   «Ma…» borbottò Moshti, sconcertato, osservando i preparativi dei russi. «…stanno allestendo una parata, per caso?»
   Lui e Boris si erano cambiati d’abito. Adesso indossavano entrambi una lunga veste bianca a righe azzurre, con il turbante avvolto attorno alla testa. Da qualche parte doveva esserci una massaia furiosa, considerato che avevano preso quegli abiti, senza chiedere il permesso, dal filo a cui erano stati appesi ad asciugare dopo il bucato. Un accorgimento semplice ma che aveva permesso loro di sottrarsi facilmente alla ricerca dei militari che avevano inutilmente setacciato il borgo e battuto in lungo e in largo le campagne per provare a stanarli.
   Ormai sicuri di non poter essere più riconosciuti, avevano raggiunto il tempio di Luxor, per scoprire che cosa fossero andati a fare lì Volkov e i suoi, trascinando con sé anche i prigionieri. Gli ingressi principali erano tutti sorvegliati da uomini armati, ma Moshti conosceva quel luogo come le sue tasche, per le innumerevoli volte in cui lo aveva visitato con suo padre. Senza perdersi d’animo, aveva condotto il russo lungo il muro di cinta, fino a raggiungere un piccolo buco nella parete, a livello del terreno. Strisciando, erano così potuti entrare indisturbati nell’area del complesso templare.
   Si erano quindi appostati in un luogo sicuro, al riparo del colonnato; da lì, avevano cominciato a osservare i sovietici che si preparavano. Era strano vedere i soldati con indosso le alte uniformi. Ma ancora più strano fu vederli togliere il carro dalla cassa in cui era rinchiuso, attaccargli la coppia di cavalli e condurlo al centro del cortile.
   «Qualcosa di peggio di una parata…» borbottò Boris, nervoso, mordendosi un labbro.
   Osservò in lontananza Volkov e il professor Smolnikov che confabulavano con aria compiaciuta e represse a stento un moto d’ira.
   «Che intendi dire?» chiese Moshti.
   «Il professor Smolnikov è coinvolto in un progetto per trovare nuove armi, di tipo non convenzionale» rivelò. «Quel folle è convinto che il carro d’oro che abbiamo trovato possa in qualche modo generare un campo d’energia tale da sbaragliare qualsiasi avversario. La sua intenzione è quella di mostrarlo ai capi dell’Unione Sovietica. Lui guadagnerebbe fama imperitura, mentre al colonnello Volkov andrebbe il merito di aver portato alla Russia un’arma che gli americani mai e poi mai potranno eguagliare. La sua promozione a generale sarebbe immediata.»
   Fissò i due uomini di cui stava parlando, finché li vide scomparire dentro una cella buia.
   «Ma per non correre il rischio di una brutta figura, Smolnikov e Volkov avevano convenuto di condurre il carro d’oro in una base navale del Mar Morto e testarlo lì» proseguì. «Evidentemente, hanno cambiato idea. Devono aver pensato che, farlo qui, nel tempio, renderebbe la cosa ancor più suggestiva e impressionante.» Bofonchiò qualche imprecazione in russo e soggiunse: «Sono pazzi da legare, ecco tutto.»
   Moshti strinse i pugni.
   «Se il carro è davvero potente come si dice, dobbiamo impedirgli di usarlo!» sbottò.
   Boris annuì, facendogli cenno di stare calmo e di tenere basso il tono della voce per non rischiare di farsi scoprire proprio adesso.
   «Ed è quello che proveremo a fare» sussurrò. «Per prima cosa dobbiamo cercare i nostri amici e liberarli.»
   «Andiamo subito!» fece Moshti.
   «Aspetta» lo bloccò l’agente segreto, ponendogli una mano sul braccio per trattenerlo. «Prima, mentre camminavamo, ho sentito due soldati che parlavano in russo. Dicevano che la cosa avverrà stasera. Questo potrà favorirci. Con il buio e con l’attenzione di tutti calamitata sul carro, nessuno farà caso a noi. Sarà allora che agiremo. Libereremo Jones e gli altri e poi…» Si strinse nelle spalle. «Boh, ci inventeremo qualcosa…»

 
* * *

   Indy aprì meglio gli occhi per osservare il grande pilone avvolto dal buio. Voleva cercare di capire che cosa stesse succedendo. Ormai non c’erano più dubbi; da quella parte i russi stavano organizzando qualcosa. Qualsiasi cosa avessero in mente, era certo che sarebbero state grosse rogne per tutti, se non avesse trovato alla svelta un modo per liberarsi dalla prigionia.
   All’ingresso del cortile vennero accese delle fiaccole, che illuminarono la scena. Così, l’archeologo poté vedere chiaramente ogni cosa. Ciò che vide, però, gli fece sgranare gli occhi per la sorpresa. Mancò poco che cacciasse un urlo, prima di reprimere a fatica una risata di scherno. Ciò a cui stava assistendo era insieme comico e drammatico.
   Dalla parte del pilone, sei uomini avanzavano paralleli, suddivisi su due file. Procedevano a passo lentissimo, diretti verso il centro del cortile, dove era posizionato il carro. Avevano indossato delle tuniche bianche, erano scalzi e si erano rasati il capo, secondo l’uso degli antichi sacerdoti egizi. I due che aprivano la fila avevano le mani occupate dalle fiaccole, mentre quelli che venivano dietro di loro spandevano nubi di incenso con dei turiboli.
   Dalle loro facce imbarazzate, Indy intuì che si trattava di militari che erano stati costretti controvoglia a prestarsi a quella pagliacciata. Avevano tutta l’aria di chi avrebbe preferito essere mille miglia lontano.
   Subito dopo di loro, venne avanti il professor Smolnikov. Anche lui aveva indossato una tunica bianca e si era depilato. Dalle spalle gli pendeva anche una pelle di leopardo, che lo identificava quindi come grande sacerdote. Teneva le mani giunte e stava intonando una preghiera in egiziano antico, come una monotona cantilena.
   Mentalmente, l’archeologo tradusse con parecchia facilità le parole che il russo stava facendo risuonare per tutto il cortile. Lo riconobbe subito: era uno dei più noti inni ad Amon sopravvissuti attraverso i secoli.

   Salute e lode a te, Amon-Ra,
   Signore dei Troni delle Due Terre.
   Tu sei colui che domina sopra Karnak,
   il possente Toro di sua Madre,
   colui che domina sull’Alto Egitto,
   Signore di Madjoi e governatore della Terra di Punt,
   antico del Cielo, figlio primogenito della Terra,
   padre di se stesso,
   Signore di ciò che è nell’eternità, eterno tu stesso in tutte le cose,
   unico nella tua natura quale seme di ogni dio,
   possente Toro divino dei Nove, capo di tutte le Divinità.
   Demiurgo del genere umano e degli animali,
   demiurgo di tutto ciò che vive,
   demiurgo dell’albero portatore di frutta
   demiurgo delle piante e delle mandrie al pascolo.
   Dolce è la tua visione nel cielo settentrionale
   la tua sfolgorante bellezza incanta i cuori,
   Signore del Basso Egitto,
   la tua immagine celestiale fa tremare le mani
   e i cuori, dinnanzi alla tua venuta, obliano ogni cosa.
   Tu sei l’unico
   tu facesti tutto ciò che è
   tu sei il solitario che pensò e creò ogni cosa che esiste.
   Dal tuo sacro seme ebbero origine gli dèi, perché tu lo volesti,
   dai tuoi occhi di luce ebbe origine il genere umano, perché tu lo volesti,
   dalla tua bocca imperitura vennero tutte le cose, perché tu lo volesti.
   Tu sei il pesce che nuota nel fiume,
   tu sei l’uccello che si libra in cielo,
   tu sei il respiro dell’embrione nell’uovo,
   tu sei la vita nel grembo di ogni madre,
   tu sei la forza nel seme di ogni padre,
   tu crei la lumaca, la zanzara,
   tu crei le grandi e le piccole cose,
   tu provvedi ai bisogni degli uomini e dei topi,
   tu dai le case e le tane,
   tu concedi agli uccelli la vita sugli alberi.
   Uno e molteplice Signore dalle mille mani
   che vigili con sicurezza la notte, mentre gli uomini dormono,
   e che a tutte le tue creature procuri continuo beneficio,
   noi ti lodiamo.
   Noi lodiamo te, Amon-Ra,
   il più grande degli dèi che sono e che saranno,
   colui che unisce tutte le Enneidi,
   l’imperituro scaturito dall’eterno,
   Signore della Terra d’Egitto,
   Amon-Ra, Amon-Ra, Amon-Ra.


      «Ma che accidenti si sono messi in testa di fare?» sbottò poco lontano la voce di Yasmin. «Stanno giocando agli antichi Egizi?!»
   Jones, inquieto, continuò a guardare lo strano corteo che si avviava verso il centro del cortile, dove la Gloria di Amon era in attesa. Aveva il crescente timore che, quello a cui stavano assistendo, fosse tutt’altro che un gioco. Quei pazzi si erano messi in testa di fare una cosa che non gli andava per niente a genio. No, decisamente, i sovietici non stavano affatto giocando.
   Dall’ombra del pilone uscì l’ultimo figurante di quella parata, il più grottesco e allo stesso tempo terribile. Il colonnello Volkov in persona. Solo che, adesso, non sembrava più davvero lui. Aveva assunto le vesti di un faraone, non c’era alcun dubbio.
   Il russo indossava una camiciola di lino bianco, unita in grembo a un gonnellino pieghettato che gli scendeva fino alle ginocchia. A stringerlo in vita c’era una cintura di cuoio, e dal fianco sinistro gli pendeva una spada di bronzo. Al collo portava una catena d’oro, che sorreggeva una placca pettorale incastonata di pietre preziose. Sul mento, legata con un filo dietro le orecchie, portava la barba posticcia tipica dei sovrani che avevano governato in antichità sulla terra egiziana. In capo portava la doppia corona, bianca e rossa, che simboleggiava l’unione dell’Alto e del Basso Egitto. Nella mano destra impugnava un hekat, il corto scettro dall’estremità superiore ricurva che traeva la sua origine dai bastoni utilizzati dai pastori, i primi abitanti della valle del Nilo, gli antenati della civiltà egizia.
   Procedeva con un incedere lento, solenne, ritmato sulla nenia che Smolnikov non faceva che ripetere. Teneva la testa alta, lo sguardo fisso rivolto davanti a sé.
   Il corteo procedette con esasperante lentezza fino al carro d’oro. Ci vollero quasi dieci minuti perché venisse coperta la distanza tra il pilone e il centro del cortile. Gli uomini che impersonavano i sei sacerdoti si disposero ai due lati dell’antico mezzo da guerra, tre per parte, e si inginocchiarono con la fronte nella terra.
   Smolnikov si fermò a osservare i cavalli, movendo la mano destra nella loro direzione e cianciando delle parole che Indy non riuscì a comprendere. Con un sogghigno, immaginò che il russo avesse terminato il suo repertorio di conoscenze di preghiere antiche e, adesso, si stesse inventando qualche parola dal suono vagamente esotico per trascinare più a lungo quell’indegna sceneggiata.
   Infine, anche Volkov si fermò. Respirò a pieni polmoni, come se stesse cercando di inspirare l’essenza stessa del tempio e di tutto ciò che lo circondava. L’americano trovò davvero ridicola quell’immagine, eppure sapeva bene che non ci sarebbe stato assolutamente nulla di cui ridere. Anzi, se non si fosse dato una mossa, ci sarebbe stato solo da piangere.
   Provò a muovere i polsi, cercando di liberarsi. Spinse, tirò, si agitò, ma non ottenne alcun risultato. Le corde erano troppo strette, e non aveva nessuna possibilità di liberarsi. Stavolta erano davvero in una brutta situazione.
   Volkov, voltatosi verso i suoi soldati dopo aver contemplato per quasi due minuti il carro, cominciò a parlare. La sua voce era profonda ma anche stridula. La voce di un esaltato ormai incapace di rendersi conto di essersi cacciato in una strettoia da cui sarebbe stato impossibile uscire. Una strettoia che conduceva dritta e inesorabilmente verso la morte.
   «Figli miei, oggi voi assisterete a un grande miracolo, il più grande che si sia mai verificato in questo secolo dopo la gloriosa Rivoluzione che portò alla nascita della nostra immortale Madre Russia. Io sarò la vostra guida e vi condurrò alla nascita di un nuovo giorno. Il tramonto di ieri ha visto morire un mondo in preda al caos e all’incertezza. L’alba di domani vedrà nascere un futuro radioso per tutte le nazioni che si sottometteranno al nostro volere! E chi non oserà farlo, sarà spazzato via come un fuscello nella tempesta, perché noi non permetteremo che sopravvivano nel mondo uomini indegni di esistere!»
   Fece una pausa, saettando lo sguardo su tutti i presenti, quasi volesse accertarsi di avere la completa attenzione e fedeltà dei suoi soldati, quindi proseguì con il suo discorso delirante.
   «Dopo che i traditori saranno stati offerti in sacrificio agli dèi per dimostrare la nostra sottomissione nei loro confronti e ottenerne in cambio la loro benevolenza perché ci aiutino in questo cammino, io, Ramses XII, ultimo successore dei grandi faraoni antichi, condurrò tutti voi al trionfo finale!»
   Indy – che stava riflettendo su quanto sarebbe stato divertente poter vedere la faccia di Chrušcëv se fosse stato lì in quello stesso momento, a osservare una simile buffonata che non aveva niente a che vedere con i precetti atei e comunitari del socialismo reale – si sentì improvvisamente gelare il sangue nelle vene. Aveva capito bene? Quel pazzo voleva forse compiere un sacrificio umano utilizzando proprio loro?
   Sbuffò. Perché diavolo la gente doveva sempre sacrificare qualcuno? E perché, poi, sempre lui?
   «Indy…» brontolò Sallah, nervoso, agitandosi nel tentativo di liberarsi dalle corde.
   Ma le corde, come se si fossero animate di vita propria, caddero ai loro piedi, e furono di nuovo liberi.
   «Diamine…» sbottò Jones, voltandosi per vedere che cosa fosse accaduto.
   Si trovò davanti Boris, il coltello con cui aveva reciso i cordami ancora stretto nella mano, che gli faceva segno di non fiatare. Si era avvicinato così silenziosamente che Indy e Sallah, concentrati su quello che stava accadendo nel centro del cortile, non se ne erano nemmeno accorti. Volse lo sguardo e vide Moshti che liberava Yasmin e Oleg.
   Intanto, Volkov proseguiva con le sue ciance da completo invasato.
   «Un nuovo ordine sorgerà, e saremo noi stessi a guidarlo su tutto il mondo! Il potere degli antichi dèi dell’Egitto sarà la fiaccola che permetterà all’Unione Sovietica di cancellare dal mondo i torti, le violenze, la corruzione e tutte le sciocche disuguaglianze imposte dallo sfrenato capitalismo che adesso dilaga a occidente! Noi distruggeremo la falsità e le bassezze del mondo! Chi si opporrà a noi brucerà, arso dal fuoco purificatore di Seth!»
   Il colonnello si mosse. Come al rallentatore, Indy lo vide spostarsi verso il carro d’oro.
   Dentro di sé, sentì urlare una voce tonante e imperiosa: quel folle di un russo non avrebbe dovuto porre il suo empio piede sopra la Gloria di Amon, mai, per nessun motivo al mondo! A ordinarglielo non fu la sua coscienza, bensì una voce che proveniva da molto più lontano, da altri tempi e altre dimensioni.
   E quindi, senza pensare per davvero a che cosa stesse facendo, agì come gli veniva ordinato.

 
* * *

   Indiana Jones si slanciò di corsa attraverso il cortile. Si fece largo tra i soldati, abbattendoli a spallate. Colti di sorpresa, quelli lo lasciarono passare per un buon tratto, prima di rendersi conto di ciò che stava accadendo e tentare di reagire. Alcuni gli si pararono di fronte, ma li tolse di mezzo con un paio di pugni ben indirizzati al volto.
   Da ogni parte si levarono mani per provare ad afferrarlo e bloccarlo.
   Ma Indy non era solo. Sallah non lo avrebbe mai abbandonato. Il suo fedele amico, proprio come lo scudiero Menna era rimasto accanto a Ramses II durante la mischia più furibonda nella battaglia di Qadesh, lo stava seguendo da vicino, senza alcun timore. Con calci e pugni, Sallah mandò al tappeto gli uomini che stavano cercando di fermare Indy.
   I due amici, impavidi, sfidando la morte, continuarono a farsi largo attraverso il cortile, fino a raggiungerne il centro. Il professor Smolnikov gli si erse dinnanzi, deciso a impedire che continuassero ad andare avanti verso la loro meta, ma anche lui venne spinto via e reso innocuo con soverchia facilità.
   Ora restava soltanto Volkov. Aveva già una mano appoggiata al parapetto e un piede sollevato, pronto ad appoggiarlo sul pianale del carro. Si era fermato, sbalordito dal trambusto, per capire che cosa stesse succedendo. Quando vide i due uomini che si avvicinavano, si riscosse e cercò di salire sul mezzo. I cavalli, nervosi, nitrivano e battevano gli zoccoli sul terreno.
   Indy saltò, lo raggiunse. Lo afferrò alle spalle e lo trascinò in terra, gettandolo nella polvere. Quello cercò di rialzarsi, ma un calcio nel costato da parte dell’americano lo fece rotolare di lato.
   Poi lui e Sallah saltarono sul cocchio.
   L’egiziano afferrò le redini e incitò i cavalli, mentre Indy, impugnato l’arco di Ramses, incoccò una freccia e prese la mira verso i numerosi nemici che, urlando, stavano correndo verso di loro, con tutta l’intenzione di porre fine a quella piccola insurrezione durata fin troppo. Ma non lasciò partire il dardo.
   All’improvviso, l’archeologo si sentì pervadere da un fuoco misterioso, ardente, che gli riempì le vene. Non era un fuoco doloroso. Era un fuoco divino, un potere che scaturiva dalla luce degli astri che lo sovrastavano, dall’aria che gli riempiva i polmoni, dalla terra che lo sorreggeva, dall’acqua del Nilo che scorreva non lontano. Gli diede vigore, lo fece sentire giovane e forte come non era mai stato, nemmeno nei suoi giorni più gloriosi.
   Alzò gli occhi verso il cielo stellato e, sulle sue labbra riarse, si formarono le medesime parole che, tremila anni addietro, Ramses il Grande aveva rivolto al suo dio per domandargli soccorso in mezzo alle infinte tribolazioni della battaglia. Parole che risuonarono stentoree per tutto il tempio, più forti di una tempesta di sabbia infuocata, più potenti della piena del Nilo, più durature della luce del sole e delle stelle.

   Tutte le terre straniere sono alleate contro di me,
   sono solo, il mio esercito mi ha abbandonato!
   Soltanto il mio fedele scudiero e i miei cavalli, Vittoria in Tebe e Mu è contenta, sono rimasti al mio fianco.
   Ma io invoco Amon e trovo che egli è utile per me più di milioni di truppe,
   più che centinaia di migliaia di cavalieri,
   più che decine di migliaia di fratelli e di figli che siano riuniti insieme!
   Non esiste l’opera di uomini numerosi,
   Amon è più utile di tutti loro!


   E in quel momento accadde l’impossibile.
   I cavalli che trainavano il carro divennero di fuoco, l’oro di cui era rivestito sfolgorò e si rivestì di luce, le frecce di cui Indy si era armato brillarono come fiaccole nella notte. Indy e Sallah stessi parvero essere divenuti di brace, due figure eroiche e divine che combattevano da sole contro un esercito intero.
   La Gloria di Amon, risvegliata in tutto il suo incommensurabile potere, si scagliò in mezzo ai russi che, atterriti da quell’attacco inatteso e da quella visione infernale, fuggirono in ogni direzione, cercando di salvarsi dalla sua ira implacabile. Parecchi, attraversati da quella forza spaventosa, furono inceneriti all’istante, altri vennero fatti a pezzi o schiacciati sotto le ruote divenute dure come il diamante. I pochi sopravvissuti, terrorizzati, fuggirono dal tempio, gridando come ossessi.
   Soltanto Volkov rimase dove si trovava. Si era rialzato e aveva sfoderato la sua spada di bronzo. Gli occhi gli brillavano sinistramente, lucidi di lacrime, abbandonati dal senno.
   Sallah fece girare il carro e lo guidò a folle velocità verso di lui, verso l’ultima carica. Volkov sollevò la spada, deciso a combattere fino alla morte. Indy, che stringeva ancora l’arco in mano, tese il nerbo fino allo spasimo e scoccò la freccia.
   Il dardo sibilò, lasciandosi dietro una scia di scintille come una stella cadente. Attraversò lo spazio libero nel centro del tempio con una precisione perfetta, come se a scagliarlo fosse stato il braccio di un dio, e colpì in pieno petto quel nemico dell’Egitto e degli dèi, che aveva osato servirsi di loro per proclamarsi faraone senza averne il diritto. Sbalzato all’indietro dall’urto, il colonnello Volkov crollò al suolo a braccia larghe, senza un gemito.
   Subito dopo, la Gloria di Amon lo travolse con tutto il suo fulgore, riducendolo in polvere. Polvere che fu immediatamente dispersa da un vento impetuoso che, soffiando improvviso, si levò per alcuni secondi attraverso le porte del complesso sacro.
   Si udì un tuono fragoroso e si vide un bolide di luce attraversare il cielo da parte a parte, illuminandolo a giorno per alcuni secondi. La collera del dio era placata, i nemici dell’Egitto erano stati sconfitti un’altra volta.
   Poi tutto tacque. La Gloria di Amon tornò a essere un normalissimo carro da guerra antico, fragile e prezioso, trainato da due cavalli coperti di sudore e guidato da due uomini sfiniti, stremati e ricoperti di fuliggine.
   Tremando, dopo essere riuscito ad arrestare la corsa dei due animali, Sallah lasciò andare i finimenti e rotolò giù dal carro, cadendo in ginocchio sul terreno. Indy, mollata la presa sull’arco, lo seguì a ruota, respirando a fatica. I due cavalli, spaventati da quello che era successo, diedero un tale strappo da rompere i finimenti e fuggire al galoppo verso il pilone che portava all’esterno del tempio. Il loro stalliere, che per tutto il tempo era rimasto nascosto dietro una statua di Ramses, folle di paura quanto loro per quello spettacolo, li seguì di corsa, agitando le braccia e urlando preghiere in arabo.
   «Ce l’abbiamo fatta, Indy?» mormorò Sallah, cercando di rialzarsi.
   Indy respirò profondamente. Adesso che la potenza divina lo aveva abbandonato, stavano tornando tutti i dolori che aveva accumulato nelle ultime ore. L’aria, calda, era ancora satura dell’odore acre del fumo e del sangue, ma la brezza che giungeva dal Nilo stava già stemperando quei fetidi miasmi.
   Volse lo sguardo e, con sollievo, vide Yasmin, Moshti e i due ex agenti del KGB venire a passi lenti verso di loro. Erano frastornati e confusi, ma illesi.
   Un sogghigno gli si disegnò sulle labbra.
   «Sì» replicò. «Sì, Sallah. Ce l’abbiamo fatta.»
   Le stelle continuarono a rifulgere sulla notte di nuovo in quiete. Un’altra magica notte egiziana il cui segreto sarebbe stato preservato dalle sabbia del deserto e dallo scorrere incessante del Nilo, una leggenda che forse i cantastorie avrebbero narrati agli angoli delle strade o all’ingresso dei bazar.

 
   
 
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