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Autore: Lady A    31/01/2022    0 recensioni
| What if? |
Dal primo capitolo:
"[…] Le catene stringono i polsi fino a sanguinare, le tiro con forza, con rabbia, cigolano ma non cedono. Non cederanno. Resterò per sempre qui, tra i monti verdi. Sola, imprigionata in una follia generata dalla mia mente affamata.
È dura essere soli. Straziante, avvilente, mortale.
Ho catene anche ai piedi. Arranco, cercando di divincolarmi. Serrano con dolore la mia carne, non mi lasceranno mai.
È la mia condanna, la mia punizione, quello che merita una fantasia fervida e ingenua, avida di un amore che non ha senso di esistere.
Non con lui."
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Chichi, Giumaho, Gohan, Goku, Nuovo personaggio | Coppie: Chichi/Goku
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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1
 
Mi sono risolto.
Mi sono voltato indietro.
Ho scorto
uno per uno negli occhi
i miei assassini.
Hanno
 – tutti quanti – il mio volto.
Giorgio Caproni – Il franco cacciatore.

 
“ « […] io penso che la verità sia che tu ti sei innamorato di un volto e un corpo, e poi ci hai messo dentro la persona che volevi trovarci »

[…] «Stai dicendo che ci inventiamo le persone che conosciamo. Questo è assurdo! »

« Ma forse è così. Forse ci inventiamo perfino noi stessi. Facciamo in modo di sembrare quel che vorremmo essere»”

Danza sulla mia tomba – Aidan Chambers



 
 
Stupida, stupida, stupida!

No, non piangere, non devo piangere. 

Non più…

È troppo tardi per me.

Il mondo gira veloce e non puoi riavvolgere il tempo.

Un passo falso. Due passi, falsi.

Tre, quattro, cinque, sei, sette.

Ho vent’anni e la mia esistenza è un proiettile vagante, è vaga spuma di mare.
Piango, urlo, mi arrabbio, poi, fingo un sorriso.

Ho vent’anni e sono terribilmente fuori posto. È come essere immersa in un fitto manto di nebbia, tutto è vago e sfocato; ovunque mi volto sono sola, costretta a correre alla cieca verso una destinazione indefinita.

Ovunque poso lo sguardo, là fuori, c'è solo una fitta boscaglia, che da verde intenso sfocia nel nero più angosciante e profondo, là dove è impossibile scorgere perfino il delimitare della propria esistenza.

Il mondo è un’infinita distesa di foglie e rami, alberi e montagne che si estendono come cadaveri e toccano il cielo.

A me non sarà più concesso.

Tutt’attorno esiste solo la natura e questa casa a cupola, dalle tende a colori e dall’aroma selvatico.
L'autunno ha spogliato i primi platani e faggi, colorato di ruggine gli aceri, tinto di oro, bronzo e nudità le campagne.
Esisto anch’io, ma è come se fossi morta.

Sono morta. Su un ring, ad un torneo, a diciannove anni. O forse molto prima.
Cancellata dall’orgoglio, dalla fermezza e le circostanze.

Sono sempre stata sola, da che ne ho memoria. Racchiusa in un castello come in una crisalide, su una montagna tinta di ciliegio, muschio e more selvatiche. Vivevo di fantasia e nella fantasia.
Il mio eroe mi avrebbe liberata dalla solitudine di quell’esistenza.
Lo avrei amato con tutta me stessa, e lui avrebbe fatto lo stesso. Vivevo d’immaginazioni, arroganza e ingenuità e voglia di spiccare il volo in un cielo estraneo.
Goku. Avevo mutato i sogni nelle sue fattezze.
Avevo strappato una promessa. Sciocca, folle, acerba come un frutto.
Mi ero allenata duramente, appreso tecniche di combattimento, vestita di lividi e graffi, sudore e attese.

Lui non è tornato. L’ho cercato.
Passo falso.
Non mi aveva riconosciuta, non sapeva chi fossi, cosa volessi. 
 

Stupida, stupida, stupida!


 
Una fitta mi attraversa il corpo; il dolore è come un fiume che straripa oltre gli argini. Tremo. Mi spingo con le spalle contro la parete gelida. La luce del tramonto affiora in un cielo infuocato, i raggi investono le piastrelle del pavimento, ma non mi sfiorano.
Sono in ombra.
Sono un’ombra coperta da un velo opaco.
Tasto i miei polsi, ad occhi chiusi. Le lacrime giungono alle labbra come sorsi di veleno.
Non c’è alcuna traccia di amore in tutto questo. In questo male che sento fuori e dentro di me, che brucia e scortica il petto e le viscere e la pelle. Che annienta il respiro e la coscienza. Che immobilizza le gambe, gli arti e i battiti. Addenta il cuore, con un ghigno sinistro e orribile. Lo scarnifica e poi lo rigetta in una rossa poltiglia sanguinolenta.

Perché nessuno parla di ciò che accade ad una donna quando abbandona il nido di casa?

Nessuno mi ha detto quello che andava fatto.

Nessuno.

Solo voci, sussurri, frammenti scomposti, colti dalla servitù. Ascoltate con vergogna e il cuore in gola, appiattita nell’ombra del castello, come uno scoiattolo. E un vecchio volume di anatomia della biblioteca. Ricordavo ogni paragrafo. 

Lui penso non volesse niente.
Solo mangiare e combattere e vivere la propria vita come meglio credeva.


Spingo i capelli dietro le orecchie, il volto tra le mani.
Mordo le labbra, le lacrime cadono come in una pioggia torrenziale. La nausea mi pervade come acque putridi e glaciali; s’insinuano nei polmoni a stappare il respiro, la carne e il cuore.
È come affogare, schiacciata nell’oscurità assoluta.

Vorrei essere cieca.
Vorrei essere sorda.
Vorrei essere morta.

Volevo un amore fatto di sangue e ossa e voce e corpo e pensieri.

Ho atteso.
Le settimane hanno sostituito i giorni. Ho visto le convinzione scivolarmi dalle dita.

Non mi aveva mai baciata. Neanche una volta, neanche per sbaglio. Il mio grembo come un deserto inviolato. Il desiderio di essere donna e madre a riversarsi nella pelle, come l’ombra del mare.

Sapevo non sarebbe stato piacevole.

Lo sentivo.

Ho abbracciato timidamente il mio sposo, attinto la mia bocca nella sua, cercato il suo respiro, il suo petto e battito. Guidato le sue mani incerte lungo i miei seni e la schiena. Il mio corpo nudo e pallido sul suo, contro il suo. Aveva visto bestie e animali riprodursi molte volte nella sua vita. Aveva riso un po’ scioccamente, a disagio, grattandosi il capo. Aveva esitato, gentile, perplesso e ingenuo. Infine era accaduto.
Mi aveva girata d’improvviso, come se non avessi peso.
Non capivo.
Non capiva.
L’istinto lo ha guidato, credo, prendendone il controllo: mutandolo in bestia brutale, gelida e crudele.
Quasi avevo urlato.
Violata di colpo; spezzata, dalla forza selvaggia della sua stretta attorno ai miei fianchi. Dietro di me.

Il fiato fermo in gola e il cuore sordo, cieco, muto.
Morto.

Accucciata, le ginocchia piegate sul letto. Il sale sulle labbra. Nella labbra.

Era una lotta e io ero il suo avversario

Rapidamente tutto è finito. Un sussulto alle mie spalle, gemiti sconnessi e nient’altro. I nostri volti non si sono incontrati. Non ci sono stati baci, carezze, parole.

Mi sono sentita sporca e disgustosa.

È così che deve sentirsi una donna?

No, no, no.

Avrei davvero voluto accogliere un bambino nel grembo dopo una cosa simile?

Non è affatto quello che volevo, che immaginavo.
Non è possibile.

I sogni si sono infranti come onde, su di un letto salato. In ginocchio, come in preghiera.

Ricordo di aver pianto follemente subito dopo.

Lui dormiva, con la serenità nel cuore. Quiete, tenero, innocente e nudo.

Stordita, ho raccolto la mia vestaglia. Mi sono coperta come più potevo, le braccia strette attorno al corpo, la vista offuscata e un dolore nelle ossa, nella carne e nell’anima.
Avvertivo il sangue correre lungo le cosce. Sono strisciata via, sola, disperata e ingenua come una ragazzina. La notte era giovane e bruna in un orizzonte increspato di stelle.
Mi sono distesa tra le braccia d’erba bagnata, una falce di luna alle mie spalle e il mormorio sommesso del fiume.

Piangeva con me e per me.

Ho ascoltato il petto e il corpo tremare.
Ho gridato, picchiato i pugni nel prato, strappato i suoi verdi fili e scongiurato.
Il sonno mi ha poi raggiunta.

Ero nel mio vecchio mondo. Sedevo sui talloni, accanto al camino acceso, le fiamme vive e crepitanti, danzavano riflesse nelle pupille. Il volto della luna spuntava nel cielo, in un abbraccio di stelle. Una fila di finestre a sesto acuto a schiudersi lungo l’intera fiancata della mia stanza. Ero lì, nuovamente nel mio imponente castello. A forgiare e muovere fili immaginari; a formulare storie, trame e discorsi, allontanando ogni logica e realtà. A ricreare un mondo nella mia testa per sentirmi meno sola.
Il mio eroe mi avrebbe salvata, ripetevo.
Goku.
Gentile, allegro, sorridente, puro come cristallo.
I capelli neri scossi dal vento, una presa delicatissima su di me eppure forte con il mondo.
Sarebbe tornato da me. Avremmo avuto dei bambini. Avrei insegnato loro matematica, scienze, fisica, filosofia e tanto altro. Preparato dolci deliziosi e colorati.
Letto storie sulle stelle, sulla luna, sul coraggio e sull’amore. 
 
Stupida, stupida, stupida!



 
L’oscurità avanza all’orizzonte. Ogni luce in casa è spenta, tutto è buio, solitario, vuoto e innaturale. Brividi di freddo toccano la mia pelle, mi stringo nel mio scialle, schiacciata contro la parete.
In trappola, le gambe contro il petto bagnato, scosso dal pianto.
Lui è a caccia o ad allenarsi e meditare. La carcassa di un pesce cotto su un letto di patate, si staglia tra le ombra sul tavolo, quasi a graffiarle. Le orbite fisse nel vuoto, la bocca aperta nell’ultimo istante.
Una vita cresce nel mio grembo, si nutre di me, dei miei respiri e battiti e rimpianti.
Si muove, scalcia, e io sento di essere un mostro.
A volte fingo di sorridere, carezzandomi il ventre.
Immagino il suo viso paffuto, l’odore della sua pelle piccina, il calore del suo corpo rannicchiato contro il mio. E inganno me stessa e il tempo.
Non sono felice.
No, non sono affatto felice.
Dove sono i miei sogni?
Dov’è finito l’amore?
Cos’è l’amore?
Una chimera, un’illusione, una balla colossale, qualcosa di irreale?
Non può essere amore quello che vivo.
Non è amore. Fingo di non saperlo. Fingo che tutto vada bene, risanata nel corpo e nell’anima dal germogliare della vita che tanto cercavo.
Mento a me stessa, ancora, ancora e ancora.
Vorrei tornare indietro, riavvolgere il tempo stesso.
Cosa mi è successo? Avverto le spalle e le mani tremare, irrimediabilmente.
Stringo gli occhi, vorrei gridare e scappare, scappare, scappare.
Cosa ho fatto a me stessa?
Dove comincia la realtà e dove la finzione?
Un malessere mi scava nelle viscere, avvelena il mio sangue, il respiro e i pensieri.
Imprigionata in una vita che non voglio, che non posso accettare.
Le catene stringono i polsi fino a sanguinare, le tiro con forza, con rabbia, cigolano ma non cedono. Non cederanno. Resterò per sempre qui, tra i monti verdi. Sola, imprigionata in una follia generata dalla mia mente affamata.
È dura essere soli. Straziante, avvilente, mortale.
Ho catene anche ai piedi. Arranco, cercando di divincolarmi. Serrano con dolore la mia carne, non mi lasceranno mai.
È la mia condanna, la mia punizione, quello che merita una fantasia fervida e ingenua, avida di un amore che non ha senso di esistere.
Non con lui.

Non ha colpe.

Sono io l’unica carnefice della mia pena.
Lui non sa, non capisce, non immagina.
Lui vive la sua vita e basta, fuori dal mio mondo.
Semplice, puro, ancestrale.
Una stretta in grado di uccidere, lacerare le ossa, lasciare segni nella pelle e nell’anima.
Una forza, cieca e brutale.
Oh, ma non mi avrà mai più!
Nuda, piegata e di spalle.



«Sono a casa!».

La porta si spalanca.
Avanza nel buio del salone, allegro, sudato. Percepisco il suo odore. Avverto lo stomaco contrarsi. Stringo le palpebre e massaggio le tempie con movimenti circolari.
Vorrei solo sparire. Vorrei essere morta e sepolta, vorrei scappare.
La luce viene accesa di getto, come una secchiata d’acqua gelida. Ferisce lo sguardo. Mi sforzo di aprire gli occhi, ancora pateticamente raggomitolata su me stessa.
«Cosa facevi al buio?» chiede, «stai bene?» aggiunge subito dopo, fissandomi o fingendo di farlo.
Potrei essere chiunque.
Sono chiunque per lui.
Mi alzo reggendomi al muro, il peso della pancia rende i miei movimenti impacciati, incerti.
Evito di guardarlo, lisciando pieghe immaginare sul mio scialle.
«La cena è pronta» dico solo e per lui smetto di esistere. E io fingo di continuare a vivere, spezzata come le ali di una colomba che mai più volerà come prima.


 
  
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