Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Bethan__    31/01/2022    1 recensioni
Doveva essere grata per molte cose, cercava di ricordarlo a se stessa ogni giorno. Aveva perso tanto ma qualcosa le era anche stato dato. Non erano tante le cose che rimanevano a chi faceva parte del corpo di ricerca, né particolarmente numerose erano le persone che riuscivano a rimanere vive abbastanza a lungo da costruire dei legami significativi. A lei era stato concesso molto più di quello che era stato concesso a tanti dei suoi compagni.
Genere: Azione, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Levi Ackerman, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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La volontà di imparare


Era già a letto quando le ragazze della sua camerata tornarono dalla mensa, portando con loro conversazioni dal tono allegro e risate divertite. Ci fu un breve silenzio quando notarono la sua sagoma sepolta sotto le lenzuola ma nessuna fece commenti e cominciarono a prepararsi per la notte continuando a discutere in un’atmosfera piacevolmente rilassata. Qualcuno, forse Petra, le appoggiò con dolcezza una mano sulla spalla, lasciandola indugiare lì per qualche secondo. Poco dopo, la stanza fu immersa nel buio e lei non ebbe più bisogno di fingere di essere addormentata.
Si sdraiò sulla schiena, gli occhi che scrutavano il soffitto, impaziente di sentire i respiri delle sue compagne farsi più pesanti. Aveva un gran bisogno di scappare in cucina, sedersi da sola con una tazza di tè e calmarsi. 
Sapeva di essere stata ingiusta con Klaus, lo conosceva abbastanza da essere sicura che non avesse avuto cattive intenzioni. Non le importava che qualcuno pensasse che non fosse forte abbastanza da restare in squadra, non era a loro che doveva provare di essere un elemento valido. Desiderava che le si desse l’occasione di dimostrarlo, però. Voleva che la vedessero rimanere viva abbastanza a lungo da ricredersi. Non era pentita di ciò che aveva fatto, eppure le bruciava la facilità con cui chi le stava intorno l’aveva declassata.
Avrebbe parlato con Klaus, gli avrebbe detto che sapeva quanto il suo intento volesse essere gentile, ma avrebbe sottolineato con fermezza che si aspettava non facesse più nulla del genere. Aveva bisogno di potersi fidare dell’unico vero amico che le era rimasto, altrimenti non avrebbe avuto più niente.
Quando nella stanza gli unici rumori udibili divennero respiri sommessi e lievi fruscii di lenzuola, Lea scostò le coperte e scese dal letto in punta di piedi, attenta come sempre a non far rumore. Quando si chiuse la porta alle spalle, il più silenziosamente possibile, pregò che a Klaus non fosse venuta voglia di intrattenersi nuovamente nelle cucine, magari per distrarsi dalla discussione che avevano avuto a cena.
Per fortuna tutto sembrava buio e tranquillo abbastanza da farle tirare un respiro di sollievo. Tuttavia, quando entrò nelle cucine, quello stesso respiro le si bloccò in gola per la sorpresa. 
“Oh. Scusa, non pensavo ci fosse qualcuno”, mormorò, colta alla sprovvista. Si dondolò sui talloni, a disagio.
Il capitano, seduto all’unico tavolo disponibile, le rivolse uno sguardo imperturbabile. Era esattamente in quel modo che era cominciata, ricordò la ragazza con una spiacevole contrazione dello stomaco. 
“Torno a letto”, fece infine, imbarazzata da quel silenzio prolungato.
Si voltò ed era già con un piede fuori dalla stanza quando Levi aprì bocca.
“Ce n’è abbastanza per due”, disse, riferendosi alla tazza fumante e alla teiera poggiati davanti a lui.
La ragazza esitò solo per un istante. Vinta dal freddo e dal bisogno di non restare da sola, accolse l’invito con un cenno della testa che sperò esprimesse gratitudine. 
Recuperò una tazza pulita e si sedette al tavolo, lo sguardo basso mentre lui le versava la miscela di tè nero che aveva preparato. Aveva un odore confortante, dolce ma speziato.
“Non riesci a dormire?”, gli domandò. Non sopportava l’idea di restare in silenzio e non osava concentrarsi sul fatto che non si fossero trovati più da soli da quell’ultima volta. Esclusa la missione di salvataggio a cui lo aveva costretto nella foresta, si capisce. Bevve un sorso, sperando di scaldarsi.
“Ho del lavoro da finire, sto facendo una pausa”, rispose lui, la voce che non tradiva alcuna emozione.
“Beh, se vuoi posso dare una mano. Non ho comunque in programma di dormire”.
“Per quale motivo?”.
“Domani non ho niente da fare”.
“Hai gli allenamenti”.
“Ho solo gli allenamenti”.
Levi la scrutò in silenzio per qualche secondo. Contro ogni previsione, si era abituato a lei. In modo del tutto involontario, era capace di capire con allarmante chiarezza quando fosse arrabbiata, infastidita, triste o agitata. In quel momento sembrava essere tutte e quattro le cose insieme.
“Vuoi uscire”, osservò con calma.
Lei sollevò lo sguardo, incontrando il suo. Strinse la tazza un po’ più forte, scottandosi le dita.
“Per quanto tempo hai intenzione di punirmi?”, chiese a voce bassa.
Lui aggrottò le sopracciglia.
“Come?”.
“La mia punizione, quanto deve durare? Sai, per essere stata stupida. Un cattivo soldato, indegno della squadra Levi. Un elemento problematico. Quando verrò assolta?”.
Per un secondo, l’attenzione dell’uomo fu catturata dai polpastrelli arrossati della ragazza quando appoggiò la propria tazza di tè sul tavolo. 
“Nessuno ti sta punendo, Lea”.
“Allora perché non mi è permesso partecipare? Perché più passa il tempo, più mi sembra di essere stata buttata fuori? Pensano tutti che così sia meglio, i miei compagni. E lo so che hai parlato con Klaus, che pensi la stessa cosa anche tu. Ma io non lo trovo giusto, ho sacrificato tanto per il corpo di ricerca e mi ritengo un buon soldato e vorrei davvero tanto non essere messa da parte così facilmente perché…”.
“Non alzare la voce”.
Lea tacque all’istante, ritraendosi per riflesso. Era facile dimenticarsi che quello che le sedeva davanti era il suo capitano, dopo tutto quel tempo quando lo guardava vedeva ancora la persona di cui si era stupidamente innamorata.
Imbarazzata, si ordinò mentalmente di controllarsi.
Levi si alzò, la tazza nuovamente piena nella mano destra. Lei non sollevò lo sguardo dal tavolo, perciò emise qualcosa di simile a un sospiro spazientito.
“Vieni”, disse, facendolo suonare più come un ordine che come una richiesta.
Cinque minuti più tardi, erano nel suo ufficio. Lui le aveva dato la propria tazza perché lo aveva seguito senza prendere la sua. Entrambi erano in piedi, la ragazza appoggiata alla scrivania dove le candele lasciate accese illuminavano una quantità spaventosa di carte e documenti macchiati d’inchiostro. La stupì non poco quel disordine ma decise di non fare commenti.
“È per questo che avete discusso, a cena?”, le chiese lui.
A disagio, Lea percorse distrattamente il bordo della tazza con l’indice. Doveva aver dato più spettacolo di quanto avesse pensato. 
“È possibile”, mormorò.
“E qualcuno ti avrebbe detto cosa penso io?”.
“Klaus mi ha detto di aver parlato con te e Sophia sembrava piuttosto sicura che…”.
“Il tuo amico è venuto a dirmi di essere preoccupato per te. Gli ho risposto che, quando sarà capitano, potrà decidere come gestire i soldati di cui si preoccupa ma che per adesso non ho bisogno di seconde opinioni”.
Lea sollevò la testa, sorpresa.
“Dopo il trauma che hai subito alla testa i tuoi riflessi sono lenti, è la ragione per cui passi gli allenamenti più con il culo nella polvere che in piedi. L’unico motivo per cui non stai partecipando alle missioni è che ho bisogno di essere sicuro che tu sia al meglio della forma. Perché Klaus ha ragione, sei tra le migliori risorse della squadra, e se non te ne rendi conto sei davvero stupida come dicono”.
La ragazza dovette appoggiare la tazza sulla scrivania perché le mani avevano iniziato a tremarle. Non sapeva se sentirsi in imbarazzo per essersi lasciata manipolare così facilmente dai propri pensieri negativi, o se avvampare per aver ricevuto quello che era probabilmente il complimento più grande che avrebbe potuto farle.
“Anche tu mi hai dato della stupida”, fu l’unica cosa che riuscì a dire, schiarendosi la voce.
“Io posso farlo, sono un tuo superiore”.
Lei gli lanciò un’occhiata esasperata e ricevette in risposta l’accenno di un sorriso, così impercettibile che qualcuno avrebbe potuto scambiarlo per una contrazione involontaria delle labbra.
Sapeva di doversene tornare a letto, e pure abbastanza in fretta visto la reazione che il suo stomaco aveva a quello sguardo rivestito di uno strato di ghiaccio più sottile del solito, ma non riusciva a trovare la forza di uscire da quell’ufficio. Forse era l’ultima vera occasione che avrebbero avuto per essere soli e voleva prolungarla per il maggior tempo possibile.
“Beh, grazie”, mormorò, la voce densa di sincera gratitudine.
Lui inclinò leggermente la testa.
“Per averti dato della stupida?”.
“Per non aver pensato che sono un cattivo soldato. E per aver scelto di non buttarmi fuori. Non vorrei far parte di nessun’altra squadra, capitano”.
“Smettila di chiamarmi così”.
La ragazza accennò un sorriso triste.
“Sono una tua sottoposta, è così che devo chiamarti”, rispose. 
Lui chiuse gli occhi per un secondo e, quando li aprì, parve improvvisamente molto più stanco di quanto le fosse mai sembrato. Provò l’impulso di scostargli i capelli dalla fronte e accarezzargli una guancia, chiedergli se stesse bene. Cosa lo preoccupasse.
“Lea”, il modo in cui pronunciò il suo nome, con una nota severa ma anche come se non sapesse che altro dire, le diede la spinta giusta per staccarsi da quella scrivania.
“Torno a dormire. Grazie per il tè, il tuo è sempre il migliore”, si sforzò di sorridergli, di suonare gentile. 
Che stupida era stata a pensare di averla superata così facilmente. Erano bastati pochi minuti da sola con lui per sentirsi disgustosamente vulnerabile, imbarazzata dall’ascendente che continuava ad avere sulle sue emozioni. Tenersi a distanza rendeva le cose più semplici, forse ingannevolmente, ma che importava? Avrebbe fatto in modo di non avvicinarsi mai più se significava indugiare per più tempo in uno stato di serena indifferenza. Lo doveva a se stessa, alla sua dignità ma anche al suo cuore.
Non fu sorpresa dalla rapidità con cui agì, era preparata all'idea che avrebbe voluto farle un’altra paternale. Perciò, quando la afferrò per un braccio, impedendole di lasciare la stanza, non si voltò subito. Si sentiva instabile, come se il pavimento avesse preso a ondeggiare. 
“Io non ti posso dare quello che vuoi”, le parlò con quel suo familiare tono duro, che non ammetteva repliche. Che non aspettava di ricevere risposta.
“Non lo sai neanche, cosa voglio”, disse lei, calma.
“Bene. Non ti posso dare quello che dovresti volere”.
Lea si voltò, tirando via il braccio con un movimento brusco.
“Cosa pensi che voglia, di preciso? Il matrimonio? Che passeggi con me tenendomi per mano?”.
I lineamenti dell’uomo si rilassarono ma lo sguardo restò distaccato.
“Dovresti volerlo. Qualcuno con cui poter fare progetti, che possa conoscere i tuoi amici. Che cazzo pensavi di poter evolvere, con me? Cosa credevi potessi darti? Non sei una stupida ma giuro che a volte ti comporti come se non volessi sembrare altro. Mi manda fuori di testa”.
Lea non si rese conto del fatto che il suo respiro fosse diventato irregolare. Percepì tuttavia i battiti accelerati che le risuonavano nelle orecchie, nel petto, nello stomaco.
Fece un passo indietro, cercando di controllarsi.
“Sei un ipocrita”, scandì con lentezza. 
“Tra le altre cose”, replicò freddamente lui.
“No. Non ti permetto di esserlo. Sei un esempio, essere nella tua squadra è probabilmente l’unica cosa che da un valore alle nostre esistenze. E tu rischi la vita ogni giorno, combatti per qualcosa in cui neanche credi. A te non importa del genere umano, non ti interessa cosa succederà. Tu ti batti per un futuro a cui non dai il minimo valore. Come osi non dargli valore?”.
Levi tacque, continuando a fissarla. La ragazza avrebbe voluto sedersi, era impallidita e la fronte era ricoperta da un sottile strato di sudore. 
“Pensi di non poter dare niente. Non vuoi dare niente, non vuoi riceverlo. Te ne stai rintanato nella tua preziosa solitudine, nell’infelicità. Beh, fallo per sempre se vuoi. Ma non ti permetto di ridicolizzarmi per aver voluto tentare. Per aver pensato di essere abbastanza da allontanarti da quell’esistenza desolante che ti piace così tanto. Perché ne stiamo parlando? Mi hai detto di andarmene e l’ho fatto. Perché devi anche farmi sentire così?”.
Non si accorse di aver cominciato a piangere. Restò a guardarlo registrando appena un pulsare doloroso al centro del petto. Lui fece un passo avanti, per un attimo le parve avesse voluto allungare una mano verso il suo viso, ma sapeva di essersi sbagliata.
“Non ho niente da dare. Dovresti saperlo meglio di chiunque altro”. Parlò con calma ma qualcosa era cambiato nella sua voce. Sembrava meno fredda, era più bassa. 
Lea avrebbe voluto spingerlo, o schiaffeggiarlo. Era talmente sopraffatta da non riuscire a capire se fosse più arrabbiata o ferita.
“Se tu non avessi avuto niente da dare, io non ti avrei amato. Puoi riderne, se vuoi. Ma io ti ho amato”.
Levi si sforzò di dissimulare ma lei lo vide reagire con un sussulto a quelle parole. Doveva esserne sorpreso quanto disgustato. La ragazza inspirò profondamente.
Senti, dimentica tutto. Che sia come vuoi tu, d’accordo? Non immaginare un futuro. Non concederti niente, rifiuta l’idea che a qualcuno possa importare di te e, ti prego, continua a fingere di essere incapace di provare affetto per altri esseri umani”.
Finalmente si accorse di avere le guance umide e se le strofinò di scatto, con rabbia. 
“Quello che volevo era solo che ti concedessi una possibilità. Non a me, o a nessun altro. A te. Perché non sei solo una macchina da guerra, sei la persona che ammiro di più, anche con quell’insopportabile carattere scostante che ti ritrovi, tu…”, le tolse sia la possibilità di continuare che di respirare quando la attirò improvvisamente a sé per baciarla in un modo che le risultò tanto familiare da farle male. Dovette appellarsi alla forza di ogni singola cellula del proprio corpo per allontanarlo con quello che voleva essere uno spintone.
“Smettila. Non sono un giocattolo”, mormorò, sconvolta e nuovamente sopraffatta dalla voglia di piangere. Lui, che le aveva permesso di scostarlo solo in minima parte, continuò a tenerla per le braccia, piegandosi leggermente in avanti.
“Non so fare niente di quello che dici”, disse con lentezza, come se stesse pesando le parole. “Non so dare, non so ricevere, non so avere speranza, non so cosa significhi amare qualcuno. Essere amato. Non sto fingendo, io non lo so fare”.
C’era un’inflessione impaziente nel suo tono di voce, ma lei riuscì a coglierne la vibrazione dolorosa. Le stava offrendo molto più di quanto avesse mai offerto, le stava mostrando la sua vulnerabilità. 
Non solo non lo sai fare, pensi anche di non meritartelo. 
“Il tuo primo progetto per il futuro potrebbe essere quello di imparare”, suggerì piano, cercando il suo sguardo. 
“Dimmi come si fa”.
“Sposami”.
Levi sollevò lo sguardo così di scatto che la ragazza non riuscì a trattenersi e scoppiò in una risata nervosa, lievemente isterica.
“Scusa, non ho resistito”, sorrise davanti alla sua espressione esasperata.
Poi prese un respiro perché la gola le faceva male, le sembrava di aver ingoiato un grumo di cenere che le impediva di deglutire come avrebbe voluto. Riusciva quasi a sentirne il sapore.
“Si fa così, condividendo quello che provi, dando fiducia agli altri. Lo stai già facendo”, aggiunse, sperando di incoraggiarlo. Lui socchiuse gli occhi.
“Visto che siamo in vena di condivisioni, penso di aver sbagliato. Non avremmo mai dovuto iniziare e io non avrei dovuto permettere che continuasse. È stato stupido, egoista e irresponsabile da parte mia”.
Lea tentò di ignorare il bruciore al petto che quelle parole le causarono. Cercò di fare un passo indietro ma, ancora una volta, lui glielo impedì e strinse la presa sulle sue braccia.
“È ancora irresponsabile. Ma sento la tua mancanza e non riesco a farci assolutamente niente”. Lo disse con rabbia, quasi con disprezzo, ma lei riconobbe la stessa frustrazione da cui veniva tormentata ogni volta che lo vedeva. Sapeva che non era innamorato di lei, eppure non riuscì a fare a meno di lasciare che la fiammella di una piccola, insignificante speranza si accendesse dentro di lei.
Lasciò andare un respiro che non si era accorta di stare trattenendo. Sostenne il suo sguardo per qualche secondo, alla ricerca di qualsiasi cosa potesse farle pensare che stesse mentendo in nome di un naturale bisogno fisico. Ma non aveva bisogno di farlo, mentire non era nella natura di Levi. Non avrebbe pronunciato una frase del genere se non fosse stata veritiera.
“Quello che puoi fare è trovare un’altra cadetta che venga a letto con te. Sicuramente non lo sai ma sei piuttosto popolare”, disse ugualmente, per tastare il terreno. Lui si accigliò.
“Lea”.
“Stai dicendo che ti manco anche se lo ritieni stupido e sbagliato?”.
La presa sulle braccia si allentò.
Più di quanto riesca a controllare, avrebbe voluto rispondere, ma riuscì a impedirselo. Non aveva bisogno di far sapere a un’altra persona di non riuscire a gestire una cosa tanto elementare, praticamente irrisoria. Non c’era momento in cui quel sentimento non lo avesse riempito di un’irritazione cieca, fastidiosa al punto da dargli la nausea. 
“E se io rispondessi che non voglio saperne più niente?”.
“Sarei sollevato all’idea che tu abbia recuperato un minimo di buonsenso e ti lascerei libera di essere l’unica cosa che dovresti essere. Un ottimo soldato e una giovane donna con tutta la vita davanti”.
Lea alzò gli occhi al cielo, godendosi per un attimo un’improvvisa sensazione di leggerezza che non provava da mesi e che l’aveva investita tutta in una volta, rendendole difficile respirare. Era come se qualcuno, senza alcun preavviso, le avesse fisicamente sollevato un masso dal petto, dalla schiena, dalle gambe.
Gli circondò il collo con le braccia, sfiorandogli i capelli alla base della nuca.
“Sai, penso sia per questo che piaci così tanto. Hai l’aspetto di un giovane uomo e la saggezza di un ottantenne. Una combinazione decisamente attraente e niente affatto irritante”.
Lo vide chiudere gli occhi e non riuscì a capire se il respiro che esalò e che le solleticò il viso fosse dovuto a sollievo, irritazione, o qualcos’altro. Non perse tempo a chiederselo, non con le sue mani che finalmente le lasciarono le braccia per stringerle i fianchi, non con le sue labbra che finalmente cercarono le sue con la stessa urgenza di prima, un’urgenza che i mesi di lontananza avevano reso più brusca. Si abbandonò contro di lui e lasciò scorrere le mani dai suoi capelli, al collo, alle spalle, premendo il corpo contro il suo con forza tale da strappargli un suono frustrato, insoddisfatto. Detestò il bisogno di respirare che la costrinse a ritrarsi per un istante, un tempo che gli diede l’opportunità di concentrarsi su un punto particolarmente sensibile del collo, alla base dell’orecchio sinistro. Rabbrividendo, la ragazza non riuscì a trattenersi dall’esalare il suo nome per la prima volta dopo tanto, troppo tempo, e lo sentì accennare un sorriso quando la baciò ancora, guidandola con decisione e ben poca delicatezza contro il muro accanto alla porta della sua camera. 
“Vieni qui”, sussurrò e la ragazza dovette compiere uno sforzo minimo per lasciare che la sollevasse. Gli circondò la vita con le gambe e si ritrasse il giusto per sorridergli e scostargli i capelli dal viso. Lui non ricambiò il sorriso ma la strinse a sé con più forza mentre, senza alcuna fatica, dovette reggerla con un braccio solo per aprire la porta della sua stanza.


Quel letto era forse l’unico elemento dell’intero edificio a essere sempre morbido e profumato di pulito. Le piaceva, era un odore che aveva imparato ad associare a lui e che perciò la tranquillizzava, facendola sentire al sicuro. 
Se ne stava sdraiata a pancia in giù, le braccia infilate sotto il cuscino, a osservarlo mentre le lasciava scorrere le dita sulla schiena con un’espressione seria e concentrata che trovava estremamente divertente. 
“Ti ho fatto male?”, domandò, le sopracciglia aggrottate, la mano che indugiò su un punto della sua spalla. Confusamente, le sembrò di ricordare di essere venuta a contatto con i suoi denti oltre che con le sue labbra. 
“No”, rispose con un sorriso. “La mia soglia del dolore è abbastanza elevata. Sai che una volta un gigante mi ha quasi spaccato la testa contro un albero?”.
Lui si irrigidì e la mano gli si bloccò una seconda volta.
“Non è divertente”.
“Per te niente lo è mai”.
“Tu che rischi di svegliare mezzo edificio lo definirei divertente”.
Lea arrossì e affondò la guancia nel cuscino, rivolgendogli un’occhiata di disapprovazione.
“Non essere sfrontato, sei un capitano del corpo di ricerca”.
La mano che le percorreva la schiena risalì fino al collo e la ragazza venne attirata più vicino.
“Allora non essere insolente”, mormorò lui abbassandosi per baciarla in un gesto talmente intimo che la face arrossire di nuovo. 
Con un sospiro, si allontanò di malavoglia e si mise a sedere, sporgendosi oltre il letto per individuare i propri vestiti. Le venne da ridere a vederli sparpagliati in modo disordinato a distanza, sul pavimento. Sperò che niente si fosse strappato.
“Cercherò di non esserlo”, disse con sorriso e gli scostò delicatamente il braccio con cui le aveva circondato la vita prima di scalciare via le lenzuola.
“Che stai facendo?”, domandò lui, che si era puntellato su un gomito.
“Vado a dormire. Qualcosa mi dice che se domani arriverò stanca agli allenamenti mi farai rimpiangere il giorno in cui mi sono arruolata, come hai fatto la settimana scorsa”.
Levi fece una pausa, pensieroso. Poi, gli occhi fissi sulla schiena della ragazza, impegnata a districare i nodi che le si erano formati nei capelli, si schiarì la voce.
“Resta. Se ti va”.
Lea si voltò a guardarlo, sorpresa. 
“Davvero?”.
“Non è un ordine”.
L’espressione della ragazza si addolcì. 
“E a te va?”.
“Perché diavolo avrei dovuto dirtelo se non mi andasse?”.
Lea trattenne un sorriso e si infilò nuovamente sotto le lenzuola, contenta nel sentirlo rilassarsi. Non le diede il tempo di dire niente, la avvolse immediatamente con un braccio e la attirò a sé, sdraiandosi sulla schiena e fissando lo sguardo sul soffitto, come per distaccarsi mentalmente dalle azioni che il suo corpo stava compiendo. Lei si sistemò meglio contro di lui, il viso affondato nell’incavo tra il collo e la spalla. Aveva ripreso ad accarezzarle distrattamente la schiena con una delicatezza tale da renderle impossibile il credere che fosse così poco abituato a situazioni del genere.
“Non posso proteggerti”, disse dopo un silenzio così prolungato da averle fatto credere di essersi addormentato. La ragazza sollevò leggermente la testa per guardarlo, interrogativa.
“Non posso trattarti diversamente dai tuoi compagni. Non posso impedire che partecipi alle spedizioni”.
Lea si sollevò su un gomito di scatto e cercò di liberarsi dalla sua presa che però divenne ferrea. 
“Pensi che voglia un trattamento di favore?”, sbottò, indignata. Lui ricambiò il suo sguardo infervorato con tranquillità, sdraiato come se quello scambio non stesse avvenendo. Chiuse gli occhi per un attimo.
“No. Ma io vorrei dartelo”.
“Non lo faresti mai. E io non lo vorrei mai”.
Levi riaprì gli occhi e allungò anche l’altro braccio per guidarla nuovamente verso di lui, stringendola per la prima volta in un abbraccio vero e proprio. La resistenza che oppose la ragazza fu minima, quasi insignificante. Le sfiorò i capelli con le labbra quando parlò nuovamente.
“Ho un ordine”. 
Aspettò qualche secondo prima di fissare nuovamente lo sguardo sul soffitto e respirare profondamente.
“Quello che ho visto nella foresta non dovrà ripetersi. Fai quello che ti pare, prova a salvare chi vuoi,  ma non…”, si interruppe, non sapendo come dare forma ai propri pensieri. 
Toccò a lei chiudere gli occhi, per comprendere meglio quello che non le stava dicendo in maniera diretta. La voleva al sicuro e sapeva che non sarebbe mai stato in grado di ottenere una garanzia del genere, perciò le stava chiedendo di stare attenta. Perché un po’ gli importava di lei. Quella realizzazione le fece contrarre lo stomaco, si sentiva ancora incapace di interpretare tutto quello che era successo quella notte ma avrebbe tanto voluto poter congelare il tempo. Avrebbe voluto il potere di prolungare quel momento così incredibile, così impensabile, all’infinito.
“Quando hai detto che tu non sei la persona adatta perché non vivrai abbastanza a lungo. Non dirlo più”, continuò lui, la voce bassa. 
“Farò il possibile per restare viva”, promise la ragazza, allungando una mano per sfiorargli il viso. 
“No. Mi aspetto che tu faccia l’impossibile”.
“Agli ordini, capitano”.
Inclinò appena la testa per guardarla, un sopracciglio inarcato.
“Sai, quella parola fa tutto un altro effetto quando sei nuda e nel mio letto”.
La ragazza si divincolò il giusto per liberare un braccio e pizzicargli una gamba, consapevole di essere arrossita ancora. Lui non fece una piega.
“Per essere uno che dice di non esserci abituato, sei davvero bravo in queste cose”, voleva essere un’osservazione ma Lea non riuscì a nascondere una nota accusatoria nel suo tono di voce. 
“Sei una brava insegnante, anche se a volte alzi troppo la voce”.
“Non posso credere alla quantità di battute a sfondo sessuale che sto ascoltando”.
Il braccio che le cingeva la vita si allentò leggermente e una mano cominciò ad accarezzarle castamente una gamba, sfiorandola appena, il tocco di chi sapeva benissimo quello che stava facendo.
“Se vuoi posso smetterla con le battute”, disse l’uomo, lo guardo imperturbabile fisso nel suo. Lea rabbrividì e dovette costringersi a una distanza di sicurezza per non cedere. Si liberò dalle sue braccia e si sollevò su un gomito, prendendogli la mano perché la smettesse di percorrerle la coscia.
“Sta’ fermo un minuto”, ordinò, cercando di darsi un tono autoritario.
Lui obbedì, senza smettere di guardarla. 
Compiaciuta, la ragazza analizzò con meticolosità le sue dita, il palmo calloso, il polso sottile. Risalì con lentezza il braccio, i muscoli in evidenza anche se non era in tensione, la pelle calda in contrasto con i suoi polpastrelli sempre freddi. Incontrò qualche segno lungo il percorso, piccole ferite e cicatrici di cui avrebbe voluto conoscere la storia.
“Che stai facendo?”, le chiese quando, dalla spalla, passò al collo e poi alla gola.
“Esploro”, rispose la ragazza, concentrata. 
“Non troverai niente di interessante”.
“Questo lascialo decidere a me”.
La linea della mascella, per una volta rilassata. Le labbra che si dischiusero leggermente al tocco delle sue dita, un naso piccolo e dritto, zigomi alti. Lo costrinse a chiudere gli occhi quando gli accarezzò le guance e risalì a sfiorargli le palpebre. Non lo aveva mai visto dormire, realizzò.
Gli distese la fronte leggermente corrugata e, con una certa soddisfazione, gli passò la mano tra quei capelli morbidi e lucidi che tanto le piacevano. Continuò a farlo per un po’, pensierosa, finchè lui riaprì gli occhi e la guardò in modo tanto serio da metterla in imbarazzo.
“Sei giunta a una conclusione?”, domandò, sembrando sinceramente interessato. 
Lei sorrise.
“Sì. Sei eccezionalmente attraente”.
“Non essere ridicola”.
“Ehi, mia la ricerca, miei i risultati. Non puoi metterli in discussione”.
“Per avere credibilità, una ricerca deve essere giustificata”.
Lea appoggiò nuovamente la testa sul cuscino, tirandosi il lenzuolo fin sopra la spalla. 
“Sono curiosa”, disse piano, con esitazione. 
“Della mia anatomia?”.
“Di te e basta”.
Lui aggrottò le sopracciglia. Non disse che lo trovava assurdo, insensato.
“Cosa vuoi sapere?”.
La ragazza accennò un sorriso.
“Com’è la tua famiglia? Com’è stata la tua infanzia? Avevi degli amici nella tua città? Cosa ti piace? Cosa non sopporti?”.
L’espressione del suo viso cambiò in maniera così evidente da spegnerle qualunque traccia di buonumore.
Lui fissò lo sguardo sulle lenzuola stropicciate. Pensò di voler rispondere, non provava fastidio all’idea di condividere dettagli tanto privati, eppure non riuscì a dire una parola. C’erano delle immagini che minacciarono di affacciarsi nella sua mente, immagini che negli anni aveva faticosamente accantonato, consapevole di non essere in grado di dimenticarle. Fece del suo meglio per tenerle lontane e si chiese invece perché stesse trovando così difficile rispondere. Era vergogna? Paura? No, impossibile. Non gli importava del suo passato. Ma lei gli interessava. Era abbastanza per permetterle di conoscerlo? Non aveva niente di bello da raccontare, non l’aveva mai avuto. Forse era meno distaccato dal passato di quanto pensasse, forse avrebbe trovato più facile raccontare il disastro deludente che era stata la sua vita a qualcuno di cui non gli importava.
Lea gli sfiorò una mano con gentilezza e accennò un altro sorriso, più dolce. Sperò di non sembrare dispiaciuta, come se le facesse pena.
“Ho cambiato idea, voglio sapere qualcosa di più facile. Cosa faresti se tutto questo non esistesse? Le mura, i giganti. Se fossimo liberi. I miei genitori hanno un negozio di spezie, hanno sempre voluto che lo prendessi in gestione ma anche senza il corpo di ricerca credo che avrei scelto una strada diversa. Indovina quale”.
Chiacchierò in fretta nella speranza di distrarlo e cancellargli quell’espressione insopportabilmente assorta, distaccata. Era dolore quello che stava nascondendo, ne era certa. Nessuno aveva quello sguardo senza prima aver sofferto.
Levi comprese quello che stava facendo e le sfiorò la mano a sua volta, in tacito segno di ringraziamento. Dedicava un’attenzione particolare allo stato d’animo altrui ed era brava a dissimulare, un talento che lui non aveva mai posseduto. La sua unica strategia era di tenere alte le mura, renderle impenetrabili, proteggerle con violenza, egoismo, freddezza, solitudine. Impensabile che ci fossero altri modi.
“Saresti un’insegnante”, disse piano.
Lei si illuminò.
“Come hai fatto a indovinare?”.
“Ti ho vista con le reclute più giovani, ti vedo con i cadetti. Sei brava con le persone e loro ti vedono come un punto di riferimento”.
Si sollevò nuovamente su un gomito e la guardò, scostandole distrattamente una ciocca di capelli castani dal viso. Aveva di nuovo le guance arrossate, non credeva di averla mai vista tanto aperta e, al tempo stesso, vulnerabile. Lo infastidì l’effetto che aveva su di lei. Lo infastidì che una persona del genere permettesse a qualcuno come lui di imbarazzarla, renderla allegra, triste, arrabbiata.
“E poi hai una bella voce. Una di quelle che gli studenti starebbero ad ascoltare”, concluse con una cadenza amara che non riuscì del tutto a nascondere.
Anche lei si sollevò su un gomito e gli sorrise.
“Dovrò annotarmi tutti i complimenti che mi stai facendo stanotte o finirò con il dimenticarmeli”.
Levi non diede segno di averla sentita. Le prese una mano, un gesto a cui sembrava essersi abituato con rapidità sorprendente, e iniziò a giocherellare distrattamente con le sue dita. Proprio lui che non toccava né amava essere toccato da nessuno. O almeno, così aveva sempre pensato.
“Nei momenti liberi aiuteresti comunque i tuoi genitori con il loro negozio. Vorresti spostarti di più, esplorare, ma non riesci a lasciarli soli. Così ti fai andare bene le giornate trascorse dietro un bancone, dicendoti che è una situazione temporanea. Ma un giorno ti ritrovi a servire un cliente nuovo, non credi di averlo mai visto. È alto, ha un accento diverso dal tuo, i capelli chiari. Ti trova gentile, pensa che tu sia attraente, gli piace il modo in cui gesticoli quando parli e l’attenzione con cui gli descrivi le spezie che ti ha chiesto di consigliargli. E a te piace come ti guarda e sorride, trovi la sua cadenza interessante e sei felice di vederlo tornare al negozio sempre più spesso”. 
Si fermò per un attimo, sollevando lo sguardo dalle sue dita per assicurarsi che non la stesse annoiando. Lei sembrava totalmente assorta e con un piccolo sorriso gli fece segno di continuare.
“Perciò iniziate a parlare, passate molto tempo insieme, ti racconta della sua città e di tutte le altre città che ha visitato. Ti dice che vorrebbe andassi con lui. Ma tu non puoi, hai i tuoi genitori, i tuoi studenti, i tuoi amici. Non abbandoneresti la tua vita per un uomo. Lui lo capisce e, alla fine, decide di restare. Decide che non vale la pena essere in qualunque altro posto senza di te. Promette di renderti felice e chiede ai tuoi genitori il permesso di sposarti, cosa che ti fa arrabbiare perché Dio non voglia che un uomo chieda a qualcun altro quello che dovrebbe chiedere solo a te. Ma lui è un tradizionalista, non voleva offenderti, la tua risposta è l’unica di cui gli importa davvero. E tu gli dici di sì, ovviamente. Così avrai davanti a te una vita semplice ma piena, mai noiosa, fatta della stessa felicità che sei sempre riuscita a trovare nelle piccole cose”.
Fece per lasciarle andare la mano ma lei, istintivamente, fece scivolare le dita tra le sue. Chiuse gli occhi per un attimo, lasciandosi andare a un sospiro. Poi li riaprì e si ritrovò a fissare uno sguardo distaccato che, in apparenza, non tradiva alcuna emozione. 
“È una bella storia”, disse piano. 
“È la storia che ti meriteresti”.
“E tu quale storia meriteresti?”.
Levi tacque, non sapendo cosa rispondere. 
Non le piaceva quell’aria triste che riusciva a camuffare quasi del tutto, non le piacevano le implicazioni di quel racconto. Sapeva cosa aveva voluto dirle. Che senza le mura avrebbe avuto una vita normale, piena, serena, con qualcuno che avrebbe potuto amarla incondizionatamente e darle tutto quello che desiderava. Una vita che sicuramente non avrebbe compreso il trovarsi nel letto di una persona come lui.
“Forse anche tu avresti un negozio”, esordì senza pensarci, lo sguardo fisso sulle loro mani. “Venderesti foglie di tè, solo le migliori, i prezzi non sarebbero trattabili perché è un progetto in cui hai investito troppo. Tuttavia, quando le giornate diventano particolarmente fredde, offri tazze di tè bollente ai tuoi clienti. Nevica spesso nella tua città e non ti piace l’idea di rispedirli al gelo senza che abbiano avuto la possibilità di scaldarsi. Soprattutto i bambini, che vengono al posto dei loro genitori, e che per qualche motivo che non riesci a spiegarti, ti trovano piacevole. A tratti divertente. Forse è perché nonostante quella perenne espressione corrucciata e le lamentele per il fango che lasciano sul pavimento, hai sempre del latte da parte per loro”.
L’uomo alzò gli occhi al cielo in una finta espressione scettica che la fece sorridere. Gli strinse la mano un po’ più forte.
“Non sei sposato, non ne senti il bisogno. A casa c’è qualcuno che conosci da così tanto tempo da non dover ufficializzare il rapporto perfettamente equilibrato che avete sempre avuto. Siete amici d’infanzia, lei ha sempre saputo che si sarebbe innamorata di te, tu ci hai messo più tempo. È davvero bella, ha i capelli scuri come i tuoi, gli occhi gentili, le mani morbide. Quando rientri sai che il fuoco sarà acceso e avrà preparato il pane e ogni sera sarà felice di vederti allo stesso modo, perché sei la cosa più bella e importante della sua vita e non saprebbe davvero cosa fare o chi essere, senza di te. Tu non hai bisogno di dirle che la ami, non troppo spesso. Non sei bravo con le parole ma a lei non importa perché è talmente ovvio, in ogni tuo sguardo. Ogni notte, prima di addormentarti accanto a lei, pensi a quanto sei fortunato senza soffermarti abbastanza su quanto si senta fortunata lei ad avere accanto qualcuno di così leale e dedito alla pulizia. Non ricorda di aver mai visto una singola mensola impolverata, a casa vostra”.
Le scaldò il cuore vederlo aprirsi in un mezzo sorriso.
“Sarebbe stata una bella vita”, ammise, suo malgrado.
“Può ancora esserlo. Non passeremo la vita a combattere e a nasconderci dietro le mura, prima o poi questa storia finirà. Avrai la possibilità di essere altro, Levi. Ne sono sicura”.
“Prima o poi dovrai anche lasciar andare questo bisogno di assicurarti sempre che gli altri siano felici, lo sai?”.
Lei si strinse nelle spalle, tentando di ignorare un fastidioso nodo alla gola. 
“Al momento mi aiuta a ricordarmi che siamo più di carne da macello di un governo a cui non importa se arriviamo vivi a domani. Perciò lasciamelo, il volermi assicurare che le persone a cui tengo siano felici”.
Levi sospirò, arreso. La sensazione di sconforto si fece più forte, sorprendendolo alla bocca dello stomaco. Si sentì così inadeguato da volersi alzare e lasciare la stanza ma, senza alcun preavviso, lei sollevò le loro mani ancora unite e sfiorò il dorso della sua con le labbra. Era un gesto talmente dolce, intimo, che gli si asciugò la bocca.
“Puoi promettermi che ci proverai? Quando non avremo più mura e giganti e corpo di ricerca. Proverai a pensare di meritarti una vita normale?”.
“Sarai lì ad assicurarti che lo faccia?”.
“Chi altro pensi che avrà il coraggio di entrare nel tuo negozio e pretendere una tazza di tè dopo aver camminato sotto la neve?”.
Lui sorrise ancora e la ragazza non riuscì a non pensare a quanto quell’espressione rilassata gli si addicesse, molto più di quella fredda e infastidita con cui aveva imparato a conoscerlo. Riusciva a renderlo più che affascinante, riusciva a renderlo bello. Le venne voglia di baciarlo ancora, lo avrebbe baciato per tutta la notte se glielo avesse permesso. Le venne da ridere al pensiero di quanto fosse stata convinta di non esserne più innamorata.
“Non sono bravo con le promesse”.
“Fingi che io sia il comandante Smith”, disse lei, e non ebbe neanche il tempo di ridere per la rapidità con cui le fece perdere l’equilibrio e ricadere sul cuscino, attirandola più vicino con il fluido movimento di un braccio.
“Ti avevo detto di non essere insolente”, disse, mimando il tono autoritario con cui si rivolgeva ai suoi soldati. La ragazza rise, per niente scontenta di ritrovarsi nuovamente così vicina da sentire il calore della sua pelle.
“Chiedo scusa, capitano”.
Anche lui si sdraiò, il naso che quasi sfiorava il suo, un braccio ancora saldamente ancorato intorno alla sua vita. Trovò incredibile quanto gli piacesse toccarla, tenerla stretta. Forse era vero, si stava precludendo cose normali che però avrebbe gradito ben oltre la media. Non pensava fosse equilibrato né normale, il volerla tenere in quel letto anche il giorno dopo, e quello dopo ancora. Forse una vita come quella che gli aveva descritto era davvero ciò che desiderava. La tranquillità dell’avere qualcuno con cui parlare tutta la notte, la pace che deriva dal non doversi preoccupare di chi arriverà vivo al giorno successivo. Del non doversi chiedere a chi altro sarà costretto a sopravvivere. Una vita solo sua, in cui avrebbe vissuto solo per se stesso. Un lusso del genere gli sembrava semplicemente impossibile da immaginare.
“E tu, ci proverai? Quando non avremo mura, giganti e corpo di ricerca”, chiese, la voce così bassa da risultare poco più che un sussurro.
Lea esitò. Se sarò viva, pensò.
“Farò del mio meglio”, rispose poi con sincerità. Non sapeva se una vita normale sarebbe mai stata possibile per loro che avevano visto, sentito e sperimentato il peggio. Ma le piaceva crederlo.
“Così potrai conoscere quel cliente”.
La ragazza sorrise.
“Era una bella storia ma hai sbagliato un punto fondamentale”.
“E sarebbe?”.
“Non mi piacciono i biondi”.
Lui accartocciò il viso in una smorfia.
“D’accordo, non sarà biondo”.
Lea posò il braccio sul suo, accarezzandogli distrattamente una spalla.
“Non sono neanche particolarmente attratta dagli uomini alti”.
Le pizzicò un fianco, facendola ridere.
“Non verrò nel tuo negozio di spezie a chiedere ai tuoi genitori il permesso di sposarti”.
“Guarda che non ti aprirei neanche la porta. Aspetterò qualcun altro di non biondo e non alto”.
“Fai ancora un qualsiasi altro riferimento alla mia statura e ti faccio trasferire nella gendarmeria”.
La ragazza tacque, un sorriso a labbra chiuse che le illuminava il viso. Non riuscì a non scostarle i capelli per poterlo vedere meglio.
“Quante storie. Non so più in che modo dirti quanto fastidiosamente bello io ti trovi. Riesci a esserlo anche quando sei ricoperto di sangue, quando ci urli di correre più veloce, quando sei silenzioso, arrabbiato, quindi praticamente sempre, quando…”, mentalmente, lo ringraziò per aver deciso di interromperla con un bacio che era probabilmente solo un modo per dirle di farla finita e stare zitta. Forse avrebbe dovuto farlo, considerando che il giorno dopo si sarebbe quasi sicuramente pentita di tutte quelle chiacchiere sfacciate, dense di sincerità gratuita. Lo attirò più vicino perché non aveva più voglia di parlare, non avrebbe aperto bocca per il resto della vita se fosse servito a rimanere lì. In seguito si sarebbe vergognata all’idea di quanto i giganti, l’esercito e le mura le fossero sembrati problemi insignificanti, praticamente ridicoli mentre lui le baciava la linea della mascella con lentezza esasperante.
Lo sentì produrre una specie di sbuffo divertito quando si allontanò e lei gli arpionò il collo per impedirglielo, contrariata.
“C’era del vino nel tè che hai preparato?”, domandò, seria.
Lui aggrottò le sopracciglia.
“Non l’ultima volta che ho controllato”.
“Possiamo fingere che ci fosse? Così domani non dovrò desiderare che una voragine si apra per inghiottirmi”.
“Ti consideri compromessa?”.
Lea si massaggiò la fronte, facendo una smorfia imbarazzata.
“Ho appena detto che ti trovo bello. Quando sei ricoperto di sangue”.
“Ho sentito”.
“E lo penso davvero. Ma tu avresti anche potuto non venire a conoscenza di questa mia riflessione, non credo te ne dimenticherai facilmente”.
“Sto cercando di decidere se tenerla a mente più o meno dell’altra tua riflessione sul mio essere eccezionalmente attraente”.
Lea strinse le labbra.
“Questo rapporto era già abbastanza sbilanciato dal tuo essere un mio superiore, adesso lo è ancora di più dal mio non saper tenere la bocca chiusa”.
“Pensi veramente che stanotte io non mi sia compromesso?”.
“Solo perché sei venuto a letto con me? Niente che tu non abbia già fatto”.
Lui non rispose, indeciso su cosa dire. Si chiese se lo stesse prendendo in giro e ne ebbe la conferma quando gli sorrise, lasciandogli un bacio leggero sulla spalla.
“Sto scherzando. Ma sulla scia di questa brutale sincerità, avrei una domanda”.
“Strano”.
Lea alzò gli occhi al cielo ma poi increspò le labbra, esitando per qualche secondo, tanto che lui le strinse leggermente un fianco per incoraggiarla.
“Questa cosa. Come vuoi definirla? Vuoi che continui com’è sempre continuata? È cambiato qualcosa?”, chiese la ragazza, cercando di camuffare il nervosismo che minacciava di deformarle la voce. Lui corrugò la fronte.
“È importante solo quello che voglio io?”.
“Sei tu che hai deciso di continuarla e sei tu che hai deciso di finirla, l’ultima volta. Va bene se vuoi finirla ancora, dopo stanotte. Ma ho bisogno di saperlo”.
Riflettè su quelle parole, la mano che aveva ripreso a percorrerle una gamba senza che neanche se ne accorgesse. L’idea di mettere fine a quel legame indefinito non gli recava dolore o tormento ma un considerevole tasso di fastidio. Non sapeva come dare un nome a quello che sentiva, non sapeva cosa fossero o cosa voleva che diventassero, non sapeva neanche se sarebbe stato in grado di spiegarle quei pensieri a parole. Quello che sapeva era che, quando aveva rischiato di morirgli tra le braccia, si era spaventato. E lui non si spaventava. Perdere un membro della sua squadra gli incendiava lo stomaco di rabbia, odiava doverne dare notizia a famiglie gonfie d’orgoglio per il ruolo che i loro figli occupavano nel corpo di ricerca, lo addolorava assistere alla morte di giovani soldati che avevano riposto in lui e nei suoi superiori tutta la loro fiducia e le loro speranze. Ma non provava quella paura fredda e sconosciuta che lo aveva congelato quel giorno, nella foresta. Quello che sapeva era che più di una volta, negli ultimi mesi, aveva sentito la sua mancanza. Era gentile, intelligente, forte, pungente. E a lui piaceva che lo fosse. Non era però sicuro gli piacesse il modo in cui avrebbe voluto chiuderla in una stanza e tenerla al sicuro dal mondo esterno, perchè non sopportava l'idea di vederla in pericolo. Non era sicuro gli piacesse che ne fosse attratto al punto da non avere più voglia di essere etico.
Eppure lei riusciva a farlo sentire meno stanco, meno arrabbiato, meno nauseato dall’esistenza che erano costretti a condurre. Pensava ancora di non avere niente da darle ma sarebbe stato così sbagliato accogliere quello che lei era pronta a offrire? Se lei era pronta a concedergli una possibilità, non avrebbe forse potuto provare a concederne una a se stesso? 
“Non è la prima notte che passo dalle cucine”, disse con studiata lentezza, incontrando il suo sguardo. Lei non disse niente, in attesa. Sembrava trattenere il respiro.
“Questa cosa… non so cosa sia. Ma non è la stessa di prima e non voglio che finisca. Farò del mio meglio”.
La ragazza si aprì in un sorriso radioso che le illuminò gli occhi.
“Mi sembra ragionevole. Io cerco di non finire nello stomaco di un gigante, tu cerchi di lasciarti andare con un altro essere umano”.
“Apprezzerei molto se la smettessi di alludere alla tua morte”.
“Dio, sembri Klaus”.
“A questo proposito, non ho potuto fare a meno di notare che non sia biondo né particolarmente alto”.
La ragazza scoppiò a ridere, sorpresa e divertita al tempo stesso.
“È praticamente mio fratello”.
“Un fratello che sembrava sul punto di baciarti, in infermeria”.
“Stai cercando di cambiare discorso?”.
“Non era chiuso, il discorso?”.
Lei si inumidì le labbra, l’aria pensierosa.
“Volevo solo aggiungere due cose. La prima è che ti chiedo di non mettere in dubbio la mia integrità di soldato. Sei ancora il mio capitano e voglio essere trattata al pari degli altri”.
“E io che avevo in programma di lasciarti passare gli allenamenti a dormire nella tua camerata”.
Non so se ti hanno mai detto che fare del sarcasmo non implica essere per forza divertenti”.
Levi accennò un sorriso paziente.
“Qual è la seconda cosa?”.
La ragazza si morse il labbro inferiore, prendendosi qualche secondo per decidere come formulare la frase successiva. Sperò di non suonare ridicola o sdolcinata o entrambe le cose.
“Vorrei che tu ti sentissi libero di parlarmi. Se questa cosa dovesse annoiarti o non ti andasse più di continuare o ti sentissi arrabbiato, abbattuto, qualunque cosa tu voglia condividere, ti prego di farlo. Senza mentirmi, mai”.
È spaventata. Rendersi vulnerabile rende nervosa anche lei.
Trovò interessante che stesse cercando di farla sembrare una rassicurazione per lui quando, in realtà, era ovvio che fosse lei quella ad averne bisogno. Pensò anche che stesse trovando eccezionalmente facile fare quello che le aveva chiesto, parlare con sincerità. Non c’era niente che gli facesse pensare che non avrebbe voluto continuare a farlo, né che si sarebbe annoiato.
La circondò nuovamente con le braccia, senza guardarla, lasciando che lo abbracciasse a sua volta, come se non avesse aspettato altro. 
“D’accordo. Allenamenti doppi e qualche conversazione, mi sembra equilibrato”.
Sentì la sua risata vibrargli contro il petto e non riuscì a non sorridere.
“Grazie, Levi”.
Incredibile quanto il suo nome suonasse diverso quando veniva pronunciato da lei. Sembrava prendere colore, assumere forma, significato. E anche lui sentiva di aver acquisito consistenza quella notte, forse per la prima volta nella sua vita. Essere un soldato, uccidere giganti, sperare un giorno di capire, erano tutte cose che servivano a dargli un obiettivo. Ma un obiettivo non sempre è abbastanza per esistere. E lei sembrava esistere in un modo totalmente diverso dal suo, un modo che gli sembrava stupido, ridicolo, rischioso, ma che racchiudeva certamente più significato. Trovava incredibile che anche in lui riuscisse a vedere qualcosa di rilevante abbastanza dall’offrirgli così tanto. La sua fiducia, la sua vulnerabilità, le sue preoccupazioni. Gli sembrò giusto offrirle qualcosa in cambio. Tra il poco che aveva a disposizione per scegliere, un frammento di verità gli parve l’elemento più di valore che potesse darle.
“Anche tu hai sbagliato un punto fondamentale, nella tua storia”, disse piano, quasi con cautela. 
“Stai per negare la storia del latte?”.
Lui piegò le labbra in un sorriso impercettibile.
“No. Non ho avuto un’infanzia”.
La ragazza tacque, trattenendo il respiro per qualche istante. Sentiva di doversi tenere stretto quel piccolo pezzo di lui che aveva scelto di darle, forse la prima e unica informazione personale che avesse mai condiviso con qualcuno. Si sentì lusingata per la fiducia che le stava dimostrando ma cercò di parlare con tono di voce normale, che non lasciasse trasparire nulla che potesse assomigliare a tristezza o commiserazione. L’avrebbe odiato. Cercò la sua mano e la strinse appena, delicatamente.
“Ti va di parlarne?”, domandò, gentile.
“Non particolarmente”.
“D’accordo. Vorrà dire che cambierò la mia storia”.
Lui corrugò la fronte, interrogativo.
“La donna che ti aspetta a casa non è la bambina con cui sei cresciuto. È entrata a far parte della tua vita per caso, a malapena te ne sei accorto, anche se a lei è bastato vederti per strada una sola volta per innamorarsi di te. Purtroppo anche in questa storia sei piuttosto carino, non posso modificare troppi dettagli, lei però la renderemo meno bella perché mi infastidisce davvero l’idea di questa persona perfetta che ti prepara il pane ogni sera e tiene la casa in ordine”.
Il sollievo e la sorpresa la investirono in un’unica ondata quando lo sentì ridere. Non riusciva a ricordarsi di altre occasioni in cui fosse successo perché non le sembrava di aver mai sentito qualcosa di tanto bello.
“Stai dicendo che ti infastidiscono i dettagli che tu hai deciso?”, domandò, sinceramente divertito.
Lei si strinse nelle spalle, senza rispondere. Sperò ridesse ancora.
Levi si limitò ad accennare un sorriso, lo sguardo rivolto al soffitto. Apprezzò quello che aveva fatto. Aveva alleggerito una tensione che neanche si era accorto di provare nel modo più naturale e semplice possibile, riuscendo addirittura a divertirlo. Pensò che fosse stato facile, dirle qualcosa di lui. Pensò che avrebbe voluto farlo ancora, anche se aveva poco da raccontare e sicuramente niente che potesse considerarsi piacevole. Era strano sentirsi in quel modo, non gli era mai successo prima di sentirsi così stranamente al sicuro. Per merito di un’altra persona. Era sempre stato lui l’unico su cui aveva potuto fare affidamento e da troppo poco tempo aveva dovuto abituarsi al fatto che troppe altre persone facessero affidamento su di lui.
“Hai sonno? Oggi non ci sono andato piano”, a dispetto di quelle riflessioni, fu tutto quello che gli venne in mente di dire. Ricordava quanto gli fosse sembrata stanca dopo gli allenamenti.
Lei rise.
“No, non ci sei andato piano”.
“Perché la cosa ti diverte?”.
La ragazza rise ancora e scosse la testa.
“Scusa, pensavo ad altro. Tu hai sonno?”.
In un attimo, si accorse di essere effettivamente stanco. Non propriamente assonnato ma, se avesse chiuso gli occhi, era probabile che avrebbe dormito. Anche se c’era qualcun altro nel suo letto. Soprattutto perché c’era qualcun altro nel suo letto. E lui non dormiva praticamente mai.
“Qualcosa del genere. Sei tu che dovresti riposare”.
“Non voglio ancora che questa giornata finisca”, ammise la ragazza, le guance nuovamente tinte di un rosa acceso. 
Levi inspirò profondamente. Nemmeno io, si ritrovò a pensare. Lo disgustava l’idea dell’affacciarsi dell’ennesimo giorno in cui sarebbe stato un suo superiore, il pensiero che presto sarebbe arrivato l’ordine di permetterle di partecipare nuovamente alle spedizioni fuori dalle mura. Più di tutto, odiava il sapere che entrambi avrebbero fatto tutto quello che ci si aspettava da loro. Lui avrebbe continuato a essere inflessibile, etico e letale. Lei avrebbe continuato a obbedire agli ordini e a essere un ottimo soldato. Nessuno dei due aveva la minima intenzione di lasciare che quella situazione influenzasse i loro ruoli. Certo, forse avrebbero voluto, ma nel loro mondo i desideri personali non erano concessi, non erano importanti.
Eppure non c’era il pensiero di un’imminente fine a opprimerlo. Ovviamente era possibile che la volta successiva non sarebbe stata abbastanza fortunata da sopravvivere quando un gigante l’avrebbe lanciata contro il tronco di un albero, ma con un po’ di fortuna avrebbe potuto continuare a vederla, a parlarle, ad averla nel suo letto. L’idea bastava a concedergli un po’ di sollievo.
Stava per farglielo presente quando, cogliendolo di sorpresa, sobbalzò tra le sue braccia. La sua camera, al contrario dell’ufficio, non aveva finestre: perciò non si era accorto del temporale. Per un attimo pensò che qualcuno avesse aperto la porta.
“Che succede?”, domandò, irrigidendosi. 
“Niente”, rispose lei. Non fece in tempo a rispondere che un tuono rimbombò fuori dalla piccola stanza, facendole trattenere bruscamente il respiro.
L’espressione di lui si ammorbidì e rilassò i muscoli che aveva teso.
“Hai paura dei temporali?”, domandò, nella voce una nota di divertimento. 
“Dei rumori forti”, puntualizzò la ragazza.
“Non mi sei mai sembrata particolarmente nervosa durante un temporale”.
“Non lo sono, se ho qualcosa che mi distrae. L’ultima volta ero troppo impegnata a chiedermi se foste vivi, basta avere qualche gigante intorno per non fare caso ai tuoni”.
“Vuoi che ti distragga?”.
Lei accennò un sorriso.
“Sei già una distrazione più che sufficiente, grazie. Mi ha solo colta di sorpresa”.
Eppure sobbalzò di nuovo al tuono successivo, tanto che Levi la strinse più forte e sollevò la coperta perché la coprisse meglio.
“Perché i rumori forti ti disturbano?”, chiese con sincera curiosità.
Lei chiuse gli occhi per un attimo, forte del fatto che non potesse vederla. Nella sua mente si susseguirono immagini dai contorni sfocati, voci e suoni che cercava di tenere lontani, segregati al sicuro dietro una porta che preferiva tenere chiusa. Tutto quello che di brutto le era successo nella vita, non era mai avvenuto nel silenzio. Non credeva sarebbe più riuscita a non associare un temporale a quel giorno nella foresta.
Rimase in silenzio abbastanza a lungo da fargli immaginare a cosa stesse pensando. Improvvisamente si rese conto di non sapere niente di lei, se non quello che gli aveva lasciato intravedere nel pochissimo tempo che avevano trascorso insieme. Sapeva come cavalcava, in quale tipo di combattimento era svantaggiata, la classe del gigante più grosso che aveva abbattuto, i componenti della squadra con cui andava meno d’accordo. Sapeva che era intelligente, spesso inflessibile, che le piaceva far ridere gli altri, quanto fosse testarda e altruista. Eppure non la conosceva. Aveva dei ricordi, certo, sprazzi di scenari a cui aveva assistito da una posizione marginale e priva di importanza. Non aveva dimenticato il giorno in cui avevano perso un soldato di nome Anne, e di come lei avesse pianto silenziosamente per giorni, a ogni allenamento, senza però mai aprire bocca.
“Ho cambiato idea, voglio sapere qualcosa di più facile”, la imitò, facendola ridere. Non si era accorto di aver iniziato a lasciar scorrere una mano tra i suoi capelli, pensieroso.
“C’è un colore che ti piace più degli altri?”, chiese, sentendosi un imbecille. Non aveva mai fatto una domanda del genere e gli sembrò stupida nel momento stesso in cui finì di pronunciarla.
Lei sollevò la testa il giusto per poter incontrare il suo sguardo e gli sorrise, grata. La rendeva stupidamente felice il fatto che si stesse interessando a lei, che stesse facendo uno sforzo. Aveva ancora troppa paura per potersi permettere di fidarsi totalmente, ma non sapeva quanto tempo le restasse e trascorrerlo senza almeno sperare le pareva una scelta ridicola.
“Tutti quelli che non sono il marrone. Non a caso trovo le nostre divise spaventose nella loro bruttezza”. 
“Mi è sempre sembrato che ti stesse bene, la divisa”.
“Sospetto sia perché non mi hai mai vista indossare altro”.
Levi tacque. Per un attimo si chiese se, prima di entrare a far parte del corpo militare, Lea fosse stata una di quelle ragazze spensierate che attraversavano la città in vestiti di cotone freschi e leggeri. Non che ne avesse viste, crescendo. Solo dopo essere diventato un soldato aveva scoperto che il mondo non era tutto un buco buio, umido e sporco in cui le persone vestivano di stracci e puzzavano di vino rancido.
“Mi piace il verde”, disse la ragazza, prima che potesse pensare a cosa risponderle.
“Quello chiaro dei prati che attraversiamo quando usciamo dalle mura. Mi ricorda la campagna in cui i miei genitori ci portavano molti anni fa, prima che aprissero il negozio”.
“Vi?”.
La ragazza sussultò nuovamente, come per riflesso. Non si era accorta di aver usato il plurale. 
“Me e mia sorella”, mormorò piano. Le sembrò giusto condividere qualcosa di personale a sua volta, un pezzo di vita per un altro. Eppure non ebbe la forza di pronunciare il suo nome.
Levi avrebbe voluto chiederle di più, conosceva quel tipo di reazione abbastanza da domandarsi cosa fosse successo a sua sorella. Aveva voglia di sapere come fosse cresciuta e cosa avesse turbato l’equilibrio della sua vita familiare ma non gli piaceva sentirla sobbalzare in quel modo, come se qualcuno le causasse una fitta di dolore improvvisa.
“Anche a me piace quel verde”, disse con sincerità, anche se era qualcosa a cui non aveva mai davvero pensato. “Non mi ricorda niente perché è qui che l’ho visto per la prima volta. Non sapevo neanche esistesse, un colore del genere”.
La ragazza chiuse gli occhi, sentendo di colpo tutta la stanchezza della giornata e della notte insonne. Era quasi certa che il cielo avesse già iniziato a schiarirsi. 
“E il profumo. L’aria ha un odore diverso fuori dalle mura, non trovi? Anche la consistenza sembra diversa. È crudele, sperimentare quello che potremmo avere e farlo rischiando la vita”, riflettè.
Certo che era crudele. D’altra parte, non c’era nulla nella sua vita che non lo fosse stato.
“Levi”, lo chiamò la ragazza, la voce ridotta a poco più di un sussurro. Lui capì che era a un passo dall’addormentarsi e sollevò la coperta ancora un po’, per assicurarsi che non sentisse freddo.
“Sì?”.
Ti amo, avrebbe voluto dirgli. Vorrei restare così per sempre, preferirei vedere il mondo bruciare piuttosto che abbandonare questo letto, non voglio essere in nessun posto e non voglio esistere in nessun tempo che non mi permetta di esserti così vicina.
“Grazie”, disse invece.
Lui corrugò la fronte.
No, grazie a te, avrebbe voluto rispondere. Per quello che sei stata disposta a darmi non solo stanotte, ma dal primo momento. Per avermi fatto capire cosa sono disposto a dare io.
“Per cosa?”, domandò.
Ma lei non rispose, il respiro si era fatto più pesante e la mano che stringeva la sua aveva mollato la presa.
Levi sospirò e chiuse gli occhi, sorprendendosi già abituato a quell’assoluto e naturale senso di tranquillità che lo aveva pervaso. Era ancora nervoso all’idea di intrattenere qualunque cosa stessero intrattenendo, ma l’idea di non farlo riusciva a renderlo ancora più nervoso. Non gli importava. Non ricordava quando fosse stata l’ultima volta in cui si fosse concesso di prendere una decisione solo per sé e averla lì con lui, anche dopo tutto quel tempo, anche dopo il modo in cui aveva cercato di allontanarla, a ringraziarlo e raccontargli la vita che immaginava per lui, bastava. Era abbastanza per fargli scegliere l’impensabile: la speranza.
Si addormentò senza accorgersene.     

  
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