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Autore: _Frame_    07/02/2022    0 recensioni
- Insomma l’ideale dell’ostrica! - direte voi. - Proprio l’ideale dell’ostrica! e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo, che quello di non esser nati ostriche anche noi -.
(Giovanni Verga, Fantasticheria)
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«Io sono l’ostrica, Alberto. Sono nato su uno scoglio ed è lì che sarei dovuto rimanere, perché non c’è altro modo per me di sopravvivere. Ho creduto di essere un pesce più grande di quello che sono, mi sono buttato in una corrente che alla fine mi ha rigettato, e ora non so più a quale mondo appartengo. E se un giorno dovessi finire per nuotare così in là da non avere più la forza di tornare indietro, quando avrò bisogno di aiuto? Cosa ne sarà di me? Non potrò sempre contare sul fatto che ci sarete tu e Giulia a venirmi a ripescare.»
Genere: Angst, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
- Questa storia fa parte della serie 'Le Cronache di Portorosso'
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N.d.A. (1)

Storia già pubblicata (sempre da me, duh) su AO3 al seguente link: L’Ideale del Paguro.

L’ho pubblicata su AO3 per intraprendere una sorta di esperimento, dato che là non avevo mai postato nulla ed ero curiosa di sapere come funzionava tutto l’ambaradan dei tag, dei kudos, eccetera. (E anche perché sono stata l’unica ad aver pubblicato una fanfiction di Luca in italiano, traditori della Patria!)

La torno a pubblicare anche qui perché boh. Tanto per avere tutta la mia roba nel mio solito spazio (xD).

A prescindere da dove venga letta, commentata, criticata, spolliciata, eccetera, ogni lettore è sempre il benvenuto, quindi grazie se vorrai addentrarti in questo piccolo viaggio e ti auguro una buona lettura. :)

 

 

N.d.A. (2)

Ai tempi del liceo, quando gli stegosauri camminavano sulla terra e il megalodonte guadava nelle profondità marine, studiai Verga singhiozzando acido sopra ogni pagina dei Malavoglia che mi toccava leggere ed analizzare per la lezione successiva. Nelle verifiche e nelle interrogazioni, mi accontentavo del Sei politico (sì, come no, ti piacerebbe) e attendevo con ansia il momento in cui avremmo finalmente cambiato argomento, dedicandoci ad altri autori più vivaci e stimolanti, come appunto Collodi o de Amicis o anche Leopardi e Manzoni. Sì, persino Manzoni è più divertente di Verga. Però quella dei Malavoglia è una lettura che mi è rimasta. Credevo che sarei stata felicissima di sbarazzarmi della sua memoria, invece ha continuato a farmi compagnia anche a distanza di anni. Magari aspettava solo di venire fuori tramite questa storia. :)

 

Dedico L’Ideale del Paguro ai miei nonnini scomparsi (tutti e quattro, sigh) a cui avrei tanto voluto far vedere l’originale film della Pixar, dato che ritrae un’Italia più loro che nostra. E la dedico anche a tutti gli infaticabili e retti nonnini che hanno fatto l’Italia prima di noi. ^-^

 

Buona lettura!

 

 

p.s. A meno che non mi sia persa qualche informazione, non hanno mai accennato al nome della mamma di Giulia, quindi ho optato per “Sara”.

 


 

L'Ideale del Paguro

 

 

 

 

 

 

 

- Insomma l’ideale dell’ostrica! - direte voi. - Proprio l’ideale dell’ostrica! e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo, che quello di non esser nati ostriche anche noi -.

 

(Giovanni Verga, Fantasticheria)

 

 

 

 

 

 

 

 

1

 

 

Ce n’erano a centinaia. Le cupole delle meduse si gonfiavano, raccoglievano l’impulso d’acqua nella loro sacca gelatinosa, e si svuotavano emanando una silenziosa pulsazione violacea che ne faceva vibrare il corpo fino ai tentacoli, frustavano l’acqua e fluttuavano nel nero senza fondo, perdendosi come soffioni al vento.

Luca osservò incantato i loro corpi composti da venature concentriche davvero simili a rami elettrici. Voltò una guancia, seguendo la scia del moto ondoso che spostava le meduse in quell’ambiente intangibile e senza profondità. Spalancò gli occhioni nei quali le luci delle meduse si specchiarono, facendoli brillare come grappoli di stelle, nebulose spaziali di un rosa acceso, galassie in espansione. Rimase senza fiato davanti a quell’incanto. Il battito del suo cuore spalancò un tonfo in fondo al petto e salì a gettargli sangue nelle guance, tingendone il candore.

Le meduse gli nuotarono fra le gambe, fecero solletico alle piante dei piedi, vorticarono attorno alle ginocchia e gli sfiorarono i gomiti, salendo ancora più in alto, radunandosi in sciami e poi tornando a dividersi come nubi che sgocciolano, o come fuochi artificiali che si spengono senza botto, senza alcun rumore. Risucchiarono Luca nel loro silenzio e tennero il suo corpo sospeso nel vortice di quell’ambiente dove non percepiva né caldo né freddo.

Luca aprì le braccia, sbatté le mani come un piccolo paio d’ali. Spinse il capo all’indietro per tendere lo sguardo ancor più in alto e raggiungere la fine del nero, dove i grappoli di meduse si rimpicciolivano, lampeggiando sempre più lontani, fino a scomparire come stelle cadenti. Non c’era fine. Non vide né il fondo né lo specchio della superficie.

Distese il braccio verso una delle meduse più vicine, quella che gli era passata sopra la spalla, strusciandogli i tentacoli sulla guancia, e aprì le punte delle dita scoprendosi sorpreso di non trovare la membrana della pinna a squamargli la pelle rosea.

L’indice toccò la cupola della medusa, e quella esplose come una bolla d’inchiostro, una chiazza di acquerello viola che si allarga sul pelo dell’acqua, sfumando in una nuvola e poi scomparendo, dissolta dal nuoto di altri tentacoli dello stesso colore.

Luca rise. Quello spettacolo strampalato lo divertì, lo invogliò ad agitare le dita per raggiungere una seconda medusa e far svanire pure quella in una nuvola di polvere. Ma il galleggiare di altre meduse gli fluttuò dietro la schiena, catturò la coda dell’occhio e lo spinse a girarsi.

Altri banchi di meduse lo circondavano, nuotando a sciami. Galleggiavano come ninfee che si lasciano muovere dalla corrente lenta e placida di un lago disabitato. Una scia di tentacoli lo sfiorò senza procurargli dolore. Due delle meduse si scontrarono, rimbalzarono all’indietro, scossero le punte dei tentacoli che si erano intrecciati, e proseguirono verso l’alto, unendosi alla spirale senza fine.

Luca rise di nuovo. Un palpito di emozione guizzò in fondo al suo cuore e gli alleggerì il petto, facendolo sentire senza peso come quelle creature che gli nuotavano attorno, sfiorandogli i capelli con i loro tentacoli e rimbalzando dopo aver urtato le sue ginocchia o la sua schiena.

Questa volta distese entrambe le braccia, aprì le mani a coppa, raccolse la luce viola di una delle meduse, ne sfiorò la cupola con i pollici, trovandola soffice, senza nuocerle, e fece per chiudere il tocco, per attraversare i suoi tentacoli con una carezza lenta e profonda.

Dal nulla, una mano emerse dal buio dell’abisso e gli toccò la spalla. Una voce lo ricondusse alla realtà. «Luca.»

 

***

 

«Luca.»

Sentendosi chiamare, Luca si destò dal sogno con un sobbalzo, precipitò dall’ambiente composto d’acqua nera, e ricadde seduto a terra, sul pavimento della camera da letto, circondato non dal riverbero tenue e violaceo delle meduse, ma abbagliato da quello acceso e vibrante del sole che entrava dalla finestra.

Un fischio di vento sospirò attraverso la finestra aperta, fece sventolare la tendina contro il vetro, e distribuì un mosaico di luci che si spezzettò fra le pareti, sulle cornici dei quadri, sulle mensole di libri e animaletti di pezza, e sull’armadio guardaroba. C’era vento, quel giorno, e il sole non era nemmeno troppo caldo, ma Luca e Giulia avevano comunque deciso di lasciare la finestra aperta in modo da rinvigorire l’aria viziata e respirare il profumo frizzante e dolciastro della primavera che proveniva dai giardini fioriti e dalla risacca del mare.

Giulia tirò indietro la mano con cui aveva raggiunto Luca, piegò il gomito sul pavimento, e raccolse le guance fra i pugni chiusi, facendo dondolare la matita fra le dita. «Sognavi ancora a occhi aperti?» Trillò una delle sue risate allegre. «Ti eri imbambolato sulla finestra.»

Luca sbatté gli occhi, orientandosi fra le pareti della camera da letto, fra gli scaffali di libri e fra le mensole stracolme di ninnoli e bambolotti di pezza, ma fece ancora fatica a mettere a fuoco, a riempirsi i polmoni d’aria, a emergere dall’acqua calda e nera dove era fluttuato assieme alle meduse. «Oh, i-io...» Si guardò le mani – mani umane –, strinse le dita, le rigirò sui dorsi, le mosse di nuovo, e non incontrò la resistenza dell’acqua. Non stava galleggiando, si trovava in superficie. Le meduse le aveva solo sognate. «S-stavo solo...» Un piede addormentato cominciò a bruciare. Luca spostò il ginocchio piegato sotto di sé e stropicciò le pagine del libro di Storia adagiato fra le sue gambe incrociate. La penna rotolò giù dal libro, cadde sul pavimento, attraversando i fogli degli appunti sparsi attorno a lui, e sbatté contro il piattino dei cantucci. Luca scosse il capo. Tornò a stropicciarsi le nocche sulle palpebre, abbagliato da un raggio di sole che aveva colpito la ceramica del piattino. «Mi ero imbambolato?» Le luci scoppiettarono e si affievolirono. Luci bianche, non rosa e viola come quelle che erano pulsate fra i tentacoli e sulle cupole delle meduse.

Giulia annuì, sistemando il peso poggiato sui gomiti. Fece dondolare le gambe che teneva piegate verso l’alto, sfogliò una pagina della sua ricerca di Geografia scritta sui fogli di protocollo, e strofinò la matita fra i capelli. «Già la seconda volta, oggi, come dopo pranzo.» Prese un sorso dal suo bicchiere di sciroppo alla menta. Da qualche pomeriggio lei e Luca si rinfrescavano con quello, durante lo studio, per trovare un po’ di sollievo dal caldo che ogni giorno si faceva sempre più intenso e opprimente. «Dev’essere l’aria di primavera, di sicuro.» Indicò la finestra aperta con un cenno del capo. «Vuoi che chiudiamo la finestra? Effettivamente rischia di fare troppa corrente.»

«N-no» rispose Luca. Un brivido di incertezza a fargli tremolare la gola. «Sto bene, sul serio.» Riordinò il libro di Storia che teneva aperto fra le gambe, e si ritrovò a fissare con perplessità i faccioni granitici di Cesare, Pompeo e Crasso, incastonati fra le sottolineature dei paragrafi che parlavano del Primo Triumvirato. Una visione decisamente meno confortante rispetto alle meduse che galleggiavano nello spazio nero e senza fine, o alle nuvole bianche che ogni tanto sfilavano fuori dalla finestra. Luca inspirò a fondo. Si concentrò sul profumo di boccioli freschi e di salsedine, e non sul nauseabondo odore di evidenziatore di cui erano pregne le pagine del libro. «Almeno la finestra aperta fa entrare un po’ d’aria fresca.» Pescò un cantuccio dal piattino, l’ultimo. «Mi concentro meglio.»

Giulia questa volta rise proprio di gusto. «Fa aria al cervello, dici? Mi piace questa filosofia.» Diede un altro dondolio di gambe. Abbandonò la matita fra le pagine della ricerca, recuperò le forbici dall’astuccio e ritagliò le immagini con cui avrebbe abbellito la sua tesina di Geografia. «Quanto ti manca con Storia?»

«Solo un paio di capitoli.» Luca rosicchiò piano il cantuccio, senza una vera fame. Girò pagina passando dai faccioni di granito a una panoramica aerea del Colosseo. «Credevo sarebbe stato peggio, a sentire il numero delle pagine che ci hanno aggiunto dopo l’ampliamento del programma, invece ci sono tante figure, occupano spazio, e c’è meno testo di quello che sembra.»

«Lo vedi» lo consolò Giulia, «stai già imparando i trucchi giusti.»

Luca corrugò un sopracciglio. «Trucchi, dici?» Un alito tiepido gli sfiorò l’orecchio. Il musetto di Nerone si sporse dal letto, annusò il cantuccio, e toccò la guancia di Luca stampandogli un bacio umido che lasciò una traccia di scaglie verdi sotto lo zigomo. Luca inclinò il capo di lato, rise, e gli carezzò la testolina.

Giulia puntò la matita contro Nerone. «Nerone, no, cuccia.» Ingrossò la voce, fece un tono più severo. «Niente biscotti, lo sai, i biscotti ti fanno male.»

Nerone guaì. Abbassò le orecchie, intristito, e si appiattì sul letto, spazzolando la coda sulla coperta. Non protestò oltre.

Luca si asciugò la guancia inumidita, facendo ritirare le scaglie, e strofinò un’altra carezza sulla pelliccia di Nerone, consolandolo. Era strano che si arrendesse così facilmente, senza guaire qualche altro mugolo di protesta, o senza sfoggiare gli occhioni dolci per impietosirli. «Anche Nerone però sembra più insonnolito del solito, non solamente io.»

«È la primavera, te l’ho detto.» Giulia, finito il lavoro con le forbici, andò in cerca della colla stick nelle profondità dell’astuccio. «Ma almeno lui si può godere il riposino sul letto anziché sgobbare tutto il pomeriggio come noi due. Non posso credere che il cane stia sul letto mentre a noi due tocca stare sul pavimento.»

«Sei tu che hai insistito per metterci qui invece che sul tavolo in cucina.»

«Perché persino il tavolo della cucina collasserebbe sotto il peso di tutti questi libri.» Giulia abbandonò la colla sopra l’immagine del trullo che aveva appena ritagliato lungo i bordi. Schiacciò la faccia fra le pagine della ricerca scritta sui fogli di protocollo, e sospirò a lungo, svuotandosi il petto. «Santa mozzarella...» Si rotolò sulla schiena, urtando lo spigolo del vocabolario di Italiano, e spalancò le braccia come un martire in croce. Il nasino solleticato dal raggio di sole entrato dallo spacco della finestra, e i riccioli rossi sparpagliati sotto le spalle. «Altro che aria di primavera. Fra un po’ sarà la mia testa a friggere di brutto. Hai mai visto tanta roba da studiare tutta in una volta? Insomma, d’accordo che è la fine dell’anno, ma a tutto c’è un limite.»

Luca si strinse nelle spalle. «Sono gli esami finali. Non possiamo farci niente, credo.»

«Esami di poveri bambini di terza media, non di quinta superiore.» Girò la guancia per rivolgergli lo sguardo. «Lo sai che una volta valutavano anche Educazione Fisica all’esame? Pensaci, pensa che fortuna! Io e te avremmo avuto la promozione assicurata solo con quella.»

«Non siamo messi poi così male, comunque, pure senza ginnastica.» Luca si spolverò le dita su cui erano rimaste incollate le ultime briciole del cantuccio. Si strinse le tempie fra le nocche e tornò a ingobbirsi sul libro di Storia. Il suo sguardo vagò sul muro di testo striato dalle sottolineature dell’evidenziatore giallo e riprese a vacillare, preda di una vertigine che gli impedì di mettere a fuoco le parole. «Se solo tutti questi imperatori avessero litigato un po’ di meno, però, ci avrebbero risparmiato un sacco di problemi, questo è sicuro.»

Giulia si coprì la bocca per soffocare una delle sue risate più squillanti. «Chiedi a Nerone di darti una zampa con gli imperatori romani. Magari ti aiuta a ricordarli per principio.»

Nerone tirò su il muso e rizzò le orecchie. Gli occhioni luccicarono come a voler dire: mi hai chiamato?

Luca lo consolò con un’altra carezza. Massaggiare la morbidezza del suo pelo rilassava pure lui. «Sono sicuro che se solo potesse parlare ci suggerirebbe qualsiasi risposta.»

«Lo so: i cani sono così saggi.»

«E la tua ricerca come sta andando?»

«Quasi finita.» Giulia tornò a rotolare a pancia ingiù e acchiappò il tubetto di colla abbandonato poco prima. Lo stappò e lo spalmò sull’immagine ritagliata. «Mi resta solo da assemblare le figure. Ma secondo me è venuta bene, sono fiduciosa. Un otto me lo merito come minimo.» Stirò il pugno sopra i trulli incollati sul fronte della pagina, girò il foglio, trovò l’altro riquadro lasciato in bianco, e ci appiccicò sopra la panoramica del Porto di Taranto occupato dalle navi militari. Rivolse a Luca un’occhiata più premurosa. «La tua, piuttosto, è quella che mi impensierisce. Sicuro che non vuoi una mano per finirla?»

«Ah.» Luca sobbalzò e si affrettò a sventolare un gesto di rassicurazione. «N-no, credimi, non mi manca molto.» Mise da parte il libro di Storia, evitò di fissare troppo a lungo i quaderni riempiti con gli esercizi di Geometria, per non sentirsi nauseato, e pescò dal pavimento la brutta copia della sua ricerca sulla Lombardia che aveva consumato ben quattro fogli di protocollo scritti su ogni facciata. Sfogliò una pagina che lui aveva decorato con la facciata del Duomo di Milano. Rilesse quel che aveva scritto e si grattò dietro l’orecchio, non ancora convinto del risultato. «Solo che non credevo ci sarebbe stato così tanto materiale su cui studiare. Ogni volta che apro i libri per ricontrollare qualche data, o qualche nome di città, sbucano fuori altre informazioni che non posso fare a meno di aggiungere, e così diventa ancora più lunga.»

«È solo perché hai scelto una regione difficile» rispose Giulia. «Dico, fra tutte quelle che c’erano, proprio la Lombardia?» Lei si era ingegnata e aveva scelto la Puglia. Il materiale di studio non era eccessivo, ma nemmeno troppo scarno. Si era concentrata con le ricerche sui siti storici, sulle tradizioni locali e sulle attrazioni turistiche, piuttosto che sulle cifre dell’economia e sugli altri dati barbosi che comunque si sarebbe dimenticata da un giorno all’altro. Così aveva potuto dedicare più tempo ed energia alla tesina di Astronomia che avrebbe presentato per il voto di Scienze, che era quello su cui aveva sempre avuto intenzione di puntare il massimo fin da settembre. «Se sceglievi il Molise o la Basilicata saresti riuscito a concluderla già la scorsa settimana.»

«Ma così avrei avuto troppo poco da dire» si giustificò Luca, «e invece spero che venga fuori qualcosa di abbastanza impressionabile e notevole da...»

«Mhm?» Giulia ammiccò con le sopracciglia, esibì uno dei suoi sguardi brillanti di furbizia. «Da risaltare sugli altri?»

«No.» Luca strinse le ginocchia al petto e sospirò. Fu un sospiro che non aveva nulla di speranzoso. «Da compensare il fatto che la prova di Matematica potrebbe non andarmi poi così bene.»

«Rilassati» lo consolò Giulia. «Invece andrai benissimo, vedrai. Se hai problemi ti aiuto io. Posso sempre spedirti un bigliettino facendo finta di...»

«Non posso fare sempre affidamento su di te.»

«Sciocchezze. Sì che puoi.»

«Sarebbe comunque barare.»

«Se collaboriamo non è un barare vero e proprio, è una sorta di mutuo soccorso. Ehi, che idea!» Giulia batté un pugno sul palmo e i suoi occhi ripresero a luccicare come stelle. «Non sarebbe forte se ci fosse anche una prova collettiva, all’esame? Secondo me anche il lavoro di gruppo dovrebbe essere una materia importante, o per lo meno valutabile. Piuttosto, se io invece posso fare ancora un po’ di affidamento su di te...» Spostò un paio di volumi sparpagliati sul pavimento, pescò il sussidiario di Italiano e lo esibì davanti a Luca, mostrando un sorrisone furbo e accattivante. «Dopo avrei bisogno di un pochino del tuo aiuto per finire la parafrasi della poesia.»

Luca sorrise, di nuovo di buonumore al pensiero di spostare la sua concentrazione sulla letteratura anziché sui teoremi di matematica. «Quella di Pascoli?»

«No, Leopardi. L’ultima che abbiamo fatto, quella lunga un chilometro.» Giulia aprì la pagina su cui aveva incollato l’etichetta del segnalibro, fece scorrere lo sguardo sulle colonne della poesia senza fine, e gonfiò un broncio affaticato. «Mi mancano ancora cinque strofe e non capisco più niente, credo di aver perso il filo arrivata a metà. Ci credi che quelli della Terza B hanno dovuto pure studiarsela tutta a memoria? Noi l’abbiamo scampata bella.»

Luca ansimò, soffocato da una stretta di terrore. «E se ce la chiedessero per davvero a memoria, il giorno dell’orale?»

«Escluso.» Giulia scosse la testa. «Non è mai successo. Ma almeno imparando bene la parafrasi potremmo...»

Scattò la serratura dell’ingresso, la porta di casa si aprì con un cigolio, Nerone rimbalzò sulle quattro zampe e rizzò le orecchie, fiero come un bracchetto da punta.

«Ragazzi» li chiamò una voce familiare, «sono a casa.»

Nerone salutò la voce con un abbaio. Balzò giù dal letto, scavalcò il libro di Educazione Tecnica facendo svolazzare un foglio di appunti staccatosi dalle pagine, e ruzzolò fino all’ingresso, ad accogliere Sara.

Anche Giulia si raddrizzò. «Oh.» Spinse le mani in fondo alla schiena e gettò le spalle all’indietro, facendo scricchiolare le vertebre indolenzite. «Mamma è tornata.»

La porta d’ingresso si richiuse. Ci fu il trillo delle chiavi dondolate sulla serratura, lo strofinio delle scarpe sullo zerbino, lo scricchiolare delle buste della spesa, e lo zampettare di Nerone che saltellava contento. «Nerone, eri di nuovo sul letto?»

«Bau!»

Giulia stiracchiò le spalle, stendendo le braccia verso l’alto, e strinse il viso in una smorfia. «Meno male.» Le guance ripresero colorito, esposte alla luce del sole e al giro di corrente risucchiato dall’apertura della porta. «Almeno abbiamo una scusa per fare una pausa. Ci voleva proprio, staremmo studiando da almeno un centinaio di ore.»

Luca adocchiò la sveglia sul comodino, accanto alla lampada a forma di faro. Erano le cinque passate. «Oggi è tornata tardi.»

«Sarà ancora occupata nella ristrutturazione del murale di quella chiesa su a Rivarolo.»

«Ancora?» fece Luca, stupito. «Ma è da Pasqua scorsa che ci lavorano.»

«Lo so, povera mammina. Ma almeno...» Giulia strizzò l’occhiolino, come se si fosse trattato di rivelare un grande segreto. «Fra un po’ sarà estate per tutti, no?» Colsero entrambi la profondità di quella frase, la dolcezza custodita fra le sue parole, e se la godettero proprio come si erano gustati i cantucci e lo sciroppo di menta per merenda. Giulia si alzò dal pavimento con un rimbalzo, di nuovo padrona delle energie che nemmeno i versi di Leopardi erano riusciti a insonnolire, e diede la mano a Luca. «Vieni.» Lo aiutò ad alzarsi, e Luca si concesse qualche secondo per far scricchiolare la schiena indolenzita e per massaggiarsi i polpacci formicolanti. Andarono verso la cucina da cui proveniva il frusciare delle borse della spesa.

«Ciao, mamma.» Giulia sventolò un saluto per aria. «Siamo qui.»

Sara finì di piegare il cappotto, lo poggiò sulla seggiola, e si girò mentre ancora stava pettinando una ciocca di capelli dietro il lobo da cui brillò la luce dorata dell’orecchino. «Oh, eccovi, vi credevo spariti.» Si chinò a baciare la fronte di Giulia e strofinò una carezza fra i riccioli di Luca. Sorrise a entrambi. «Come va lo studio? Stanchi?»

Giulia incrociò le braccia sopra lo schienale di una seggiola e lasciò ciondolare il capo in avanti, esalando un lamento melodrammatico. «Distrutti.»

«Nerone era di là con voi?» le chiese Sara. «Non è salito sul letto, vero?»

«Ehm.» Giulia scoccò uno sguardo complice a Luca, posò l’indice davanti alle labbra. «Ma no, figurati.» Luca si coprì la bocca per nascondere il rossore del sorriso.

Sara assottigliò le palpebre per squadrare il viso di sua figlia, riconobbe l’odore delle sue bugie. «Giulietta.»

«Solo per poco.» Giulia sollevò le mani in segno di resa. «E non ha lasciato peli, te lo giuro.»

Nerone scodinzolò, guardò entrambe, e flesse la testolina di lato, capendo solo che stavano sparlando di lui.

Sara scosse il capo, surclassò la faccenda, e ordinò le borse sul tavolo. «Scusate se ho fatto tardi, ragazzi, ma mi sono dovuta fermare in Posta dopo il lavoro.» Estrasse una vaschetta di alluminio dalla busta di carta e la infilò nel forno spento. «Ho preso dello sformato in rosticceria per farmi perdonare. A pranzo avete mangiato abbastanza?»

Luca annuì, mise in frigo le bottiglie di latte che Giulia gli aveva appena passato. «C’erano gli avanzi della lasagna di domenica.»

«Ancora la lasagna?» Gli occhi di Sara s’inumidirono di una triste colpevolezza. «Oh, ma non era troppo stantia? Potevate lasciarla, se non...»

«No, no, affatto» si affrettò a dire Luca, «era ancora squisita.» Ed era vero. La lasagna migliore d’Italia, secondo la sua modesta opinione. Non che lui ne avesse assaggiate altre.

Giulia usò il gomito per punzecchiargli la spalla. «Solo perché tu la lasagna te la mangeresti anche cruda.» Si alzò in punta di piedi per sistemare i pacchetti di farina nei ripiani più alti della credenza. «Ma perché sei stata in Posta, mamma? C’era qualcosa da spedire?»

«Veramente...» Sara cercò qualcosa nella borsa più piccola, quella di tela con il logo della galleria d’arte. «È arrivato qualcosa per Luca. Ecco...» Gli porse un pacchetto avvolto nella carta gialla tenuta ferma da un intreccio di spago, e gli sorrise, sfoderando uno di quei caldi sguardi materni con cui Luca aveva ormai una certa familiarità. Lo sguardo di una mamma che sa. «Spedito da Portorosso, da parte dei tuoi genitori. Sicuramente sarà qualche vestito nuovo, dato che comincia a fare un po’ troppo caldo per gli abiti invernali.»

Il cuore di Luca singhiozzò d’entusiasmo, le sue guance si accesero per l’emozione. La vicinanza dei suoi genitori riuscì addirittura a scacciare la fatica dello studio e l’ansia per gli esami. «Dai miei genitori?» Raccolse il pacco, accettandolo come una piccola sorpresa, e lo strinse al petto. Sotto lo scricchiolio della carta, incontrò la consistenza soffice e cedevole degli abiti ripiegati.

Sara annuì e cercò ancora qualcosa nella stessa borsa. «E anche qualcos’altro per tutti e due.» Fra le sue mani si materializzò una busta gialla. «Una lettera dal vostro amico.»

Giulia fece cadere a terra la busta di spaghetti e Luca strizzò forte le mani attorno al pacco di abiti. Furono entrambi fulminati dalla stessa scarica di emozione che sfrecciò come una saetta attraverso i loro cuori, gonfiandoli di gioia. «Alberto!»

Giulia scavalcò il pacchetto di spaghetti che le era caduto, corse a battere le mani affianco a Luca, a saltellare sul posto, a caricarsi di quell’allegria elettrica che le bruciava in ogni fibra del corpo. «Oh, apri, apri, dai, apri, dobbiamo leggerla subito.»

Anche Nerone si fece contagiare da quella gioia improvvisa e inaspettata, scodinzolò attorno ai due ragazzi, annaspando con la lingua di fuori, in attesa di chissà quale novità.

Luca soppesò la busta troppo rigonfia per contenere solo qualche foglio di carta. «Però sembra un po’ più pesante di una lettera.» Anche la consistenza era diversa, più rigida.

«Magari ha messo qualche fotografia come l’altra volta» considerò Giulia. «Ecco, aspetta…» Pescò le forbici dal cassetto della cucina – le forbici che usavano per tranciare la pizza o il pollo – e tagliò un’estremità della busta. Fece scivolare fuori il mazzo di foto, le mise in luce sotto la lampada in modo che potesse vederle anche Luca. «Ooh.»

Erano foto scattate alla cucciolata di Machiavelli. La prima ritraeva i gattini tutti allineati contro il ventre color nerofumo della mamma, le orecchie piccolissime e gli occhietti ancora chiusi. In quella successiva ce n’erano solo tre acciambellati fra le pieghe della coperta che imbottiva la cesta di vimini dove erano nati. Poi un’altra foto dove uno dei micetti si era arrampicato a sonnecchiare sul guscio di Caligola; un’altra ancora dove erano tutti radunati attorno a Machiavelli che fissava imbronciato la fotocamera mentre uno dei piccoli gli era appeso alla schiena; e l’ultima dove si riconosceva l’indice di Alberto che strofinava una carezza fra le orecchie del gattino ripreso in primo piano.

Girarono l’ultima delle fotografie. Sul retro bianco, riconobbero la calligrafia di Alberto che aveva scritto: già grandi e forti come tigri!

«Che meraviglia.» Gli occhi di Giulia luccicarono d’incanto e di tenerezza. «Machiavelli ha avuto i cuccioli. Che amori.»

«Davvero.» Luca si soffermò su una delle fotografie, quella con Machiavelli sommerso dalla cucciolata, il broncio scuro e le orecchie schiacciate dal peso del micio che si era arrampicato fino alla sua testa. «Aspetta…» Si grattò la nuca, perdendosi in un vortice di confusione. «Machiavelli ha avuto i cuccioli? Mi sono perso qualcosa?»

Giulia ridacchiò. «No, non lui.» Mostrò la foto con la mamma gatta che ronfava nella cuccia di vimini. «La sua... fidanzatina. Ma sono proprio i cuccioli di Machiavelli, sicuro al cento percento. Guarda quanti sono…» Usò l’indice per contarli nella foto in cui erano tutti allineati. «Sei, sette, otto. Otto! Incredibile, è raro che i gatti ne facciano così tanti. La scorsa estate la gatta del vecchio Bernardi ne ha avuti solo tre. Oh, che idea!» Scoccò verso Sara quello sguardo luminoso di meraviglia ed entusiasmo. «E se ne tenessimo uno qui da noi?»

Sara richiuse la dispensa dove aveva appena sistemato la confezione di spaghetti che poco prima Giulia aveva fatto cascare sul pavimento. «Abbiamo già il cane, Giulietta.»

«Ma gli animaletti domestici non sono mai troppi. E Nerone è bravo con i gatti, non gli abbaia nemmeno contro.»

«Vedremo, Giulia, vedremo.» Sarà andò a occuparsi del filone di pane che ripose sul tagliere per affettarlo e sistemarlo nel cestino. «Ma d’estate avrete sicuramente occasione di vederli tutti i giorni. I gatti di porto non si spostano mai troppo, restano sempre nelle vicinanze. E poi forse papà ne terrà uno.»

«Già» annuì Giulia, «e magari potrebbe chiamarlo Principe.»

Luca le scoccò un’occhiata interrogativa. «Principe?»

«Ovvio» fece lei, «come il Principe di Machiavelli. Sarebbe il nome più perfetto di tutti. Anzi, sai cosa? Dobbiamo dirlo subito ad Alberto.» Raccolse la mano di Luca e imboccò il corridoio. «Vieni, scriviamogli la lettera.»

«Ah-ah, solo un attimo, Giulietta.» Sara smise di affettare il pane e le indicò il tavolo, la borsa ancora piena di provviste. «C’è ancora una busta da finire di svuotare.»

Giulia fece ciondolare il capo verso il basso come poco prima, quando si era disperata sulle poesie di Leopardi. «Ooh, ma maaammaaa

«Ci vorrà solo un minuto.»

Giulia si arrese. Si tenne però stretta al braccio di Luca e si alzò a bisbigliargli all’orecchio. «Va’ a preparare la carta da lettere, io arrivo subito.»

«Do una mano anch’io, se vuoi, così facciamo prima.»

Giulia scosse la testa, fece mulinare un indice verso il pavimento. «Cerca piuttosto di raccogliere più libri che puoi prima che mamma entri in camera, così non vede che abbiamo fatto un macello. Ah, e controlla che ci siano avanzati dei francobolli.»

«No, ho già visto ieri» rispose lui. «Abbiamo usato l’ultimo la settimana scorsa, mi sa.»

«Li prendiamo domani andando a scuola, allora.»

Luca annuì. Tenne stretto il pacco di abiti e sventolò il mazzo di fotografie. «Metto le foto al sicuro.» Si avviò.

Arrivato in camera, si ritrovò a fronteggiare il tragico panorama del pavimento sommerso da libri aperti, quaderni ribaltati, fogli svolazzanti e penne rotolate sotto i letti. Lo scenario che si sarebbe aspettato di trovare se qualcuno avesse infilato un petardo acceso in uno scaffale della libreria, facendolo saltare in aria.

Lo scorcio di primavera visibile dietro le tendine svolazzanti stava a poco a poco cominciando a germogliare. C’era appena stato il cambio di guardaroba, la mattina alla fermata dell’autobus si battevano i denti per il freddo, la scuola non sarebbe di certo terminata il giorno dopo, Luca e Giulia avevano ancora tanto da studiare, tutti i temi da finire, i teoremi di Geometria da memorizzare. Nonostante questo, Luca non si fece scoraggiare. Solo il fatto di poter stringere al petto il dono dei suoi genitori e di poter far scorrere fra le dita le fotografie inviate da Portorosso gli trasmise un senso di speranza rinvigorente, ancor più tiepido dei raggi di sole che striavano le pareti e il pavimento.

Camminò in punta di piedi per non inciampare sulle penne e le matite, scavalcò il vocabolario, raggiunse il suo comodino, e si inginocchiò per aprire lo scomparto dove conservava la sua scatolina dei tesori: un vecchio barattolo di latta che una volta conteneva i Bucaneve Doria. Se si chiudeva gli occhi e se si annusava fino in fondo, si poteva ancora percepire il profumo di zucchero e biscotti al burro di cui erano inevitabilmente impregnati anche gli oggetti al suo interno. Luca ci conservava di tutto: il biglietto del treno che lo aveva portato da Portorosso a Genova, i biglietti usati del bus, il biglietto del cinema di quando lui e Giulia sono andati a vedere Lawrence d’Arabia. E poi ancora incarti di caramelle alla liquirizia, lo scontrino della prima volta in cui aveva ordinato un cannolo al bar, una cartolina ritraente la Lanterna di Genova, il volantino di uno stabilimento balneare di Boccadasse, un ciottolo color turchese che aveva raccolto dal vialetto della scuola, un gessetto avanzato dalla lavagna dell’aula di arte, la prima Bic completamente consumata, e anche un fusillo formato da un impasto tricolore.

Sotto il suo tesoro, tenute ferme da un doppio giro di elastico che diventava sempre più teso, erano impilate tutte le lettere giunte da Portorosso nel corso dell’inverno, assieme alle altre fotografie. La presenza di Alberto vibrava in ogni foglio, in ogni pagina di quaderno utilizzata come carta da lettere, in ogni riga buttata giù con quella scrittura sgangherata.

Luca sfogliò un’altra volta le fotografie appena arrivate, s’intenerì nuovamente davanti ai musetti dei gattini appena nati, e fece cadere un foglio a righe piegato in due, una lettera. Lui e Giulia non si erano accorti che ci fosse anche quella infilata fra le fotografie.

Luca la aprì.

 

Caro Luca…

 

Di nuovo fu facile riconoscere la calligrafia un po’ sbilenca e irregolare di Alberto, udì la sua voce pulsare attraverso le righe e giungere al suo orecchio come un lontano eco del mare. Sentì così sciogliersi quel groppo di emozione che gli aveva chiuso la gola e stritolato il cuore quando Sara gli aveva fatto scivolare la lettera fra le mani. Si sentì fluttuare come poco prima, quando aveva sognato di galleggiare in mezzo alle meduse prive di peso, in quell’ambiente amniotico fatto di pace e silenzio.

Luca si strinse la lettera al petto, rotolò sulla schiena, senza preoccuparsi di aver stropicciato una pagina del suo libro di Storia, e si lasciò scuotere da una risatina allegra e priva di preoccupazioni. Sognò l’arrivo dell’estate, il suo ritorno a Portorosso, quando avrebbe rivisto i suoi genitori, e Massimo, e Machiavelli, e i suoi cuccioli. E Alberto.

Catturato da un soffio di vento passato a solleticargli il naso e a scuotergli i riccioli, Luca si alzò a scostare la tendina, incrociò le braccia sul balcone della finestra, e si affacciò al cielo di Genova che ogni pomeriggio si faceva più limpido, slavato dalla polverosa patina grigia che lo aveva tenuto sporco per tutto l’inverno e che ora si stava gradualmente sciogliendo come la neve squagliata dalle montagne più lontane.

Inspirò a fondo, lasciando che l’aria scendesse fino allo stomaco. Il calore del sole gli solleticò il naso, ma la sua luce non gli fece male agli occhi, gli permise di guardare oltre i tetti di Genova, oltre i palazzi color pastello accostati uno all’altro come tessere di Domino, oltre i comignoli, oltre le antenne televisive. Le terrazze rigogliose di gerani, i panni stesi fra un balcone e l’altro, i gabbiani che stridevano e che volavano in cerchio. In lontananza, la distesa di mare striava l’orizzonte, luccicante e piatta come una lamina di metallo, imboccata dai larghi lastroni di cemento che emergevano dai locali del porto, sormontati a loro volta dalle braccia colorate delle gru che popolavano i cantieri dove le navi riposavano pacifiche.

Il cielo sul mare era terso. Solo qualche irrilevante e innocuo sbuffo di nuvola a galleggiarvi dentro. Un cielo già prossimo all’estate, un cielo carico di speranza. Lo stesso azzurro che in quello stesso giorno splendeva anche fra le case e sulle strade di Portorosso.

   
 
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