Film > Luca
Segui la storia  |       
Autore: _Frame_    08/02/2022    0 recensioni
- Insomma l’ideale dell’ostrica! - direte voi. - Proprio l’ideale dell’ostrica! e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo, che quello di non esser nati ostriche anche noi -.
(Giovanni Verga, Fantasticheria)
---
«Io sono l’ostrica, Alberto. Sono nato su uno scoglio ed è lì che sarei dovuto rimanere, perché non c’è altro modo per me di sopravvivere. Ho creduto di essere un pesce più grande di quello che sono, mi sono buttato in una corrente che alla fine mi ha rigettato, e ora non so più a quale mondo appartengo. E se un giorno dovessi finire per nuotare così in là da non avere più la forza di tornare indietro, quando avrò bisogno di aiuto? Cosa ne sarà di me? Non potrò sempre contare sul fatto che ci sarete tu e Giulia a venirmi a ripescare.»
Genere: Angst, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Le Cronache di Portorosso'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

2

 

 

Alberto spalancò le braccia per raccogliere il nuoto del banco di sardine verso cui era andato incontro, spinse le mani palmate verso lo scuotersi dei pesciolini che si muovevano come un unico grande corpo che vibra, e sbatté forte la coda per spaventarle e indirizzarle dentro la rete.

Le prime sardine toccarono la rete, tornarono indietro come se avessero preso la scossa, e crearono un guizzo che vibrò attraverso l’intero banco, agitando sciami di bollicine ingrossate dal dimenarsi delle pinne e delle code. I pesciolini si divisero, fuoriuscirono dall’abbraccio della rete come i frammenti di un’esplosione, uno scoppio di luce azzurra e argentata. Nuotarono addosso ad Alberto e lo spinsero nella direzione opposta alla rete, gli schiaffeggiarono il muso, gli beccarono le braccia e le gambe, e lo costrinsero a ripararsi gli occhi, lasciandolo accecato per il breve istante di quella fuga.

«Ghn!»

Trascinato, Alberto sbatté sulla rete che gli si deformò attorno. Riaprì gli occhi e individuò alle sue spalle l’orda argentata delle sardine che si sparpagliarono, che rallentarono il nuoto, e che tornarono a ricomporsi. Alberto strinse le zanne, masticò un ringhio di rabbia che gli fece accapponare le scaglie. «Bestiacce.» Frustò la coda addosso alla rete, affondò una sbracciata per darsi la spinta e inseguirle. «Tornate q...» Una zampa gli rimase incagliata fra i nodi della rete, lo imprigionò con uno strattone.

Alberto scosse la coda, tirò di nuovo. La corda gli grattò la caviglia e strinse più a fondo, la rete si tese e fece dondolare la barca che si inclinò sotto il suo peso, sprofondando a poppa con un cigolio. Colto da un bruciante spasmo di irritazione e impazienza, Alberto si afferrò il ginocchio, gettò le spalle all’indietro, sbatté due volte la coda e distribuì una lunga frustata di bolle che schiumò verso la superficie dell’acqua. La corda della rete gli grattugiò le squame e non accennò ad allentarsi, tenendolo prigioniero nella sua ruvida morsa.

Un braccio infranse la superficie, sprofondò nell’acqua, afferrò l’intreccio della rete, e ripescò Alberto dal mare, molle e gocciolante, come se si fosse trattato di una sardina rimasta vittima della loro stessa trappola. Lo fece ricadere sul fondo della barca. Gli schizzi di quel tonfo improvviso investirono Machiavelli che rizzò il pelo e che saltò sulla prua, mettendosi al riparo. Machiavelli si leccò la zampina, appiattì le orecchie, arricciò la coda attorno a sé, e fulminò Alberto con uno sguardo omicida.

Massimo brandì la lama del coltello, gettando un lampo di luce dello stesso colore del sole, e tranciò di netto la rete. «Stai bene?» Liberò Alberto e sbatacchiò le corde gocciolanti e sporche di alghe. «Sei ferito?»

Alberto sospirò, gonfiando il petto ancora attraversato da un cordone della rete. Attirò a sé il braccio che ciondolava fuori dalla barca, e se lo portò davanti alla faccia per ripararsi dalla distesa di azzurro smaltato che gli era lampeggiata contro gli occhi appena tornati alla luce. Sì, nell’orgoglio. Scosse un’anca per sgarbugliarsi dalla rete appena tranciata da Massimo, fece scivolare la coda a bordo, e si mise a sedere per massaggiarsi la zampa. «Tutto a posto, mi ero solo impigliato.»

«Mi hai fatto spaventare.» Massimo si calcò il basco sul capo e rivolse ad Alberto uno sguardo sottecchi, dalla penombra. «Sei rimasto sott’acqua troppo a lungo.»

Alberto soffocò una risatina in fondo al petto. Smise di massaggiarsi la zampa e strusciò il braccio sul muso bagnato, nascondendo il piccolo ghigno che era brillato fra le zanne. «Io sott’acqua posso respirare, te lo ricordo.»

Massimo si strinse nelle spalle. «Dimenticarselo è più facile di quello che sembra.» Rinfoderò il coltello nella cinta, si chinò ad arrotolare le reti che aveva raccolto dentro il gomito, e spiegò uno dei panni di stoffa che conservavano sotto la panca. «Tieni.» Avvolse il panno attorno alla testa di Alberto, gli diede una veloce strofinata alla schiena. «Non prendere freddo. C’è corrente.»

Alberto rise da sotto il panno che gli avvolgeva la testa come un cappuccio. Frizionò i capelli, si asciugò la faccia, e inspirò forte dal naso, riabituandosi alla carezza della brezza di mare soffiata fra i riccioli, alla sensazione tiepida del sole formicolato sulla pelle abbronzata. «Comunque, è sempre il banco che abbiamo rincorso anche ieri.» Si scollò un’alga dalla spalla, ritirò le squame passando il panno asciutto sull’ultimo rivoletto d’acqua che si era sciolto lungo la pelle del braccio, e frustò la coda all’aria, facendola sparire. Lo stesso rapido guizzo con cui erano svanite anche le sardine. «Sono più svelte del solito, sarà la stagione. Sarà qualcosa della primavera a farle nuotare così velocemente, non lo so.» Frizionò il panno anche dietro il collo, lungo le spalle, e lo abbandonò sulla panca. «Ma se ci sbrighiamo questa volta le acchiappiamo.» Si sporse dalla barca. «Sono andate verso...»

«Non avere troppa fretta» gli disse Massimo, paziente. «La fretta e il mare non sono mai andati d’accordo.»

«No, sul serio, se adesso torno a tuffarmi le riacciuffo in un baleno.» Alberto si strinse una spalla, fece roteare il gomito per sgranchirsi le giunture, e si sbilanciò verso il suo stesso riflesso specchiato sul mare, pronto a tuffarsi. «Fammi riprovare.»

Massimo mollò la carrucola delle reti e gli agganciò l’indice attorno alla cinta. «Equilibrio, Alberto.» Frenò il suo tuffo e lo trattenne sulla barca. «Ricorda che il vero compito del pescatore è il mantenimento dell’equilibrio fra mare e terra.» Socchiuse una palpebra, rivolgendogli uno sguardo più affabile e complice. «Tu dovresti esserne un esempio.»

Alberto alzò gli occhi al cielo ma incurvò le labbra in un sorriso, incapace di resistere al pizzicore che gli aveva accaldato le guance. Obbedì, nonostante il sospiro rassegnato. «E io che invece speravo di poter squilibrare un po’ di più la barca caricandola di pesci fino al cielo.»

Massimo premette il piede sul motore, diede uno strattone alla leva. «Intanto pensa a sistemare quelli che abbiamo già preso.» Il motore scaricò una nuvola di fumo color ferro e si accese, allungando un borbottio che fece vibrare l’intera barca. Massimo si asciugò sui pantaloni la mano sporca d’acqua e di olio. Guardò lontano. L’occhio acuto ed esperto che sarebbe stato persino in grado di scavare fra gli scogli e di scendere fino all’oscurità dei fondali, dove non arrivavano nemmeno i raggi del sole. «Fra un po’ poi è la stagione dei totani. Se proprio ci tieni a riempire la barca, allora possiamo anche uscire un paio di volte durante la notte.»

Alberto sgranò le palpebre. «Sul serio?» Batté le mani e si strofinò i palmi, già pregustandosi il momento. E pregustandosi la carne dolce e tenera dei totani cotti alla griglia. «Grandioso! Io di notte vedo benissimo, giuro, posso scendere fino al fondale e...»

«Senza immersioni subacquee.»

«Ooh, uffa.»

Massimo si sfilò i guanti dalla tasca e glieli passò. «Al lavoro, marinaio.»

Alberto accettò i guanti – E che lavoro sia –, e guardò sconsolato verso il punto del mare dove il banco di pesce si era disperso, oltrepassando le boe galleggianti e nascondendosi fra le rientranze degli scogli più vicini, quelli circondati dal volo dei gabbiani. Scavalcò la panca per inginocchiarsi sul fondo della barca e cominciare a raccogliere le sardine che avevano catturato nelle prime ore del mattino. Le suddivise nei tre secchi riempiti d’acqua solo a metà.

Alcuni dei pesciolini si dimenavano ancora, uno di loro riuscì a balzare più in alto degli altri e a cascare di nuovo in acqua, scomparendo con un colpo di coda. La maggior parte stava esalando gli ultimi spasmi di vita. Le pance rigonfie e pulsanti, gli occhi allucinati fissi nel vuoto, le branchie spalancate, e le testoline che spingevano fra le altre in cerca dell’acqua più fresca, di uno spazio buio dove il sole non batteva.

Il moto della barca oltrepassò i piloni bianchi, spalmando la sua scia fra le creste d’onda. La brezza di mare alitò su Alberto, gli attraversò i capelli e gli fischiò nelle orecchie. Lo raggiunse l’odore polveroso del maltempo che fino alla sera prima aveva continuato a sporcare il cielo di Portorosso, il lezzo del guano di cui erano incrostati gli scogli cariati dalle onde, e quello acidulo della spuma di mare tinta dal verde delle alghe che erano galleggiate in superficie durante la bassa marea.

Alberto riempì il primo secchio e divise le altre sardine fra i due rimanenti. Mentre lavorava, rimuginò sulle ultime parole di Massimo, borbottando a bassa voce. «Equilibrio, equilibrio...» Spinse il gomito sul ginocchio piegato, affondò il mento dentro il palmo inguantato, e mostrò quel sorriso ancora un po’ pensieroso a Machiavelli che se ne stava appollaiato a poppa. «Sei tu quello che tiene la barca in equilibrio, oggi, Machiavelli? In fondo...» Gli punzecchiò il pancino foderato di pelliccia. «L’inverno ti ha reso ancora più rotondetto di quello che già sei.»

Machiavelli imbronciò il muso, gonfiò una cresta di pelliccia e scosse la punta della coda arrotolata, allungando un mugugno basso e minaccioso. Squadrò Alberto con occhi che parevano lanterne nel buio: lo stesso sguardo spietato con cui inchiodava le sue prede prima di saltargli in faccia.

Alberto rise, per nulla intimorito. «Scusa, scusa, hai ragione, i gatti rotondetti sono sempre i più carini.» Pescò una sardina dal gruppo, scegliendo una di quelle immobili, e la offrì a Machiavelli come se si fosse trattato di deporre un mazzo di fiori sull’altare di un idolo di marmo. «Ecco, pace fatta?»

Machiavelli alzò gli occhi al cielo, sciogliendo la rigidezza del broncio. Addentò il pesciolino, accettando l’offerta di pace, ma si girò a rosicchiare la sardina senza dare ad Alberto la soddisfazione di godersi le sue fusa. Un gabbiano scese dal cielo, sbatté più forte le ali per immettersi nella corrente sollevata dal moto della barca, e stridette verso le sardine fresche che si dimenavano nei secchi e in mezzo alle gambe di Alberto. Il suo becco ingordo non fu tanto fortunato quanto le fauci di Machiavelli.

Tenendo le mani impegnate col lavoro, Alberto alzò lo sguardo verso il volo del gabbiano, e di nuovo dovette restringere le palpebre per non finire abbagliato dall’azzurro così acceso e vibrante del cielo prossimo a mezzogiorno. In mare aperto, l’aria profumava di dolce, dei germogli fioriti che erano sbocciati sugli arbusti delle isolette circostanti. E profumava anche di sale, della risacca rimestata dalle onde della marea. Il calore del sole gli fece solletico alle guance e alla punta del naso, depose una piacevole scia di brividi sotto gli abiti ormai asciutti. L’orizzonte così terso, una linea netta fra cielo e mare, gli permise addirittura di cogliere le frastagliature delle isolette più lontane, le corone di vegetazione verde che brillavano tutt’attorno ai picchi di roccia.

La primavera ormai era arrivata, l’estate era prossima. E l’idea dell’estate così vicina illuminò altri pensieri, fece affiorare memorie preziose. Chissà se anche a Genova oggi c’è il sole?Di nuovo Alberto tornò a spingere le nocche sotto il mento, a far riposare il capo fintanto che lo teneva reclinato verso l’alto. Lo sguardo vagò fra le nuvolette di pensieri che sbocciarono una sull’altra. Chissà se si vede lo stesso cielo? Un sospiro più lungo e trasportato gli alleggerì il peso sul petto. Lo stesso cielo che ora starà guardando anche...

La barca di Tommaso emerse dall’orizzonte, sfrecciò in direzione opposta alla loro, facendo fuggire il gabbiano, e rallentò, richiamando persino l’attenzione di Machiavelli che si stava leccando i baffi dopo aver divorato la sardina fino alle lische. «Buongiorno, Massimo!» Tommaso lo salutò con una sventolata del braccio, tenendo una gamba piegata sul motore e l’altra mano aggrappata alla ringhiera. «Pesca grossa stamattina?»

Massimo staccò la mano dalla leva del timone e sollevò il braccio per ricambiare il saluto. «Solo qualche pugno di sardine. Ma stasera andiamo a totani per compensare. Ti unisci a noi?»

Tommaso rise, calò la frontiera del berretto. «Il vino e la verdura di contorno per la grigliata li metto io. Non partite senza di me!»

«Ci contiamo.»

La barca di Tommaso sgasò lasciandosi dietro la sua coda di spuma bianca e ribollente, l’onda li raggiunse e li fece dondolare, costringendo Alberto ad aggrapparsi con una mano al bordo per non cadere di schiena. Con la risacca dell’onda giunse anche l’occhiata sbieca di Tommaso, il suo sorriso sbiadito, il suo sguardo velato d’ombra e di diffidenza che era scivolato con cautela su Alberto, come se si fosse trattato di sorvegliare una belva pronta a sguainare gli artigli e ad azzannarti la schiena proprio quando sei di spalle, a tradimento. Quell’immagine era sempre accesa e limpida nei pensieri di Alberto: un guardiano dello zoo che allunga le braccia fra le sbarre e che strofina affettuose carezze sul muso della tigre, ma che all’ora di pranzo apre uno spiraglio della gabbia, molla la bistecca al suo interno, e che esce camminando all’indietro come un gambero, senza darle l’occasione di saltargli alla schiena e di saziarsi con qualcosa di più succulento.

Strinse i pugni, sentì le unghie graffiare la stoffa interna dei guanti.

Dannazione.

Sperava che adattarsi alla vita sulla terraferma sarebbe stato più immediato, o quantomeno più facile. Credeva che, tolto di mezzo Ercole, almeno nei mesi freddi, sarebbe stato più semplice convivere con gli altri pescatori, adattare Portorosso alla sua presenza. In parte era successo, ma non quanto avrebbe voluto.

E se invece non dovesse mai essere abbastanza?

Si strinse nelle spalle, sentendosi d’improvviso così piccolo e solo, anche se sorvegliato da Machiavelli, e anche se circondato dalle sardine che gli rimbalzavano attorno alle caviglie. Si grattò un braccio per scrostarsi di dosso quel disagio. Non era facile come strofinare via l’acqua dalle squame.

E se i miei sforzi non dovessero comunque servire a nulla, anche a lungo andare? Se fossi destinato a rimanere per sempre il Mostro Marino e niente di più?

Credeva di essersi fatto il callo, dopo un intero anno di convivenza, adattamento, fiducia e diffidenza, e invece sguardi simili avevano ancora il potere di ferirlo, di bruciargli attraverso la pelle come il taglio di una lama. O lo sfregio di un arpione. La salda presenza di Massimo però gli dava sicurezza, lo rendeva capace di aggrapparsi e di resistere.

Ma se cominciassero a diffidare persino di lui?

Questo era il suo incubo. La conseguenza peggiore sarebbe stata vedere quella confidenza ritorcersi su Massimo che invece lo aveva preso con sé. Non sarebbe stato giusto. E nemmeno dire a Bruno di fare silenzio serviva a cancellare il sospetto di quegli sguardi che sentiva venirgli dietro quando non era con Massimo, quando sistemava le cassette di pesce fuori di casa, quando pedalava nel suo giro di consegne, o quando la mattina presto usciva a comprare il pane e il latte.

Se solo potessi dare una lezione a tutti quelli che mi guardano storto. Così glielo farei vedere io chi...

Alberto subito scosse il capo all’idea e si diede un colpetto alla guancia con il guanto bagnato.

No, no, niente brighe, Alberto. Basta guai.

Asciugò la traccia d’acqua che aveva sbavato una chiazza di squame sulla pelle del viso. Bastò quel gesto per calmarlo, per dargli la forza di resistere al desiderio impellente e viscerale di attaccar briga. Non aveva più bisogno di attaccar briga, non c’era motivo di difendersi più di così. Adesso poteva contare su Massimo per sentirsi protetto e al sicuro. Avrebbe continuato a lavorare assieme a lui, a pescare, a navigare, a vivere il mare da fuori, come una creatura di terra, e non avrebbe avuto bisogno di altro.

Per una volta, non è un problema mio quello che gli altri pensano di me.

«Bene, direi che qui può andare.» Massimo rallentò, flesse il timone per virare, e fermò la barca sollevando una bassa ala di spuma che zampillò tutt’attorno alla prua. Srotolò la rete dalla carrucola e la tornò a gettare in mare. «E anche le reti sono sistemate.» Dalla chiazza scura che componeva il nuoto delle sardine, il suo sguardo si spostò su Alberto, rivolgendogli una tenera luce d’intesa. «Ti va un’altra nuotata?»

Il cuore di Alberto singhiozzò di gioia, e i suoi occhi brillano del verde più puro.

 

***

 

La Signora Marsigliese contò gli spiccioli e li depose una alla volta sulla mano spalancata di Alberto. «Mille e cinque, duemila, e duemila e cinque.» Richiuse il portamonete. «A posto così, Alberto?»

Alberto serrò il pugno ed esibì un sorriso ancor più luminoso delle monete. «Perfetto, grazie dell’ordine.» Intascò il denaro, inforcò la bici, e si diede la spinta per imboccare la stradina di pietre che scivolava giù in paese. «A domani, Signora Marsigliese!»

La Signora Marsigliese si sporse dall’uscio di casa, seguì la corsa di Alberto con l’occhio esperto di chi è abituato a vegliare sui bambini spericolati. «Sta’ attento lungo la strada» si premurò di dirgli. «Non correre troppo.»

Alberto sventolò un gesto di rassicurazione. «Senz’altro!» Si alzò dal sellino, fece forza sulle gambe per pedalare di buona lena, sfrecciando fra le facciate delle case, e si girò a rivolgersi a Machiavelli che era acciambellato sul carretto, in mezzo alle cassette vuote. «Dritti a casa.»

Machiavelli dondolò sulle zampette, dopo un breve sobbalzo del carretto, e si mise seduto all’angolo, squadrando la schiena di Alberto con la sua solita e perenne espressione di disappunto.

La bici sfrecciò davanti al fornaio, alla piccola bottega di libri usati, e davanti alla casa del Signor Oreste che stava annaffiando i ciclamini sul terrazzo foderato d’edera. Alberto si girò per salutarlo, «Salve, Signor Oreste», senza smettere di pedalare.

Lui gli sorrise. «Ciao, Alberto.» E ricambiò con uno sventolio della mano che non impugnava l’annaffiatoio.

Alberto prese la discesa e scivolò stringendo a singhiozzi la leva del freno. Il carretto svuotato del pesce pesava di meno, così era più facile sbandare e perdere il controllo, nonostante ci fosse Machiavelli a controbilanciare la traiettoria. Alberto si mise in piedi sui pedali e si lasciò trasportare giù sentendosi davvero più leggero, tanto da avere l’impressione di star fendendo l’aria come il volo del gabbiano che aveva braccato le loro sardine per tutta la mattina. La pedalata delle consegne aveva rinvigorito il suo umore, aveva soffiato via i pensieri nebulosi che gli erano brontolati addosso durante l’uscita in barca. Era una giornata fin troppo piacevole per permettere alla voce di Bruno di rovinarla. Una di quelle giornate che preannunciavano l’esplosione di una primavera limpida e soleggiata.

Il venticello sollevato dalla corsa in bici era più speziato e placido rispetto a quello che fischiava in mare aperto. Dalle terrazze che stavano tornando a fiorire proveniva un intenso e fresco profumo di erbe e di polline, assieme a quello un po’ ferroso dell’acqua della fontana che avevano tornato ad accendere in piazza. Vapori più dolci e intimi aleggiavano invece fuori dalle finestre, dalle cucine. Caffè appena gorgogliato dal filtro della moka, il sugo di pomodoro e basilico che ribolle e canta nelle pentole di rame, il bucato al profumo di Sapone di Marsiglia appeso sui balconi, la pastella per la frittura di pesce preparata dalla vecchia Agnese che intanto era seduta fuori casa a sgranare i fagioli freschi nel secchio.

Non c’era nulla per cui valesse la pena restare imbronciati.

Spronato da quel caldo impulso di vitalità, Alberto strinse forte il manubrio, diede un colpetto a un pedale per tornare a portarlo sotto la pianta del piede, e si girò in cerca dell’approvazione di Machiavelli. «Che dici, proviamo a battere il record?» Machiavelli s’irrigidì appiattendosi fra le cassette vuote, sottraendosi al vento della corsa che gli stava arruffando il pelo.

Superato uno dei canali di scolo che imboccavano i tombini a bordo strada, la discesa perse pendenza e la loro corsa perse velocità, facendo rullare le ruote del carretto all’ombra dei portici e davanti alla piccola vetrina del meccanico. Alberto intercettò una scintilla color rosso fiamma proveniente dalla bottega. Frenò di colpo, facendo stridere le gomme della bici sulle pietre del vialetto, e pedalò all’indietro.

Sgranò gli occhi che si persero in una luce d’incanto, allargò un sorrisone sognante che gli s’infossò nelle guance. «Ooh, Machiavelli, guarda...» Si sporse ad appiccicare le mani sul vetro, in venerazione. «Sono arrivate le Vespa nuove.»

Si perse, stregato dai nuovi modelli appena arrivati – tutte moto da risistemare, ma comunque meravigliose – in mezzo a cui spiccava quella rossa che, priva del cavalletto, era sostenuta dal fianco della Vespa color argento che le era parcheggiata affianco. Un sottilissimo strato di polvere appannava l’interno del garage che era deserto, chiuso per l’ora di pranzo. Infoiate nell’ombra, erano sistemate anche vecchie biciclette – alcune appese al soffitto –, assieme a un cofano appena lucidato, valvole e tubi di ricambio per i motori, e persino un modello di Lambretta a cui mancavano la targa e il manubrio.

Alberto sognò, lasciandosi rapire da quello spicchio di paradiso, e agitò le punte dei piedi già immaginando il ronzio della Vespa vibrargli sotto le gambe e la spinta della corsa spalancare due ruggenti ali di vento dietro il suo passaggio. Nonostante tutto, quel sogno era una fiaccola ancora accesa nel suo cuoricino. «Pensa a quando ne avrò una anch’io.» Fece scivolare le mani giù dal vetro, si girò a condividere quella ridacchiata con Machiavelli. «Dobbiamo già cominciare a fare spazio in giardino, e magari a costruire una tettoia, o una specie di rimessa. La cuccia gigante per la Vespa, te la immagini?»

Machiavelli fece roteare lo sguardo e scosse la testolina.

Ad Alberto però pareva proprio di vedersi: si sarebbe caricato Luca e Giulia sul retro e sarebbe sfrecciato per tutta la costiera, viaggiando da un capo all’altro dell’Italia. Sia in lungo sia in largo. E ritorno. E poi avrebbe fatto lo stesso con i restanti Paesi del mondo, tutti quanti, da un polo all’altro del pianeta. Ma non c’era fretta. Gli piaceva l’idea di potersi comprare una nuova Vespa attingendo dal fondo delle sue tasche, di guadagnarsela con il suo sudore, e di guidarla con mani incallite dal lavoro. Non si sentiva più soffocato da quell’impeto di impazienza che una volta era solito annodargli lo stomaco e farlo rabbrividire al pensiero di poter fuggire dalla Riviera, di staccarsi dall’immagine del mare e di tutte le sue spiagge e di tutti i suoi scogli. Ormai non aveva più alcun bisogno di scappare.

Alberto si rimise dritto sulla strada, riallineò la bici al carretto, si diede la spinta per riprendere la corsa, ma un’altra luce proveniente dal garage esterno dell’officina lo fece fermare. Rimbalzò indietro, sballottato dalla frenata improvvisa, e allungò lo sguardo verso il bagliore color verde bottiglia che aveva rapito il suo sguardo.

Di nuovo si ritrovò senza fiato in bocca, con un palpito di emozione guizzato fino in gola. «Ooh.» Sul retro, protetta dall’ombra di una tettoia in lamine d’acciaio, era parcheggiata un’Ape. Quella, assieme ai resti rottamati di una Fiat Seicento su cui stavano lavorando dallo scorso autunno e a cui non avevano ancora rimontato il portellone che giaceva appoggiato al muretto. «Ma quella...» Una nuova fiaccola si accese e si dibatté nei suoi pensieri, illuminando un’idea ancor più viva, tangibile e reale della Vespa parcheggiata in giardino. Un furgoncino Ape. Un’Ape carica del loro pesce, un’Ape che scorrazza per le strade di Portorosso terminando il doppio delle consegne in metà del tempo. Una prospettiva niente male. «Uhm.» Quella sì che era un’idea che non poteva aspettare di annunciare a Massimo. Alberto batté una soffice carezza sulla testolina di Machiavelli, «Reggiti forte, si torna a casa», rimise in moto le gambe e fece volare la bici fino a casa.

Arrivato in cortile, richiuse il portone alle sue spalle, parcheggiò la bici nella rimessa, raccolse Machiavelli per aiutarlo a scendere, e lo depose sul muretto dove Caligola si era accomodato ad abbuffarsi della lattuga e dei gusci di gamberi di cui la sua ciotola era piena. Alberto lo salutò strofinandogli una carezza sul guscio. «Pranzi già, testolina?»

In tutta risposta, Caligola sollevò il muso, ruminò il boccone verde, facendo cadere qualche briciola di gambero secco, e guardò storto Machiavelli che aveva osato avvicinarsi al suo pranzo. Allungò una zampa, spostò la ciotola, e continuò a mangiare in pace, lontano da Machiavelli e dai suoi occhi ingolositi dal profumo dei gamberi.

Massimo finì di districare una delle reti utilizzate quella mattina, la trascinò su una delle griglie, lasciando che gocciolasse e che si asciugasse al sole. Si voltò udendo la svelta camminata di Alberto, lo inquadrò con la coda dell’occhio, mentre aveva ancora la mano impegnata con le funi. «Com’è andato il giro?»

Alberto impennò entrambi i pollici. «Tutto fatto e sistemato.» Si spolverò le mani sbiancate dalla frizione del manubrio, di quella gomma ruvida e consumata. «Però ho le ruote un po’ sgonfie. In salita non riuscivo a filare come al solito. Sai dov’è la pompa della bici?»

Massimo indicò dietro di sé con un’alzata di mento. «In cantina, dietro il secchio dei rastrelli. Fa’ attenzione che non ti vengano addosso mentre li sposti.»

«Ci andrò piano.» Alberto allungò un passo ma lo arrestò a mezz’aria, fulminato da un pensiero che stava quasi per sfuggirgli dalle orecchie. «Oh, ehi, senti...» Fece marcia indietro e sfoderò un largo sorriso di anticipazione. «Stavo proprio pensando a un’idea geniale.»

Massimo finì di arrotolare la rete messa a stendere il giorno prima. Si voltò e corrugò un sopracciglio sotto cui brillò un luccichio di sospetto. «Geniale?» Sapeva che non c’era da star tranquilli quando Alberto se ne usciva con qualche idea geniale.

Ma lui annuì, tutto contento. «Sì, sai, prima sono passato davanti all’officina del meccanico...» Indicò alle sue spalle con un colpo di pollice. «E ho visto che è arrivato in negozio uno di quei modelli di furgoncino, un’Ape, e che quindi potremmo accaparrarcela noi per accelerare le consegne.»

«Uhm.» Massimo passò a occuparsi dei secchi svuotati delle sardine appena vendute. Li impilò uno sull’altro. «Accelerare le consegne?»

«Già» fece Alberto. «Perché no? Sarebbe una specie di investimento, e nemmeno troppo azzardato, dato che ora abbiamo più consegne da fare, più commissioni, e che c’è molto più pesce da trasportare.»

«Uhm» si ripeté il borbottio di Massimo. «E poi chi è che dovrebbe guidare l’Ape?»

Questa era la domanda che Alberto stava aspettando.

Alberto si infilò i pollici sotto la cinta e si dondolò avanti e indietro, tacco, punta, tacco, punta, tirando il petto all’infuori come un galletto che sfila in parata davanti all’intero pollaio. «Io, che domande.»

Machiavelli, lì vicino, lo guardò storto, già rabbrividendo alla prospettiva di dover essere scarrozzato in giro da Alberto alla guida dell’Ape. Persino Caligola sollevò il muso dalla ciotola, lasciando un boccone a metà, per assecondare quell’espressione di perplessità.

Alberto tornò con i talloni a terra e inviò un’occhiata d’intesa a Machiavelli. «Eddai, dammi un po’ di fiducia, almeno tu. Lo sai che guido bene.»

Machiavelli corrugò il muso e soffiò un basso mugugno che gli fece vibrare i baffi.

Massimo, ancora chino sui secchi, scosse la testa, sforzandosi di non rendere palese un mezzo sorriso che aveva un che di accattivato. «Per ora pensa a gonfiare le ruote della bici» gli disse, «e poi si vedrà.»

Alberto batté un saluto sulla fronte, «Agli ordini», e allungò il passo verso la cantina dove tenevano la pompa della bicicletta e gli attrezzi da giardinaggio. Prima le cose importanti.

«Ah, aspetta» lo tornò a fermare Massimo. «Prima che scendi in cantina...» Si appoggiò sul ginocchio e indicò il retro di casa con un’alzata di mento. «È arrivata posta per te, sul tavolo della cucina.»

Alberto sgranò lo sguardo. «Per me?» Rimbalzò all’indietro. Gli occhi luccicarono di emozione e il cuore tambureggiò di impazienza, come quando aveva inseguito le sardine. «Da Genova?»

«Può darsi.» Massimo sistemò il basco fra i capelli e nascose quello sguardo che non volle tradire la sorpresa che lo attendeva. «Va’ a darci un’occhiata, così controlli anche l’acqua sul fuoco. Se bolle abbassa il fornello, ché qua fuori c’è ancora lavoro da fare.»

Alberto non ebbe bisogno di farselo ripetere due volte. Si precipitò in cucina e trovò la busta sul tavolo, affianco al cestello dell’aglio e dei mazzetti di origano che l’erbaiolo gli aveva regalato quella stessa mattina dopo il primo giro di consegne. La strinse fra le dita. Riconobbe i francobolli, i timbri postali, l’indirizzo scritto con la inconfondibile calligrafia di Luca.

Luca!

La giornata divenne ancora più tiepida e luminosa di quanto non fosse già prima.

Alberto controllò i fornelli e alzò il coperchio della pentola. L’acqua non bolliva ancora, ma lui abbassò comunque la fiamma, dato che Massimo non aveva finito con il lavoro in giardino. Corse su per le scale grattando la chiusura della busta, arrivò in cima ai gradini ed era già riuscito a scartare l’involucro, impaziente di estrarre la lettera e di leggerla nel silenzio della camera da letto, dove sarebbe stato ancor più facile evocare la voce di Luca, concentrarsi sulla sua presenza che tornava a farsi ogni giorno più vicina e reale.

Entrò in camera spingendo piano la porta, attento a non far cigolare i cardini, e si mise in punta di piedi per infilarsi con discrezione nella sua quiete, senza disturbare gli ospiti.

Perla socchiuse gli occhi e sollevò il muso ancora un po’ assonnato. Riconobbe la presenza di Alberto, stiracchiò le zampe fra le pieghe della coperta in cui ronfava assieme ai cuccioli, e ruggì uno sbadiglio, tornando ad arricciare la coda attorno ai micetti che stava allattando. Uno di loro emise un pigolio di protesta, tastò attorno a sé con il musetto, urtò un nodo di vimini della cesta, s’infilò sotto la zampa del fratellino che gli era affianco, e si rimise a fare la pappa.

Alberto passò vicino alla cuccia e volse loro un’occhiata d’obbligo, assicurandosi che i micetti stessero bene, tutti vispi e affamati, più grandi ogni giorno che passava. Piegò il ginocchio sul secondo letto che occupava la stanza – il letto che lui stesso si era ingegnato a costruire nel corso dell’inverno – e salì in piedi per raggiungere una delle mensole vicine al guardaroba. La rete cigolò e una delle gambe di legno emise un lungo scricchiolio, ma Alberto non si allarmò. Non aveva ancora finito di lavorarci, e quell’ultimo letto rimaneva comunque il più solido dei sette tentativi precedenti che aveva costruito nel corso della stagione fredda.

I primi tentativi avevano fruttato letti dalle gambe traballanti, letti troppo stretti per potervi incastrare il materasso, letti più alti verso la testa che verso i piedi, letti che si frantumavano in due non appena Alberto provava a sedersi sopra. Letti buoni solo come legna da ardere. Dopo innumerevoli schegge estratte dalle mani, dopo aver trascorso l’inverno a bendarsi le dita ammaccate dai colpi storti di martello, e dopo aver sfaticato per qualche consegna in più in modo da potersi permettere di acquistare altre travi, altri chiodi e altra vernice, Alberto era fiducioso nei riguardi dell’ultimo risultato.

In piedi sul materasso, allungò il braccio per tastare il fondo della mensola. Fece attenzione a non urtare la Coppa della Portorosso Cup, a non ribaltare la pigna di libri lasciati lì da Giulia la scorsa estate, e raggiunse la sua scatolina dei tesori. Un vecchio contenitore di alluminio bacato che una volta conteneva lenze e ami da pesca e che ora Alberto aveva riempito con le lettere ricevute da Genova e con le fotografie spedite da Luca e Giulia. Foto del molo e delle navi da carico, della stazione dei treni, della facciata della loro scuola, del lungomare costeggiato da una distesa di ciottoli color piombo, del centro città gremito di vetrine appartenenti a botteghe e osterie, delle luminarie che avevano appeso durante il Natale, e anche foto colorate dalle decorazioni di Carnevale, quando le nevicate di coriandoli e stelle filanti avevano riempito le strade e le piazze.

Alberto si mise seduto di nuovo senza badare a un secondo cigolio proveniente dalla rete del letto. Spostò le foto, mise ordine fra le lettere per far spazio alla busta nuova, e si appuntò mentalmente di procurarsi una scatola più grande.

Uno dei micetti si separò dai fratellini, risalì il ventre color fumo di Perla, sollevò il musetto e ruggì un miagolio in direzione di Alberto. «Miau!»

Alberto incontrò i suoi occhietti, due spicchi gialli che si stavano aprendo ogni giorno di più, e gli sorrise. «Hai già finito la pappa?»

Il gattino arricciò una smorfia che gli stropicciò il musetto maculato, tale e quale a quello di Machiavelli, e annusò l’aria. Miagolò di nuovo. Si arrampicò ancor più in alto, fino a sbatacchiare la coda sul muso appisolato di Perla, e distese una zampina verso Alberto.

Alberto lo avvolse fra le mani e lo sollevò, nasino contro naso. «Eccolo qui, il mio preferito. Cresci proprio come un tigrotto.» Lo fece acciambellare fra le sue gambe incrociate, dove poteva coccolarselo godendosi le sue fusa, e finalmente spiegò la lettera appena arrivata.

 

Caro Alberto...

 

Sorrise alla calligrafia di Luca, provando la stessa soffice fitta di gioia che gli aveva stretto il cuore quando aveva trovato la busta ad attenderlo sul tavolo. Per fortuna lesse buone notizie. Luca e Giulia sarebbero arrivati a Portorosso con una settimana di ritardo, per via degli esami, ma lo avrebbero aspettato alla stazione, ed entrambi non vedevano l’ora di godersi assieme a lui il resto dell’estate.

Attratto dal sole più luminoso di mezzogiorno, dai cerchi bianchi che battevano sul vetro della finestra, Alberto guardò fuori dalla camera, e la sua vista incontrò il profilo rigoglioso dell’albero che stava ricominciando a gettar foglie, dopo aver trascorso l’inverno spoglio e ingrigito dal freddo. Le nuove gemme si distribuivano fra i rami come filari di smeraldi, ancora piccole ma già pronte a schiudersi e ad accogliere il calore dell’estate. La brezza le agitò, frastagliando un reticolo di sfumature verdi e gialle.

Alberto meditò sul fatto che quello stesso pomeriggio avrebbe potuto srotolare le luminarie, dopo pranzo, prima di andare ad aiutare Massimo in pescheria. Le avrebbe intrecciate ai rami assicurandosi che ogni lampadina facesse luce, rimpiazzando quelle fulminate. Poi avrebbe potato i rami secchi. Avrebbe dato una ripulita alla piattaforma del rifugio, magari stendendo una mano di vernice per rinforzare le assi, e avrebbe anche sostituito i chiodi arrugginiti con quelli nuovi.

Si strinse la lettera al petto, come un piccolo tesoro, sentendola battere come un secondo cuore, e accasciò la schiena sul materasso. Strofinò una serie di morbide carezze sulla pelliccia del cucciolo che stava già imparando a fare le fusa, a differenza di quel marpione di suo padre, e sorrise beato, provando lo stesso senso di appagamento che lo saziava sempre dopo un’abbuffata di pasta.

L’estate era a un tiro di schioppo, viva e tangibile come la lettera che custodiva fra le mani. La prima estate che avrebbe trascorso completamente assieme a Luca e Giulia, senza alcun desiderio di scappare, senza alcun bisogno di nascondersi. La prima vera estate libera dal Regno del Terrore.

   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > Luca / Vai alla pagina dell'autore: _Frame_