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Autore: holls    10/02/2022    6 recensioni
Alan ha solo venticinque anni quando la vita decide di giocargli un brutto tiro; il dolore e lo sconforto appiattiscono la sua esistenza, rendendola grigia e monotona, tanto da domandarsi se sia degna di essere vissuta.
Diviso tra casa e lavoro, osserva le sue giornate scorrere come un encefalogramma piatto, finché, una mattina, una rapina nel cuore di Manhattan lo costringerà a interrogare Nathan, uno dei testimoni.
Alan non tarderà a definirlo un ragazzino irritante per la sua vitalità e spregiudicatezza verso il mondo, per non parlare della malizia che sembra trasudare da ogni occhiata. Sembrerebbe l'occasione per riportare un po' di colore nella sua vita... ma, come in ogni storia che si rispetti, niente è come sembra.
Per nessuno dei due.
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Genere: Introspettivo, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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22. Frammenti

 

 

Una goccia finì sul vetro. Lentamente cominciò a scendere, dritta, seguendo il suo cammino. Poi fece una deviazione e cominciò ad avanzare storta, a tratti incerta, finché non si confuse col bagnato che c’era già sul davanzale. Altre gocce si schiantarono sul vetro, altre bagnarono le foglie degli alberi, altre ancora il mio volto.

C’era buio. Fuori e dentro. Ero asciutto, ma rigato dalla pioggia. Mi scorreva sulle guance e seguiva la forma del mio viso, dopodiché le gocce raggiungevano il mento, esitavano un po’, dondolavano, e poi finivano a terra. Spiaccicate. In una pozza di sangue.

C’era il terrore nei suoi occhi, c’era il suo corpo a terra, e dopo arrivavano i calci e la mazza. A malapena aveva gridato. A ogni botta sobbalzava, come incapace di opporre alcuna resistenza. Poi lo avevano lasciato. Aveva gli occhi fissi davanti a sé, la bocca spalancata e il sangue tutto intorno. Io ero libero. Lo avevo scosso. Mentre lo muovevo, le sue palpebre si erano abbassate appena un po’. Aveva tante ferite, ma erano molte di più quelle che non vedevo. Quelle di cui ancora non conoscevo la gravità.

Non sapevo nemmeno se fosse vivo o morto.

Non c’erano familiari per lui. Era solo. Era solo anche quando lo avevano pestato.

Io avrei potuto dimenarmi di più. Se avessi insistito un altro po’, ne ero certo, mi sarei liberato. Avrei dovuto provarci di più e non l’avevo fatto. Dovevo minacciarli e non l’avevo fatto. Avevo solo gridato di lasciarlo stare - che cazzata! Io non avevo un graffio. Lui era ancora in fase di accertamenti.

Quella mazza gli era piombata addosso due volte. Non avevo visto dove, ma lo avevo immaginato. E se lo immaginavo, lo stomaco mi si chiudeva. E mi tornava alla mente quella voglia di morire, quella che mi aveva fatto compagnia per così tanto tempo, da quando Oliver se n’era andato. Non sapevo dove era caduta quella mazza. Ma non mi sarei mai perdonato niente. Niente. Se a Nathan fosse successo qualcosa di grave, io non me lo sarei perdonato davvero.

Lui, che poco prima mi aveva guardato con quegli occhi, che mi chiedeva di farlo; e io, imbambolato dalla paura, che gli avevo dato il permesso di allontanarsi da me. Ma se lo avessimo fatto, se io lo avessi fatto, forse ci saremmo appartati da qualche altra parte, e le nostre strade non si sarebbero mai incrociate con quelli là. Ma se addirittura avessi ceduto un po’ prima, mentre eravamo sotto quel grande albero, di sicuro non sarebbe successo. Forse non avremmo fatto due passi e avremmo optato per il ritorno a casa. Magari saremmo pure tornati insieme, da uno dei due.

Avevo sbagliato tutto e non avevo fatto abbastanza. Io me ne stavo lì a pensare e lui, invece, stava lottando tra la vita e la morte, e tra una vita scoscesa e una in salita. E io non avevo fatto niente, e non facevo niente neanche in quel momento. Perché non ero a tampinare i dottori, a chiedere loro di dirmi comunque qualcosa, a domandare perché cazzo non stessero dicendo niente? Non ero un parente, ma dovevo sapere.

Da qualunque parte la guardassi, avrei potuto fare qualcosa. Non lo avevo voluto davvero. La stretta di quei due non era così forte da non potermi liberare. Io ci avevo provato, ma non lo avevo fatto abbastanza. E quella mazza gli era piombata addosso troppe volte e quei calci lo avevano distrutto. Era terrorizzato.

L’avrei più visto sorridere? L’avrei più visto guardarmi con quegli occhi, a volte rassegnati, altre così maliziosi?

Respirava. Quando erano arrivati i soccorsi, respirava ancora.

E poi c’erano anche i soldi. Come avrebbe fatto a pagare tutte quelle spese? Possibile che non ci fosse nessuno disposto a prendersi cura di lui?

Io lo avrei aiutato, come potevo. Avrei fatto tutto per lui. Ma era solo un modo per lavarmi la coscienza, lo sapevo. È facile aiutare qualcuno pagandogli le cure mediche. Più difficile è farlo cercando di lottare, di scagliarsi contro sei individui.

È stato più semplice non liberarti, eh?

E quella era la coscienza, e lei sapeva tutto. Non avrebbe mai creduto al fatto che io avevo tentato l’impossibile per liberarmi e per dirgli di non fargli del male. E adesso lui era lì, chissà dove, chissà in che stato. Ovunque fosse, di sicuro meritava un posto in Paradiso. E perché doveva meritarselo solo lui e non io? Chi ero per lasciarlo andare da solo?

Fuori, pioveva.

E i miei piedi nudi sul pavimento del terrazzo non erano mai stati così freddi.

 

«Alan, fermati!»

Due braccia mi fecero rientrare in ospedale, in quella saletta ricreativa. I miei piedi erano ancora freddi e bagnati. Per poco non scivolai, ma non era un dramma.

Nelly non poteva capire. Suo fratello era morto, ma lei non era lì, non avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi. Io, invece, c’ero. C’ero per suo fratello e c’ero per Nathan. Io li avevo distrutti. Io li avevo annientati.

«Va tutto bene?»

Mi portò le mani sul viso e mi asciugò le gocce di pioggia. Continuavano a bagnarmi il viso, senza sosta.

«Alan…!»

I suoi occhi erano vivi. Carichi di emozioni. Io avevo solo la morte in mente. Non ce la facevo più a sopportare quel silenzio.

«Alan, è vivo. È vivo, hai capito?»

È vivo, ripetei. Sì, forse lo era. Ma come era vivo? Aveva perso qualcosa per colpa mia?

Io mi ero a malapena storto una caviglia. Mi avevano dato delle stampelle, ma non me ne facevo di niente. Erano inutili e ingombranti, inutili! Inutili!

«Calmati!»

Nelly raccolse le stampelle da terra. Non mi ero neanche accorto di averle buttate. Tanto erano inutili. Le appoggiò a un divanetto.

«Di’ qualcosa, ti prego.»

Eccola lì, di nuovo, quella sensazione. Io volevo stare da solo. Nella mia bolla. Ma forse era troppo difficile da capire, no? Io dovevo pentirmi, pentirmi di quello che avevo fatto.

«È colpa mia. Se--»

«Smettila! Smettila con questa storia!»

Piovve anche sul viso di Nelly. Le sue labbra tremavano. Ma per lei era facile parlare. Non sapeva nemmeno chi fosse, Nathan. Era solo uno qualunque. Uno che per colpa mia era stato quasi ammazzato.

Saperlo vivo non mi faceva stare meglio. Avevo bisogno di lui. Avevo bisogno di tutto quello che mi aveva dato in quelle settimane, della vita che aveva riportato dentro di me. In quel momento, però, forse era lui ad aver bisogno di qualcuno, e quel qualcuno non sarei stato di certo io. Perché io l’avevo quasi ammazzato.

«Sono sicura che tu hai fatto tutto il possibile. Non puoi riparare a tutto, hai capito?»

No, no. Ma di certo avrei potuto fare di più, se solo lo avessi voluto davvero.

Avevo bisogno di riposare. Avevo bisogno che le ore passassero e che qualcuno, al mio risveglio, mi avesse detto che sarebbe andato tutto bene. Ma che razza di uomo sarei stato, se avessi smesso, anche solo per un momento, di stare in pena per Nathan?

Io non meritavo niente.

Neanche di piangere.

 

Forse alla fine riposai davvero. Qualche ora. O qualcosa di più, non avrei saputo dirlo. Erano arrivati anche i miei genitori. Mio padre coi Rayban vecchi di trent’anni e mia madre con uno sguardo pietoso sul viso. Nel corridoio d’aspetto c’era anche un altro uomo. Ma se ne stava lì da solo, seduto, a guardare oltre le porte che separavano la speranza dalla certezza. Anche io le guardavo. Anche io speravo. E intanto pensavo a cosa avrei potuto fare per Nathan.

 

Quell’uomo a un certo punto si alzò. Nelly lo fissava, ma non disse niente. L’uomo corse incontro ai dottori e fece delle domande. Tutti lo guardavano con apprensione e mi ricordai che quelli erano i dottori che avevano in cura Nathan. Li ricordavo a malapena, ma erano loro.

L’uomo era molto agitato. Ripensai al modo in cui aveva camminato e mi tornò in mente qualcosa. Aveva oltrepassato i quaranta, ma aveva un viso piacevole e un taglio degli occhi che non stentai a riconoscere.

Presi le inutili stampelle e corsi con loro. Un passo alla volta, arrivai lì vicino. L’infermiera si interruppe.

«Mi scusi, ma questa è una conversazione privata.»

«Come sta? Si riprenderà?»

L’uomo mi guardò. Lo stesso fecero l’infermiera e il dottore. Poi l’infermiera guardò l’uomo, che fece un cenno di assenso con la testa.

«Si riprenderà. I danni riportati sono meno gravi del previsto.»

Il sangue mi si gelò. Poi si scongelò. Poi riprese a scorrere lento, caldo, e mi inebriò tutto il corpo. Feci leva su una stampella, ma non avevo più forze e caddi a terra.

Lo avevo detto che erano inutili.

 

La camera di Nathan era spaziosa. Era in stanza con un altro uomo, che dormiva come lui. Il petto di Nathan si alzava e abbassava a ritmi regolari e io sentii che non avrei potuto amare un’altra scena più di quella. Era tranquillo, placido e riposava. Si sarebbe risvegliato e saremmo tornati a parlare come prima. Avrebbe fumato una sigaretta e mi avrebbe soffiato il fumo in faccia. Per quanto fosse cattivo, perché lo era, io lo avrei respirato a pieni polmoni. Gli avrei permesso di scorrere in ogni angolo del mio corpo, in ogni cellula e lo avrei lasciato attecchire ovunque avesse voluto.

Non sarebbe stata certo la prima volta, eh. Ma certe seconde volte sono decisamente meglio delle prime.

 

Nathan dormì per un’altra mezza giornata. Era notte fonda e io ero al suo capezzale. L’infermiera aveva fatto un’eccezione per me, ma mi aveva intimato di andarmene entro mezz’ora. Non lo avrei mai fatto e lo sapeva anche lei.

Le mani di Nathan erano lisce. Con quella veste bianca da ospedale sembrava quasi un angelo. Respirava in modo regolare, privo di qualsiasi angoscia. Appoggiai il mento sul palmo della mano e rimasi a osservarlo.

Ripensai al giorno prima, all’uomo che era venuto in ospedale. Mi dissi con certezza che poteva essere solo suo padre. Mi domandai cosa ci facesse lui, visto il rapporto, se così si poteva chiamare, che li univa.

Ma Nathan viveva per compiacere suo padre. E forse lui se n’era accorto e aveva pensato di ringraziare suo figlio così. Non ne avevo idea e non volevo nemmeno pensarci. Mi piacque pensare a un gesto di amore filiale, puro e incondizionato. Sperai di rivederlo ancora, per dirgli che mi sarei occupato delle spese mediche.

Poi pensai di essere pazzo. Desideravo fare così tanto per un ragazzo che conoscevo da così poco tempo. Eppure, mi aveva stravolto la vita. Mi aveva permesso di ricominciare e di riscoprire l’amore.

Amore.

Quel sentimento che ancora mi faceva paura, ma che mi pareva tanto bello in quel momento. Ero felice dell’amore che provavo per lui. Non sapevo se avesse bisogno di diventare qualcosa di concreto, ma mi bastava provarlo. Nathan si meritava di più, me l’ero già detto tante volte. Io mi sarei limitato a guardarlo da lontano, a sperare il meglio per lui.

Osservai ancora il suo viso e pregai che si svegliasse. La preghiera mi costrinse a chiudere gli occhi, e chiusi rimasero per un altro po’ di tempo.

 

«Alan?»

Spalancai gli occhi. Era buio, ma non abbastanza perché non lo vedessi. Nathan mi stava guardando, respirava e si stava sgranchendo le dita delle mani. L’infermiera aveva detto che non aveva riportato grossi danni, ma io volevo vederlo con i miei occhi. Avevo immaginato che gli avessero spezzato la schiena, ma, a quanto pareva, lo avevano colpito un po’ più in là.

Nathan mi guardava con quei suoi occhietti vispi, mentre io strusciavo i miei.

«Ciao.» bisbigliai.

L’altro paziente dormiva come un ghiro e, ogni tanto, russava.

«Che ci fai qui?»

La sua voce era sovrastata dal ticchettio incessante dell’orologio al muro, ma al solo sentirla mi venne quasi da piangere. Gli accarezzai la mano con movimenti lenti e lui mi sorrise.

«Aspettavo che tu ti svegliassi.»

Il suo viso era illuminato in parte dalla luce dei lampioni là fuori. Riuscivo a intravedere qualche escoriazione, medicata e coperta con un cerotto, mentre altre, più lievi, erano rimaste scoperte.

«Come ti senti?»

Ricordai il momento in cui era caduto a terra. Avevo già capito cosa sarebbe successo. Avevo cercato di liberarmi, ottenendo solo qualche cazzotto come risposta. Avevo gridato, come se la mia disperazione avesse potuto salvarlo, mentre veniva colpito e mentre la mazza infieriva su di lui. Quando aveva smesso di muovere i piedi, avevo pensato che fosse successo. Di nuovo.

«Un po’ rincoglionito, ma sto bene.»

Ma Nathan era vivo. Era sopravvissuto per miracolo. Quando poi i sei se ne erano andati, ero corso verso di lui, steso a terra, la saliva mista a sangue. Aveva sentito così tanto dolore che non era riuscito nemmeno a deglutire e chiudere la bocca; e io invece ero lì, in ginocchio accanto a lui, senza alcuna ferita che si potesse chiamare tale.

Il tizio nel letto accanto a noi russava davvero come pochi. Io mi voltai e poi tornai a guardare Nathan, che mi sorrise.

Poi ci fissammo. Lo stesso sguardo che ci eravamo scambiati prima che succedesse quel che era successo. La sua mano si irrigidì e io smisi di accarezzarla.

«Temevo che non ti saresti più svegliato, sai. O che non saresti stato più come prima.»

Lui annuì appena.

«Lo so. L’ho pensato anch’io.»

Ci lasciammo cullare dal silenzio della notte, spezzato solo dal ronzio delle lampade al neon e dall’orologio. Tic-tac, tic-tac. Se prima un secondo mi era sembrato un’eternità, in quel momento mi pareva talmente breve che ne avrei divorati a centinaia. Fuori, nel corridoio, si sentivano i passi di medici e infermieri, così vivi quando il resto della città dorme. Dentro la stanza, però, quei rumori sembravano lontani.

«Non me lo sarei mai perdonato.»

«So che hai fatto tutto il possibile, Alan.»

Abbassai lo sguardo. Era vero? Non lo sapevo più. Una parte di me sapeva che aveva tentato l’impossibile per salvarlo, mentre l’altra voleva convincermi del contrario, che se avessi detto o fatto qualcosa di differente, le cose sarebbero andate in un altro modo. Ma chi poteva dirmi che sarebbero andate meglio?

«Alan?»

Tornai a guardarlo. Il suo viso era così rassicurante.

«Non è colpa tua. Non pensarlo neanche per un attimo. E poi sto bene, no?»

«E se le cose non fossero andate così?»

«Be’, non lo hanno fatto, no? Non pensare a cosa sarebbe potuto succedere. L’importante è che siamo qui, vivi. Tutto il resto non conta.»

Era facile, per lui, parlare così. Per certi versi anche ammirevole.

«Posso fare qualcosa per te?»

Lui abbozzò una risata.

«Sì: dormire. Vai, io starò bene.»

«Sicuro?»

Nathan annuì. Stavo crollando dal sonno, era vero, ma in quelle ore che mi avevano separato da lui non ero riuscito a chiudere occhio, né avevo realmente pensato di farlo. Mi alzai, recuperai le stampelle, mentre lui seguiva i miei movimenti. Buttai un’altra occhiata a quell’essere che mi parve così piccolo, inghiottito da un letto troppo grande per lui e coperte che lo coprivano in buona parte.

«A domani, o a dopo, a questo punto.»

«Sì. Ciao e buonanotte.»

Mi allontanai zoppicando con le stampelle, di cui Nathan non mi aveva chiesto niente. Forse era troppo assonnato per farlo.

Mi richiusi la porta alle spalle col timore che fosse stato tutto un sogno. Mi domandai se tutto ciò che avevo appena vissuto fosse stato reale. Ma sì, doveva esserlo.

Cominciai a muovermi verso la mia stanza, sotto gli sguardi indifferenti dei medici. Una volta arrivato, mi infilai nel letto e dormii, per la prima volta dopo tante ore.

 

Era orario di visite. I miei genitori erano seduti con me, in quella stessa saletta dove mi ero angosciato il giorno prima, e parlavamo del pestaggio. I discorsi che facevamo erano superficiali: mi avevano chiesto cos’era successo, perché, se conoscessi quei ragazzi. Sapevano che ero con qualcuno, ma non avevano il coraggio di chiedermi niente a riguardo.

Ripensai alle parole che mi aveva detto Nelly, quando quella sera ero andato alla sua libreria, in cerca di conforto. Mi aveva detto che la mia preoccupazione più grande non erano i miei sentimenti, ma quello che avrebbe detto la gente. Osservai la preoccupazione di mia madre e intuii che aveva ragione, perché non riuscivo a trovare il coraggio di parlare di Nathan.

Lui era sicuramente un amico, ma definirlo così sarebbe stato come mentire a me stesso. Io mi ero innamorato di lui, in quello che somigliava molto più a un colpo di fulmine. Ma questo sarebbe andato bene a coloro che mi circondavano? Che cosa avrebbe detto la madre di Oliver, se fosse venuta qui e avesse scoperto che ero con un altro ragazzo?

Ma non era solo questo. Gli occhi rossi di Oliver avevano ricominciato a perseguitarmi. Cercavano di instillarmi il senso di colpa, o forse ero io che non volevo lasciarlo andare. Lo avevo voluto al mio fianco per tutta la vita, come avevo potuto cambiare idea così velocemente?

Mollai i miei genitori in sala d'attesa, afferrai le stampelle e me ne andai in corridoio. Avevo bisogno di prendere aria da loro, che a malapena riuscivo a guardare negli occhi. Tutta la faccenda di Nathan mi faceva sentire quasi sporco.

Fuori dalla saletta c’era Nelly, che mi venne subito incontro.

«Alan! Come stai?»

Sollevai appena una stampella.

«A me è andata bene. È per Nathan che sono preoccupato.»

«Be’, ci credo. Vuoi andare a vedere un attimo come sta? Per me non ci sono problemi.»

«Sì, se non ti scoccia.»

Io e Nelly cominciammo a percorrere quel corridoio sterile, con lei che rallentava continuamente per stare al mio passo. Io sentivo che forse avrei potuto camminare anche senza l’aiuto delle stampelle, ma volevo evitare di creare ulteriori danni. Avevo necessità di riprendere il lavoro e l’indagine il prima possibile e non potevo certo permettermi ulteriori giorni di permanenza in ospedale.

Già, l’indagine.

Come ci ripensai, mi si chiuse lo stomaco.

«Quindi, alla fine, com’è andato il vostro appuntamento? A parte questa piccola disavventura, intendo.»

Mi spostai di lato per far passare un dottore. Non ero per niente abituato a fare passi da gambero con quegli attrezzi e per poco non inciampai.

Come tornai a camminare, però, ripensai alla serata che avevamo trascorso io e Nathan. Ero arrivato molto teso, per via della richiesta che mi aveva fatto Ash, e che nemmeno avevo portato avanti; sarebbe stata una crudeltà che Nathan non si meritava. Perché io l’avevo ascoltato, con tutti i suoi problemi e quello sguardo pieno di preoccupazione da fargli venire le rughe sulla fronte; e lui non era un criminale, non poteva esserlo.

«Mah. Che ti devo dire? Ci sono state delle occasioni, credo, ma ho capito che non era il caso.»

«No? Perché?»

Pensai a quello che stavo per dire. Non volevo credere che fosse vero, neanche per un istante, ma lo era.

«Si è messo in testa che vuole partire, andare sulla costa occidentale a fare chissà cosa. Non ha intenzioni molto serie a mio avviso, ma cambia poco la situazione. Ormai credo che sia più giusto rinunciare.»

«Perché?»

Mi guardai intorno per cercare consolazione, ma trovai solo un neon accecante e pareti bianche, come quelle della sala interrogatori. Asettiche, distaccate, come forse ero davvero io, quella parte di me più intima.

«Se l’ha pensato, anche solo per un momento, vuol dire che la sua priorità non sono io. Forse adesso deciderà di non partire, ma chi mi dice che non lo vorrà fare tra un anno o due? Sarei costretto a scegliere, poi. Non lo sopporterei.»

Nelly mi guardò scettica. Scuoteva il capo e cercava di articolare una frase liberandosi dallo stupore.

«E tu sei disposto a rinunciare a lui solo per una sua futura e ipotetica decisione?»

Ci fermammo davanti alla camera di Nathan. La duecentoventitré, settore azzurro.

«Hai ragione, ma non sono l’eroe che pensate tutti. Quindi sì, sono disposto a rinunciare per questo.»

Mi feci forza sulle stampelle, anche se non ne avevo reale bisogno. Non appena mi affacciai alla stanza e lui si voltò verso di me, capii che c’era qualcosa tra di noi. Non ci eravamo detti niente, né sotto al grande albero, né prima dell’aggressione; eppure l’avevo stretto tra le mie braccia, ed entrambi sapevamo che non l’avrei fatto con nessun altro; e quel suo modo di guardarmi a lungo, senza dire niente, senza provare imbarazzo, e il modo in cui io lo guardavo non erano qualcosa che avrebbero fatto due semplici amici. Perché io e lui non lo eravamo, e lo sapevamo tutti e due; perché, in fondo, somigliavamo più a due amanti che non avevano il coraggio di trovarsi e scoprirsi. Ci nascondevamo dietro i silenzi, le occhiate, e poi c’erano le sue le dita che scivolavano sul mio polso… per dirmi che dovevo risvoltarmi le maniche della camicia. Le occasioni tra di noi erano solo pretesti per avvicinarci, esattamente com’era successo la sera della festa tra Nathan e Harvey. E se quella volta li avevo presi tanto in giro, ora al posto di Harvey c’ero io, a cercare di avere quel ragazzo sempre intorno, con qualunque scusa, perfino quella di restituirgli le sigarette.

Com’era possibile che avesse cambiato la mia vita in quel modo? Una persona poteva davvero fare così tanto in così poco tempo?

«Ehm, posso?»

Nelly spuntò dietro di me. Mi voltai per risponderle, ma i suoi occhi si puntarono sul ragazzo infagottato dentro il letto bianco.

«Nathan!»

Scattò improvvisamente verso di lui, sotto gli sguardi attoniti dei parenti dell’altro uomo in stanza con lui. Nathan aggrottò le sopracciglia per un attimo, poi spalancò gli occhi.

«Nelly?!»

«Oddio, sei tu? Ma cosa ti hanno fatto? Chi è stato?»

Provai a raggiungerli prima che il tono della voce di Nelly divenisse capace di spaccare bicchieri.

«Non lo so, un gruppo di stronzi. Ma voi due vi conoscete?»

Io e Nelly ci guardammo un attimo.

«Lei è la sorella di Oliver.»

Nathan spalancò la bocca e scoppiò a ridere, per poi gridare un attimo dopo.

«Che male! Non fatemi ridere, vi prego! Costole fratturate del cavolo.»

Nelly allungò una mano per afferrare una sedia lì vicino e la tirò a sé, poi ci si sedette in punta.

«Accidenti, ma quindi è una cosa seria!»

Nelly e Nathan continuarono a chiacchierare, o forse era più corretto dire che Nathan cercava di contenere l’esuberanza di Nelly. Lei volle farsi raccontare per filo e per segno cos’era successo e per un attimo pensai che Nathan avrebbe detto che non avevo fatto abbastanza per lui. Ovviamente non disse niente del genere, anzi; ricordava molto poco.

Mi guardai intorno e lo sguardo mi cadde sull'altro uomo che era in stanza con lui. Era circondato da quelli che dovevano essere la moglie e i figli; sul comodino accanto al letto, oltre alla cartina di uno snack, c'era un vaso con fiori tagliati di fresco e, in un angolo, quello che sembrava essere un pigiama.

La donna e Nelly parevano fare a gara a chi avesse il tono di voce più alto. Nelly era ancora sconvolta dall’aver trovato Nathan su quel letto di ospedale, mentre la moglie rimbrottava il marito per il modo in cui era caduto. Continuava a lamentarsi dei lavori da fare in casa, che sarebbero rimasti fermi perché da sola non ce la faceva a spostare il frigo. In casa c'erano troppi scatoloni e ormai non ci si girava più, diceva. Poi si rivolse ai figli, sparuti come fiammiferi, e li accusò di non aiutarla abbastanza; loro la guardarono un po' con rispetto e un po' con timore. L'uomo pareva invece sconsolato, arreso di fronte al fatto di non potersi rilassare nemmeno su un letto d'ospedale.

Nathan era fondamentalmente solo, ma il suo viso sembrava tranquillo. Era quasi triste che un ragazzo di ventun anni, a cui non si poteva rimproverare praticamente niente, fosse circondato solo da due amici. Non avevo visto nessun altro in quei giorni.

Nathan sorrideva il giusto, forse per non cedere alla tentazione di ridere, ma pareva molto sereno, i suoi tratti rilassati. Nelly non la smetteva più di parlare e fare domande e lui ogni tanto mi guardava con occhi complici, ma ero quasi in imbarazzo, come se quel bacio ce lo fossimo dati davvero e dovessimo stabilire se eravamo amici o fidanzati. Ma la verità era che non c’era stato nessun bacio e non esisteva alcuna ambiguità sul nostro rapporto.

Nonostante questo, per un attimo desiderai che Nelly sparisse. Avevo voglia di restare solo con Nathan per chiedergli come si sentisse, a parte le costole fracassate.

«Alan, perché non ti siedi anche tu? Dai, prendi una sedia, là ce n’è un’altra!»

L’euforia di Nelly era incontenibile. Alla fine, vedendomi esitante per un momento, fu lei ad alzarsi e ad avvicinarmi la sedia. Come si rimise seduta, riprese a parlare.

«Ah, ma allora ci avevo visto bene! Quello là fuori è tuo padre!»

Se anche c’era stato un sorriso sul volto di Nathan, quello sparì immediatamente non appena udì quelle parole. Si era posto sulla difensiva, con uno sguardo che non sapeva come interpretare quella situazione.

«Mio padre? È impossibile.»

«Guarda, è proprio difficile che dimentichi quella faccia. E poi», continuò, voltandosi verso di me, «l’hai visto anche tu, no?»

Io feci spallucce.

«Sì, mi è sembrato lui, ma è la prima volta che lo vedo di persona.»

Nathan fece scorrere i suoi occhi da me a Nelly, da Nelly a me. Per un attimo, attese quasi che scoppiassimo a ridere per lo scherzo che gli avevamo fatto, ma di scherzo non si trattava. Là fuori il padre di Nathan c’era davvero.

Tutta la serenità che avevo letto sul suo volto sparì, per lasciare spazio a un’inquietudine che doveva averlo segnato molto tempo prima.

Presi la parola per tranquillizzarlo.

«Sembrava molto in apprensione per te. Non appena ha visto i medici, è corso subito verso di loro per sapere come stavi.»

Nathan fece scorrere ancora il suo sguardo su di noi. Inarcò appena le sopracciglia, incredulo.

«Voi state male.»

«Invece credo che voglia parlarti. Penso che vorrà entrare, non appena ce ne saremo andati.»

Nathan girò la testa verso la finestra, per poi abbassare subito gli occhi, pensoso. Guardò l’orologio, forse per vedere quanto mancava alla fine delle visite. Era rimasto solo un quarto d’ora e pensai quasi che ci avrebbe chiesto di rimanere tutto il tempo rimasto solo per non incontrarlo. Tornò a fissare la finestra, da cui probabilmente sperava di poter scappare. Era al primo piano in fondo, ma il salto avrebbe finito solo per rompergli le costole che gli erano rimaste intere. Lo sapeva anche lui e capii che non l’avrebbe mai fatto.

Fece un sospiro profondo, poi si voltò verso di noi.

«Va bene, andate. Sentiamo cosa vuole, ma so già che non sarà niente di buono.»

Nelly abbassò gli occhi, dispiaciuta.

«Non può essere che sia semplicemente preoccupato per te?»

Nathan schioccò la lingua.

«Macché. Vuole qualcosa di sicuro.»

Nelly poggiò la sua mano su quella di Nathan e una fitta mi percorse all’improvviso. Erano molto in confidenza e mi domandai con quante altre persone lui avesse un rapporto del genere, di cui io non sapevo nulla. Poi mi ricordai che avevo volutamente perso delle occasioni. Non avevo alcun diritto di sentirmi in quel modo, né di voler sapere quali fossero le conoscenze di Nathan. Io avevo scelto di lasciarlo andare e dovevo essere coerente con me stesso. Se in quel momento fosse spuntato Harvey - cosa di cui dubitavo, ma sempre possibile -, io non avrei potuto dire nulla. Nathan ci aveva provato con me e io avevo rifiutato; fine della storia.

Se avessi fatto o meno la cosa giusta, ancora non lo sapevo; ma lo avrei scoperto molto presto.

 

Salutai Nathan con grande preoccupazione. Gli ospedali, con quel loro odore perenne di disinfettante, mi mettevano ansia. Io e Nelly uscimmo dalla stanza ed entrambi notammo il padre di Nathan lì fuori ad aspettare, con un’espressione preoccupata che avevo spesso intravisto anche nel figlio. Era incredibile il fatto che quei due condividessero lo stesso sangue, le stesse smorfie del viso e, in parte, anche la stessa andatura; eppure, oltre a quello, non c’era nient’altro a unirli, come se fossero finiti sulla Terra per via di una punizione che li costringeva a essere legati per l’eternità.

L’uomo incrociò prima il mio sguardo, poi quello di Nelly; quei due si fissarono a lungo, come se si fossero riconosciuti, e in effetti poteva essere davvero così. Poco dopo Nelly lasciò perdere e tornò a guardare avanti, a passo svelto, ricordandosi un attimo dopo che avrebbe dovuto rallentare per starmi accanto.

Quando fummo di nuovo vicini, mi aspettai che dicesse qualcosa sull’incredibile coincidenza che il fato ci aveva riservato. Lei e Nathan si erano sempre conosciuti, e io, di lui, le avevo parlato tanto. Vista in quell’ottica la faccenda era piuttosto imbarazzante, ma al contempo mi rassicurava. Nelly lo aveva molto in simpatia, lo si capiva dall’apprensione con cui lo aveva sommerso di domande per assicurarsi che stesse bene. I miei pensieri su Nathan, da tabù che erano, divennero un po’ meno colpevoli.

«Sei così silenziosa.»

Lei si voltò e mi sorrise, ma non disse niente. Quando trovava qualche porta aperta, buttava un’occhiata alle persone al loro interno, poi continuava a camminare avanti, senza incertezze.

«Io non credo che lui partirà. Te ne aveva mai parlato prima?»

«No, ma ce lo vedo ad avere queste idee da un momento all’altro. Non lo trovo così strano.»

«Ma forse», e notai che aveva affrettato un po’ il passo, «è un’idea che gli ha messo in testa qualcuno. Magari non lo pensa davvero, no?»

Le parole di Nelly mi intenerirono; era davvero come una sorella per me. Ma l’amore per Nathan, per quanto mi facesse stare bene, non era qualcosa che doveva avere un futuro.

«Non lo so, Nelly, ma ormai non ha più importanza. Lascerò che viva la sua vita, sulla costa che preferisce. Io continuerò a essergli amico come posso.»

Nathan sarebbe somigliato molto a uno di quegli amori estivi, quelli di cui si parla spesso nei film. Sono amori travolgenti, curiosi e spesso magici, ma basta far passare un paio di mesi per scoprire la conflittualità sotto la patina dorata. Sarebbero bastate le prime difficoltà e tutto sarebbe andato a gambe ritte, segno che quell’amore era solo un’infatuazione.

Io sapevo cos’era l’amore, quello vero. E per quanto i sentimenti per Nathan volessero farmi credere di somigliarci molto, sapevo che non era vero. Con Oliver era stato diverso: ci eravamo conosciuti a poco a poco, quasi con timidezza, e il sentimento era sbocciato quando ormai avevamo superato più di un problema, sebbene come amici. Con Nathan, invece, era stato esattamente l’opposto: non mi aveva dato nemmeno il tempo di capire cosa stesse accadendo, che subito mi ero ritrovato nella sua trappola.

Nelly si fermò davanti a me.

«È solo per questo che rinunci?»

Io rivolevo la mia vecchia vita. Volevo rientrare a casa e dire: “Sono tornato!”, sapendo che c’era qualcuno ad aspettarmi; e quel qualcuno non era uno sconosciuto, ma una persona di cui avrei saputo descrivere ogni reazione per filo e per segno. Oliver non mi avrebbe risposto, perché con la testa china sui libri; allora sarei andato io da lui, a bussare con le nocche in camera da letto, dove c’era la scrivania e la sua sagoma ricurva sotto la luce della lampada.

Il suo ricordo era confortevole; il suo ricordo era un porto sicuro.

Anche la mia nuova vita, quella da single, lo era diventata.

La partenza di Nathan era solo una scusa, ma era anche il modo più semplice per lasciarsi tutto alle spalle.

«Secondo te?»

Nelly mi fissò. I suoi occhi scorrevano sui miei e le sue labbra erano prigioniere di denti troppo nervosi. Alla fine tirò un sospiro.

«Non lo so, ma credo che tu stia perdendo un’occasione.»

 

I miei genitori mi aspettavano fuori dall’ospedale e, come videro Nelly, la salutarono con affetto. Io alzai la testa verso il primo piano, alla ricerca della camera di Nathan, ma non la trovai. Mi domandai come stesse andando la chiacchierata con suo padre, sempre che lui fosse entrato.

            Volevo bene a Nathan, ma in quel periodo avevo bisogno di un affetto solido, di qualcuno che mi conoscesse e amasse ogni parte di me, senza eccezioni, così come aveva fatto Oliver. A Nathan piacevo perché rappresentavo tutto ciò che non aveva mai avuto: ordine, stabilità, sicurezza. Ma cosa sarebbe accaduto se un giorno mi avesse visto per quello che ero? Tendevano tutti a pensare che fossi forte, ma in realtà ero fragile almeno quanto loro.

            Se avessi potuto cancellare il ricordo di Oliver, lo avrei fatto. Se avessi potuto scegliere di non farlo mai esistere, forse lo avrei chiesto. Mio padre e mia madre erano insieme, l’uno la spalla dell’altra, e Nelly aveva la sua scorta di amicizie su cui poter contare.

            Io, invece, avevo solo l’eco di un ricordo che tentava di trascinarmi con sé. Non era qualcuno che potesse aiutarmi, né che potessi aiutare. Era solo un peso che mi portavo dietro, come i penitenti si portano il peso del peccato, fermo sulle loro coscienze, pronto a schiacciarli finché non se ne fossero liberati. Ma a me non bastava una confessione, non bastava chiedere perdono per quello che avevo fatto. Nessuno poteva salvarmi dall’aver chiesto a Oliver di farmi guidare al posto suo, perché era stanco. A quell’ora saremmo stati a casa, a parlare dei suoi pazienti e di qualche dettaglio che non avrei voluto sentire all’ora di cena, ma che avrei tollerato solo per far sfogare il suo entusiasmo.

            Invece ero nel cortile di un ospedale, con una caviglia malconcia, a pensare a cosa avevo fatto di male per meritarmi un amore così complesso. Una volta a casa avrei gridato: “Sono tornato!”, ma mi avrebbe risposto solo l’eco della mia voce.

            Da quando Oliver era morto, la casa era così vuota, e così spoglia; e lo ero diventato anch’io, senza un reale scopo nella vita, un involucro che si muoveva per inerzia. I miei genitori ridevano e scherzavano e io mi chiedevo: “Qual è il loro scopo? Per cosa stanno vivendo?”. Cos’è che muoveva loro e tutte quelle persone? Una volta, anche io avevo qualcosa per cui vivere: quel qualcosa era la felicità di Oliver, il desiderio di dargli la vita migliore che potesse mai sperare; ma io, in quel momento, per cosa vivevo a fare? Perché sentivo come se il mondo si fosse fermato?

            Non riuscivo più a sopportare il peso della colpa, di quelle tragedie reali o quasi sfiorate; Oliver era morto, Nathan c’era andato vicino e il mio amore per lui non era altro che un velo, volto a coprire il mio dolore. Quante persone avrei dovuto perdere, ancora? Quanto vuoto avrei dovuto sopportare?

            Seguii i miei genitori verso la macchina, mentre mi parlavano del viaggio e mi facevano domande sull’aggressione.

            I miei pensieri, invece, sfiorarono la camera da letto, e assaporarono i contorni gelidi del metallo sotto il cuscino. Sarebbe bastato far scivolare il dito sul grilletto, fare una leggera pressione e avvertire per un attimo il cervello che si spappolava.

Mio padre e mia madre avrebbero riso lo stesso, un giorno. Nathan se ne sarebbe andato a fare la bella vita sull’altra costa, anche se non credevo che ci sarebbe riuscito poi così tanto. Io avrei riabbracciato Oliver e avrei vissuto nella pace eterna, come l’amore che ci avrebbe unito.

L’idea della canna che premeva sulla mia tempia mi scosse con un brivido.

 

 

 

Angolo autrice

Salve a tutti!

Alan è rimasto proprio traumatizzato da quanto accaduto (e in fondo, chi non lo sarebbe?), peccato che eventi del genere abbiano su di lui il potere di farlo ripiombare in quella disperazione che sembrava aver abbandonato, anche se in minima parte. Ora speriamo solo che non faccia capocchiate ^^’

Parlando di cose più leggere, come qualcuno di voi aveva ipotizzato, Alan e Nathan conoscono la stessa Nelly! XD Io al loro posto mi sentirei un po’ in imbarazzo per le confidenze fatte, ma vabbè XD

 

Per quanto riguarda la scrittura, invece, ieri ho finito il capitolo 31! Va ancora infiocchettato a modino, però almeno c’è! Sono davvero tanto, tanto contenta! E ribadisco che senza il vostro affetto e supporto non sarei mai riuscita a scrivere di nuovo, quindi GRAZIE <3

 

A giovedì prossimo e grazie a tutte le persone che seguono questa storia!

Simona

   
 
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