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Autore: JSGilmore    11/02/2022    4 recensioni
Melinda e Daniel sono due fratelli, nati e cresciuti a Mason Street, una via degradata di Brixton. A causa del lavoro a tempo pieno dei genitori hanno dovuto guardarsi le spalle a vicenda da quando sono piccoli e hanno stretto, da subito, un legame molto profondo. Tutto è sempre filato a meraviglia, fino al quattordicesimo compleanno di Melinda, in cui la ragazza scopre di provare un attaccamento morboso per suo fratello maggiore. Un attaccamento che presto si trasformerà in una dolcissima ossessione. Lei non avrebbe dovuto innamorarsi di lui, e lui non avrebbe dovuto amarla a sua volta, ma nonostante i tentativi di allontanarsi alla fine non potranno fare a meno che cedere... E le conseguenze del loro amore non tarderanno ad arrivare....
La storia racconta della vita di due persone, dall'adolescenza fino all'età adulta e di come un amore proibito è in grado di segnare indelebilmente intere esistenze. La storia racconta di un incesto tra fratello e sorella, quindi se siete sensibili al tema vi sconsiglio caldamente la lettura.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Incest | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Chapter 7: Notizia


Oramai, mio fratello mi detestava ed era certo come la morte che gli facessi ribrezzo; altrimenti, sarebbe uscito da quella stanza del cazzo, anche solo per dirmi: «Hai rotto i coglioni, smettila di bussare e frignare».

Non metteva il naso fuori da quel buco sgangherato da una settimana. Non sapevo nemmeno se fosse ancora vivo, oppure morto; magari, le sue ceneri erano state sparse sulla scrivania e sul materasso, dopo che si era tolto la vita sgozzandosi; oppure si era impiccato con il lenzuolo, come avevo visto fare a molti carcerati delle serie tv. La mia mente snocciolava dettagli orrendi riguardanti la sua morte improvvisa e vedevo già la mia meschina faccia ritratta nelle prime pagine dei quotidiani: piccola psicopatica istiga il fratello al suicidio, condannata all’ergastolo.

C’era da aspettarselo. Uno come lui con una come me, che una volta a scuola ero stata definita “carina di faccia”, ma sostanzialmente «un’asse da stiro». Oltre a non essere alla sua altezza, né in quanto ad acume intellettuale né in quanto ad avvenenza, ero la sua fastidiosa sorellina che si era sempre intromessa tra lui e la sua vita sessuale movimentata e intensa. Ovvio che non volesse scoparmi. La mortificazione nel suo viso quando eravamo entrambi sdraiati sul suo letto non l’avevo immaginata. Era reale. La questione, ora, era solo come avrei fatto a sopravvivere, sapendo che mio fratello mi odiava e che non poteva più guardarmi in faccia.

La porta della sua stanza era chiusa a chiave, ma una volta mamma era riuscita a scassinarla, utilizzando una forcina per capelli. Mia madre era come quelle gnocche dei film d’azione, con i fuseaux neri lucidi, e con capacità da scassinatrice eccezionali, solo che non era gnocca. Si lamentava di continuo perché le spuntavano i capelli bianchi, perché le si afflosciava il culo e perché le spuntavano le rughe persino sul collo.

Ero dietro di lei per buttare un occhio e mio fratello giaceva sul letto, anestetizzato dall’erba e immerso in un groviglio sgraziato di coperte. Era soffocato dal cuscino e da un’aria densa di fumo. Mamma non aveva commentato la scena, si era chiusa la porta alle spalle come un sepolcro. «Ceniamo tra un’ora. Aspettiamo papà.» I nostri genitori, le poche volte che erano a casa, non lo sollecitavano ad alzarsi da quel maledetto letto e io non capivo perché. Litigavano. «È colpa delle stronzate da scrittore con cui si riempie la testa. Deve trovarsi un lavoro, un lavoro vero, non può continuare a bighellonare per il resto della sua vita», diceva papà. Mamma di solito lo ignorava. Le venivano delle fenditure sulla fronte e le rughe d’espressione attorno alla bocca si accentuavano in un sorriso subdolo. Non riuscivo a prendere sul serio mio padre; durante l’ultimo derby aveva indossato una visiera da pescatore e una maglietta con su scritto BIG DADDY. Mi metteva in imbarazzo. Perché mia madre se l’era sposato?

L’ottavo giorno di reclusione di Daniel papà tornò prima dal lavoro e accese la televisione, c’era la partita. Si sbracò sullo schienale e mi chiesi se in ufficio lo avessero costretto ai lavori forzati. La camicia color senape era pezzata sulle ascelle; si schiarì la gola e si allentò la cravatta color prugna. «Mel, puoi scaldarmi la pizza al microonde, per favore?»

Ero al telefono con Giselle e preparai il pranzo a papà; parlare con lei era semplice: bastava ascoltarla e interromperla con un «sì, si» ogni tipo due o tre minuti, fingendo di non riuscire a dire altro perché sopraffatta dall’emozione.

«Kristal Hunt esce con Aaron Matis», diceva Giselle, «Tu lo sapevi? Quella stronzetta cattolica ti ha fregato il ragazzo! Non sei arrabbiata? Affitteranno una casa al mare a Cancún per le vacanze e ho sentito dire che lei e le sue amiche ricevono sconti di gruppo per abortire prima del ballo della scuola…», osservai la mozzarella squagliarsi dentro il forno e dopo qualche secondo portai il piatto a papà. Giselle diceva che mi sarei dovuta sentire molto male per quella notizia, dato che io e Matis avevamo scopato. Papà addentò la pizza emettendo dei sospiri di preoccupazione. «Cosa hai fatto a tuo fratello, Mel?»

Fu come se qualcuno mi avesse strappato il cuore dal petto. La voce della mia migliore amica dall’altro capo della cornetta divenne poco più che un ronzio.

«Che vuoi dire, papà?»

«La mamma mi ha raccontato che Daniel dice cose strane… Di te.»

«Per esempio?»

Scrollò le grosse spalle. «Non ho ben capito. Dovresti parlarne con tua madre. Ma se hai fatto qualcosa a tuo fratello, vatti a scusare… Ora fammi guardare la partita.»

Quella notte scarabocchiai i quaderni di scuola. Disegnai piccole blatte in fondo alle pagine. In un’altra vita dovevo essere stata un insetto in un barattolo di vernice: colorata, silenziosa, indifesa, fragile, incompresa e completamente assuefatta da sostanze tossiche. Rimuginai su quello che mi aveva detto Giselle al telefono. Il liceo era una merda.

Siccome mio fratello non rispondeva né ai messaggi né alle telefonate, in un pomeriggio particolarmente piovoso si presentò a casa Lennox. Era sull’uscio della porta, con le mani infilate nelle tasche di un k-way. «Ciao Melinda, scusami se piombo a casa vostra così, ma sono giorni che provo a contattare Daniel. Per caso è ancora vivo?»

Lennox e io ci tolleravamo. Per lui ero sempre stata la sorellina rompipalle del suo migliore amico e per me lui era sempre stato colui che lo portava verso la devianza. Però, era l’unico amico sincero che aveva. Gli occhi neri di Lennox scintillarono in una muta preghiera. «Dai, entra», spalancai la porta, «ma togliti quelle zavorre».

«Sono stivali da lavoro questi» replicò, ubbidendo, «ti avverto, ho i calzini bucati.»

«Che schifo che fai.»

Tornai in salone e abbassai il volume della tivù, stavo vedendo The Truth About Killer Dinosaurs sulla rete BBC 1 per distrarmi e passare un po’ il tempo. Lennox lanciò una finta occhiata interessata allo schermo. «Questi Tirannosauri sono dei veri mangiatori di carcasse». Il fuoco stava bollendo e mi precipitai in cucina a spegnere la fiamma; avrei preparato la pasta per me, per Daniel e siccome godevo degli sfavori di quell’iniqua forza castigatrice chiamata tempismo adesso anche per Lennox.

Avevo in mente di cucinare gli spaghetti, perché a Daniel piaceva il cibo italiano e avevo riesumato un ricettario nella libreria impolverata del salotto. I piatti che avevo cucinato in quella settimana, però, non li aveva mai mangiati. Viveva di cibo in scatola e di ramen in busta. Buttai gli spaghetti nella pentola. «Gli hai portato uno spinello, almeno?»

Lennox mi guardò perplesso. «Dovevo?»

Scoppiai a ridere. Una risata un po’ isterica, ma pur sempre una risata. «Scherzavo» chiarii prima che potesse farsi strane idee sulla mia irreprensibilità, «comunque se vuoi andare a salutarlo è in camera».

«Ha la mononucleosi?» domandò con un velo di tragica ironia, «Perché non è in giro con qualche bella gnocca?»

Il mio stomaco si strinse e non per la fame. «L’amico a cui fare certe confidenze sei tu» gli ricordai.

Accolse la mia affermazione come un invito a sloggiare dalla cucina. Rimasi in silenzio e udii il rumore dei suoi passi farsi sempre più lontano. «Siamo ridotti maluccio, è, branda.»; Daniel rise e il mio cuore fece un doppio carpiato. Poi la porta si richiuse e pensai che fosse giusto così. Dopotutto, non avrei voluto ascoltare i loro discorsi sulle belle gnocche. 

La pasta era quasi pronta. La immersi in un mare di ketchup e la servii a una tavola vuota. «È pronto!» gridai, arrotolando il primo boccone. Lennox e mio fratello arrivarono dopo poco. Daniel aveva un’aria distrutta e non mi guardò neanche in faccia, come faceva da tutta la settimana del resto.

«Se avessi saputo che sei in grado di cucinare certi piatti, Melinda» iniziò Lennox sistemandosi il tovagliolo in modo da non sporcarsi la maglietta, «ti avrei sicuramente presa di più in considerazione.» «Mangia e sta’ zitto», disse Daniel con un sorriso.

«Oggi niente scatolette di tonno, Dan?» chiesi sarcastica, cercando di catturare la sua attenzione e dissimulare il mio imbarazzo. Mi rispose guardando nel suo piatto: «Oggi dobbiamo festeggiare».

«Cosa si festeggia, amico?» chiese Lennox. Avevo un brutto presentimento da giorni, ma non facevo altro che scacciarlo via dalla mente.

«Mi arruolo» disse Daniel con voce monocorde e alzò lo sguardo verso di me, «ho deciso. Lascio Brixton, Mason Street, lascio Lettere Moderne. Me ne vado»

La pioggia non cessò di scrosciare sopra i tetti e si trasformò in un acquazzone che durò per giorni interi. Da quell’istante, fu come se avessi cominciato a trattenere un respiro dolorosissimo e il vuoto sonoro prodotto dalla mia testa riuscì a farmi elaborare dei pensieri parziali. Era chiaro che Daniel voleva liberarsi di me, della mia presenza. Gli procuravo disagio e, di fronte all’evidenza crudele dei fatti, non potevo fare altro che arrendermi: mostrargli il mio disappunto con grida scomposte e raccapriccianti singhiozzi lo avrebbe definitivamente convinto che scappare da me sarebbe stata la soluzione più matura. Se fossi stata più grande me ne sarei andata io. Invece ero ancora in quell’età dove non potevo fare altro che subire le scelte altrui e anche di buon grado.

I nostri genitori non ne fecero una tragedia, anche se mia madre teneva gli occhi spalancati e le labbra serrate in un sorriso tremulo mentre Daniel comunicava la notizia. Per notizia intendo una desolante apologia sull’esercito britannico e sui benefici che un soldato inglese può ottenere a lungo termine. Insomma, un mucchio di stupidaggini per dare una parvenza di spirito nazionalista ai suoi precipitosi colpi di testa. Se i nostri genitori avessero conosciuto Daniel un po’ meglio, avrebbero intuito senza troppi sforzi che era clamorosamente fuori di sé. Invece nostro padre si rivelò addirittura orgoglioso. Non aveva mai avuto l’ambizione che suo figlio andasse in guerra dall’altra parte del mondo, ma sospettavo che per lui qualsiasi destino sarebbe stato più auspicabile del poeta errante. O del commesso al supermarket, se Dio l’avesse preso a cuore. Per la mamma era più o meno lo stesso, ma per lei la faccenda era radicata più in profondità. I suoi indicibili sensi di colpa per averci fatto trascorrere l’infanzia e l’adolescenza da soli a Mason Street si esprimevano in una misericordiosa rassegnazione a quelli che ormai non si potevano neanche più chiamare capricci, bensì sconsiderate bravate adolescenziali. Papà odiava la sua accondiscendenza, però in quell’occasione gli ritornò utile. Avevo capito molte più cose dei miei genitori in quella settimana, che in una vita intera. E non fu rincuorante, perché una volta che Daniel si sarebbe arruolato, avrei dovuto convivere con quelle consapevolezze da sola. E quel giorno arrivò prima del previsto. L’esercito britannico aveva bisogno di soldati e il requisito minimo per entrare nell’unità era avere la cittadinanza. Fece la rinuncia agli studi, smantellò la sua libreria e partì, tutto questo nel giro di un mese.

Rimasi sola.

A scuola intrattenevo, per esigenze sociali, qualche conversazione noiosa sul riscaldamento globale ma il mio obiettivo segreto era quello di tornare a casa e farmi un sonnellino. Non riuscivo a connettere. Il mio cervello si ingarbugliava attorno agli stessi quesiti e mi domandavo se avessero spedito Daniel in qualche paese lontano come l’Afghanistan. Non potevo fare a meno di pensare che fosse colpa mia. Se non mi fossi fatta sopraffare dal desiderio, Daniel sarebbe stato ancora qui, a leggere Fielding o Kurt Vonnegut e a prepararmi da mangiare. Con il passare dei giorni, il pensiero che fossi la responsabile dei suoi sogni infranti divenne ancora più soffocante. Ogni tanto le mie amiche provavano a dirmi che avrei dovuto vivere di più la realtà e, quando un giorno risposi che la realtà era sopravvalutata, ci rinunciarono. In compenso, migliorai moltissimo in matematica e il professor Barnes definì i risultati ottenuti nell’ultimo trimestre “assolutamente inaspettati”.

Durante la sua prima lezione, ci aveva informato che la matematica aveva un’infinità di applicazioni pratiche che ci sarebbero tornate utili nel corso della vita. Da quel giorno, tutte le mattine entrava in classe portando con sé una nuova Applicazione alla Vita Reale e io l’avevo sempre trovata una cosa tenera. Comunque, era durata poco. Una volta l’applicazione consisteva nel calcolare quante tartarughe bisogna allevare se si voleva essere competitivi nel mercato delle tartarughe. La discussione era finita con una diatriba tra radicali difensori dei diritti degli animali e irriducibili capitalisti che sostenevano che il commercio di tartarughe non era un’attività sufficientemente redditizia. Quindi adesso il professor Barnes era diventato un professore normale, per il quale un risultato “assolutamente inaspettato” era sinonimo di “aspettati di finire in punizione per aver copiato”.

Perciò, per qualche periodo esplorai le lande sconosciute dell’aula della detenzione e dissi addio ai miei pisolini pomeridiani. Scoprii che Aaron Matis aveva un’indole rissosa. Un pomeriggio, in punizione, si presentò con un occhio livido e gonfio. Prese posto accanto a me. «Stai bene?» gli chiesi.

Annuì e così continuai a scarabocchiare blatte su un foglio.

«Sai, Melinda, è da un po’ di giorni che voglio parlarti» disse, «Mi spiace per come ti ho trattata quel giorno in garage. Non ho fatto lo stronzo perché per tutta la scuola sei “quella sempre con i jeans”. Era molto importante per me, che lo sapessi.»

«Oh...Grazie, Aaron sei davvero gentile, non preoccuparti per me. Spero che almeno con Kristal tu sia felice.»

«Ma no, vedi Melinda, è questo il punto: non credo di essere poi molto attratto dalle ragazze…»

La consolazione di essere stata corteggiata dal più appetibile della scuola si sbriciolò in un istante. Con il tempo, colsi il lato positivo della questione: c’erano buone probabilità che i baci con Aaron non mi avessero trasmesso nulla perché non c’era la chimica giusta a causa della sua omosessualità e che, quindi, con qualcun altro questa storia del bacio sarebbe anche potuta funzionare. Ma non aveva molta importanza perché non avevo nessuna intenzione di baciare qualcuno, almeno per un po’. L’unica cosa di cui avevo bisogno era starmene da sola, in casa, a ingozzarmi di cibo e di vane speranze, a cullarmi nell’inconsistente certezza che si trattava solo di un sogno e che mi sarei svegliata presto.

I mesi si trascinarono a fatica e i miei pensieri su Daniel colavano dal cervello alla pelle come lava. Fa male non è solo un modo di dire. Faceva male sul serio, era un dolore fisico pensare a lui. A scuola mi ero isolata. Ero una sfigata; a mensa e a ricreazione me ne stavo seduta da sola, sotto il luminoso cartello al neon “Sfigata e neanche tanto sveglia. State alla larga. Non offrite merendine”. Almeno, gli altri sfigati avevano il fiuto nell’individuare altri sfigati e sedere loro vicino. Io ero completamente emarginata e la cosa, per un po’, mi stava bene così. Il vero dramma arrivò quando mi accorsi che pochi giorni dopo avrei avuto il concerto dei Keane e non avevo nessuno con cui andarci. Non parlavo con Elizabeth e Giselle da settimane, e comunque i biglietti erano due. Inoltre, i miei genitori avevano mandato in guerra Daniel ma non avrebbero mai mandato a un concerto me, senza un “supervisore”. Mi venne in mente un’idea un po’ folle.

Bussai con insistenza a quel portone, fino a farmi diventare le nocche viola. Quell’edificio cadeva a pezzi e le infiltrazioni d’acqua erano visibili anche dall’esterno; le erbacce non erano state estirpate e c’era odore di fogna. Quando Lennox mi aprì, sbirciai in automatico l’interno della casa buia. C’erano cartoni di pizza sul divano e lattine di birra vuote sul tappetto. Lennox aveva un incidente ferroviario sulla faccia. «Devi venire con me al concerto dei Keane» annunciai risoluta.

Mi guardò con la sua solita aria annoiata e poi rientrò a casa, lasciando la porta aperta. «Tranquilla, non ti chiederò di toglierti le scarpe» mi informò.

«Veramente è per la puzza» spiegai spingendomi con coraggio fino all’ingresso.

«Questa è la parte in cui cerchi di essere carina con me, per convincermi?» estrasse magicamente un pezzo di pizza dalle pieghe della poltrona e mi rivolse un sorriso un po’ odioso.

«I biglietti erano un regalo di Daniel» dissi, puntando tutto sulla compassione. Non funzionò, perciò aggiunsi: «Lo so è patetico che io lo stia chiedendo a te»

«Un po’, francamente»

«Cosa devo fare per convincerti, allora?»

«Senti, Melinda. Sei la sorellina del mio migliore amico, e per quanto io possa averti a cuore sono troppo vecchio per essere un tuo amichetto e anche troppo giovane per spendere il mio tempo a farti da baby-sitter»

Vista l’incrollabile integralità morale di Lennox, colsi al volo il suo spunto. «Quanto vuoi essere pagato per accompagnarmi al concerto?»

«Cento sterline e niente radio in auto.»



Note.
Un duro colpo per Melinda, il fatto che suo fratello abbia deciso di andarsene... E quest'improvviso avvicinamento a Lennox, secondo voi, a cosa porterà?
Vi mando un grande abbraccio e vi ringrazio per aver letto anche questo capitolo! Ci vediamo al prossimo e non dimenticatevi di farmi sapere cosa ne pensate con una piccola recensione.
Con tantissimo affetto,
JSGilmore.
   
 
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