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Autore: _Frame_    17/02/2022    0 recensioni
- Insomma l’ideale dell’ostrica! - direte voi. - Proprio l’ideale dell’ostrica! e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo, che quello di non esser nati ostriche anche noi -.
(Giovanni Verga, Fantasticheria)
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«Io sono l’ostrica, Alberto. Sono nato su uno scoglio ed è lì che sarei dovuto rimanere, perché non c’è altro modo per me di sopravvivere. Ho creduto di essere un pesce più grande di quello che sono, mi sono buttato in una corrente che alla fine mi ha rigettato, e ora non so più a quale mondo appartengo. E se un giorno dovessi finire per nuotare così in là da non avere più la forza di tornare indietro, quando avrò bisogno di aiuto? Cosa ne sarà di me? Non potrò sempre contare sul fatto che ci sarete tu e Giulia a venirmi a ripescare.»
Genere: Angst, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le Cronache di Portorosso'
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Il Gabbiano d’Argento era l’osteria più antica di Portorosso – e in effetti anche l’unica – e il luogo di ritrovo più frequentato dai pescatori durante l’inverno, dato che con l’arrivo della stagione fredda il bar in piazza tirava dentro le seggiole e serrava le saracinesche poco dopo l’ora di cena. L’osteria invece rimaneva aperta fino a notte fonda, talvolta fino alle prime luci dell’alba, fino a quando le barche della pesca notturna rientravano dandosi il cambio con quelle che salpavano di mattina buon’ora per andare a fare su le reti dei molluschi.

I pescatori potevano così godere di espresso pronto da mattina a sera, a volte servito persino con la panna, anziché col latte, oppure corretto con grappa di eccezione distillata nelle più rinomate cantine lombarde, e accompagnato dalla migliore focaccia di tutta la Liguria. E inoltre c’era lo sconto sui pasti per tutti quei pescatori che fornivano parte del raccolto che poi finiva cotto in padella.

La qualità del servizio compensava pienamente l’ambiente un po’ tetro e poco illuminato, e il costante odore di vino vecchio che apparteneva alle pareti della locanda come le alghe appartengono al fondo del mare.

Alberto e Massimo valicarono la soglia dell’anticamera da cui proveniva una luce tenue e bruna, filtrata da paralumi di vetro soffiato color ambra. Alberto si strofinò le guance formicolanti, si riabituò presto al tepore e all’asciutto che sostituirono la fredda umidità che aveva respirato in strada durante il tragitto, camminando attraverso la nebbia venuta su dal mare, una bruma bianca e collosa che pareva proprio essergli entrata nelle ossa. Chiuse gli occhi e annusò. Lo stomaco gorgogliò, la bocca s’inumidì, e la tensione del viso si distese in una beata espressione di appagamento. La sua pancia si riempì di un profumo tiepido e avvolgente di cucina casereccia, di stufa a legna, di bruschette abbrustolite e di zuppa di orzo e salame. Un profumo decisamente più invitante rispetto all’acre odore di vino e grappa.

Sempre stando appiccicato al fianco di Massimo che lo aveva guidato durante il tragitto fino all’osteria, Alberto passò l’anticamera ed entrò nella sala da pranzo.

Giunsero i rumori dei bicchieri risciacquati sotto il getto del rubinetto, i gorgoglii della moka da cui sgorgò caffè appena fatto, e il ronzio di un piccolo frigorifero infilato sotto il bancone a forma di ferro di cavallo che occupava un’intera parete della stanza.

Alberto sollevò lo sguardo.

Sugli spigoli delle pareti erano incastonate lampade angolari a forma di conchiglia. Era da lì che proveniva il riverbero color ambra. Ma un basso e traballante riflesso di luce più fredda giungeva anche dallo schermo in bianco e nero del televisore installato sopra il bancone, simile a quello che pendeva dal soffitto del bar in piazza. Passò la sigla del Carosello seguita da uno spot dove tre uomini in abito elegante discutevano su un piccolo palchetto decorato da festoni. Mancava il sonoro, i tre uomini blateravano a vuoto, ma nessuno dei pescatori seduti ai tavoli sembrava particolarmente interessato alla trasmissione. Tutti chiacchieravano, ed era il basso borbottio di voci impastate dal vino e arrochite dal freddo che riempiva l’ambiente.

L’oste attraversò la stanza, portò via i piatti sporchi da un tavolo e andò a servirne un altro deponendo una cesta di pane e versando grappa scura nei bicchierini di due pescatori che ringraziarono con un cenno, continuando poi a parlare fra di loro.

Alberto tornò a chiudere gli occhi, si isolò dal brusio di voci, dai passi dell’oste, dal ronzio del frigorifero, e diede un’altra annusata all’aria, inspirando più a fondo, per orientarsi nell’ambiente. Oltre il prepotente odoraccio di vino vecchio e acidulo, riconobbe il profumo più dolce di caciucco di pesce, di sugo di pomodoro, della polvere di pepe e spezie con cui condivano lo sgombro all’olio. E ancora i vapori cremosi della zuppa di patate, cipolla e prezzemolo, in cui intingevano il pane tostato ricoperto di sottilissima polvere abbrustolita che si sbriciolava non appena ne spezzavi la crosta fra le mani.

Il rumore di passi si avvicinò a lui e a Massimo. Li accolse una voce estranea ma amichevole. «Ah, Massimo!»

Alberto riaprì gli occhi e si ritrovò davanti la figura dell’oste. L’uomo strofinò una mano sul grembiule sporco e sorrise a Massimo mentre stava ancora sorreggendo il vassoio con i piatti e i bicchieri da portare a lavare. «Qual buon vento. Sei passato per un goccio? È tanto che non vieni a trovarci.»

«Veramente cerco Tommaso.» Massimo si sbottonò il cappotto senza però sfilarselo. «È venuto a chiamarmi poco fa, dovrebbe essere già qui che mi aspetta assieme a…»

«Massimo!» Un braccio si levò da uno dei tavoli, sventolò chiamandolo da un angolino della sala da pranzo, quello più buio e isolato, sotto il lampadario avvolto nella rete da pesca decorata con stelle marine essiccate. «Siamo qui, vieni» esclamò ancora Tommaso. «Ti aspettavamo.» Assieme a Tommaso, sedeva una figura in penombra che Alberto non riconobbe. Un uomo che si servì dalla caraffa smaltata, che mandò giù il vino tutto d’un fiato, e che rimase poi leggermente chino sul bicchiere vuoto.

L’oste che li aveva accolti tornò a strofinarsi la mano sul grembiule macchiato, passò il vassoio da un braccio all’altro, e rivolse a Massimo un cenno d’intesa, un’alzata di mento. «Sono subito da voi.» Sfilò in direzione del bancone senza sfiorare Alberto nemmeno con la coda dell’occhio.

Massimo ricambiò il cenno con il mento. «Fa’ con comodo.» Posò la mano sulla spalla di Alberto, e quel contatto lo fece sobbalzare. Massimo percepì quella scossa di tensione, quella sua esitazione. Gli diede una strofinata d’incoraggiamento fra le scapole e si fece seguire all’interno del locale. «Vieni.»

Alberto raccolse un lungo risucchio di fiato dalle narici, s’impettì e affondò un primo passo dietro la camminata di Massimo. Partì bene: spalle larghe, pugni stretti, mento alto e sguardo aperto.

Occhiate estranee sbocciarono da un angolo all’altro dell’osteria e gli si strinsero attorno. La pressione di quegli sguardi ostili e sospettosi si fece pesante da attraversare e soffocante da respirare, simile alla nebbia attraverso cui Alberto aveva camminato rabbrividendo e battendo i denti durante il tragitto da casa al Gabbiano.

Rallentò il passo, ingobbì le spalle, e tornò a fiancheggiare la camminata di Massimo.

Passarono vicino a un tavolo dove tre pescatori chiacchieravano rumorosamente – i bicchieri colmi di vino, le guance rosse, gli occhi ebbri e allegri –, e uno di loro finì di raccontare una barzelletta. «… e così l’infermiere arriva in Piazza San Marco e gli grida: Gino, guarda che se non vieni giù faccio segare il campanile!»

Gli altri due risero di gusto.

Finito di ridere, i loro sguardi volarono su Massimo e Alberto che erano passati lì affianco. Uno di loro diede una gomitata al compare, indicò Alberto con un’alzata di mento, e si chinò a bisbigliare all’orecchio dell’altro. I mormorii si propagarono anche da altri tavoli, pungenti come una sottile pioggerellina di spilli. Nessuno di loro ebbe più voglia di ridere, e anche i chiacchiericci provenienti dagli altri angoli del salone sfumarono in brusii indistinti.

L’atmosfera s’incupì come se un freddo soffio di vento avesse alitato sulle lampadine, spegnendole come candele e facendo calare un drappo di gelo.

Alberto allontanò lo sguardo dagli occhi degli altri pescatori, e si concentrò sulle pareti. Trattenne il fiato, deglutì, e sentì la fronte gelare, colpito da una forte scossa allo stomaco.

Le pareti dell’osteria erano infatti decorate con collezioni di arpioni dalle punte smussate e con vecchie reti che pendevano dai ganci degli ami da pesca. Piccoli quadretti a olio ritraevano pescatori che, rischiariti dalle luci dell’alba, trascinavano le loro zattere sulla spiaggia; navi ormeggiate fra gli scogli foderati di alghe e molluschi; gabbiani che volavano in mezzo alle nubi in tempesta; un pescecane che emergeva dalle acque di un oceano nero e che veniva infilzato dalla prua a sperone di un veliero.

Alberto soffiò l’aria che aveva trattenuto nel petto, sentendosi rabbrividire fino alle ginocchia. Zampettò contro il braccio di Massimo, si appese con le punte delle dita alla manica del suo cappotto, e si tenne riparato dietro di lui.

Camminarono ancora fra i tavoli, schivarono le seggiole che non erano state rimesse a posto, e su di loro volarono altre occhiatacce storte, altri bisbigli piovigginati fra i rumori della cucina. Qualche sguardo si allontanò di scatto, altri visi si nascosero dietro i mazzi di carte, e uno dei pescatori raccolse il suo cappotto, si rinfilò il berretto, e uscì dalla sala.

Nonostante la rassicurante presenza di Massimo a camminargli affianco e a infondergli coraggio, Alberto perse ogni sicurezza. La sua corazza si sbriciolò, e lui si sentì rimpicciolire come un cubetto di ghiaccio che scivola sfrigolando lungo una piastra rovente, fino a dissolversi in una misera nuvoletta di vapore.

Forse non è stata una grande idea portarmi qui…

Giunsero al loro tavolo.

Tommaso si alzò, spostò una sedia per loro e li accolse con un sorriso cordiale, il primo della serata. «Vieni, vieni, accomodati.» Lui andò a sedersi al tavolo affianco dove lo aspettavano altri due pescatori che avevano appena distribuito una mano di carte. Inviò un’ultima occhiata all’uomo nella penombra. «Vi lascio ai vostri affari.»

Massimo raccolse la seggiola spostata da Tommaso, si accomodò. «Eros.»

Eros non alzò la fronte, ci fu solo una rapidissima scintilla azzurra lampeggiata dai suoi occhi che erano brillati nella penombra. «Massimo.» Strinse la mano rugosa sul suo bicchiere appena riempito, bevve d’un fiato il vino rosso e scrutò, da sotto il riverbero ambrato delle lampade a parete, anche il viso di Alberto che si era messo seduto vicino a Massimo. «Ah.» Le folte sopracciglia grigie compirono un guizzo verso l’alto. Le guance velate di barba si raggrinzirono, infossarono l’ombra di una smorfia all’angolo della bocca. «Hai portato dietro anche il ragazzo.»

Alberto serrò i pugni sulle cosce, strinse un basso ringhio in fondo ai molari, e piantò un broncio che la penombra tenne nascosto. Io ho un nome. Tirò un po’ più sotto la sedia, facendola stridere sul pavimento, tanto per far capire all’uomo che non aveva paura di lui e che non aveva intenzione di sloggiare solo perché lì non era gradito. Allontanò gli occhi e tamburellò le dita sulle ginocchia per resistere al bruciante impulso di attaccar briga. Be’, meglio essere “il ragazzo” piuttosto che essere “il Mostro Marino”. Per lo meno questo tizio non sembra avere tutta questa voglia di infilzarmi con lo sguardo.

«Lui è Alberto.» Massimo gli tornò a posare la mano sulla spalla, dandogli il sostegno di cui aveva bisogno. «Mi aiuta fuori in mare e con il lavoro in pescheria.»

Sentendosi al sicuro, così vicino alla presenza di Massimo, Alberto ritrovò la forza di guardare attraverso la penombra frastagliata dalle lampade a forma di conchiglia e dalle reti che pendevano dalle pareti. Incrociò di nuovo il volto di Eros. L’espressione indecifrabile ricamata dalle rughe che raggrinzivano il viso bruciato dal sole, una profonda cicatrice ad attraversargli la barba della guancia destra, le sopracciglia cispose a gettare ombra sull’azzurro ghiaccio degli occhi ristretti, e i baffi a nascondere la linea della bocca.

Alberto cavò fuori quel poco di buona educazione che conosceva e gli porse la mano foderata di bende e cerotti. «Piacere.»

Eros aggrottò un sopracciglio. Posò lo sguardo sulla mano aperta di Alberto. Spostò anche la sua, ma solo per agguantare la caraffa di vino e versarsi un altro bicchiere.

Alberto strizzò un paio di volte la presa a vuoto. Alla fine si arrese e tirò indietro il braccio. Chiaro.Si strofinò la mano sul cappotto, ricordandosi solo in quel momento di averlo ancora addosso. Si slacciò i primi bottoni dalle asole, sventolò il bavero per farsi aria al collo. Perché mai dovrebbe dare la mano al Mostro Marino? Sia mai che gliela stacchi a morsi. Che razza di…

Eros accennò un sorriso assente attraverso l’orlo del bicchiere che teneva ancora fra le labbra. Si passò una nocca sotto i baffi e parlò con voce inasprita dal vino. «E sei tu quindi che ti occupi delle consegne al posto di Giulia?»

Oh, bene, si era riferito a lui direttamente e non tramite Massimo. Buon inizio. Forse c’era ancora una minima speranza su cui contare per far colpo.

Alberto tossicchiò per tornare a guadagnare un po’ di fiato nel petto. «Di solito le faccio in bici, sì.» Raddrizzò le spalle e mostrò uno sguardo aperto, un mezzo sorriso che brillò all’angolo della bocca. «Ma io so già guidare la Vespa, quindi è solo questione di tempo prima che impari a guidare anche un furgoncino, o un’auto normale. Imparo in fretta, io.»

Eros contrasse un sopracciglio e indirizzò quell’occhiata su Massimo.

Massimo annuì. «È molto intraprendente.»

«Vedo.» Eros fissò il fondo vuoto del suo bicchiere e sbuffò. «E anche impertinente, oserei dire.»

Alberto fece cadere il sorriso, tornando scuro in volto, ma sorvolò. Non era la cosa peggiore che si era sentito dire in faccia, dopotutto.

Li raggiunse l’oste, cambiò i bicchieri sporchi, depose un tagliere di bruschette e di fette di formaggio assieme a una ciotola di olive taggiasche infilzate da stuzzicadenti. «Signori, cosa vi porto da bere?»

Eros spinse verso di lui la brocca vuota. «Lasciaci giù un altro quarto di rosso.»

«Subito.» L’oste la mise sul vassoio. «E per il ragazzo? Abbiamo gassosa, limonata, succo d’arancia, Coca-Cola…»

Eros rise e scacciò via quelle proposte con un brusco sventolio di mano. «No, no, macché. Il ragazzo beve con noi.» Guardò Alberto attraverso quei penetranti e indecifrabili occhi azzurri. «O vuoi farmi credere che Massimo non ti ha mai fatto assaggiare un goccio di vino, ragazzo? Neanche a casa?»

Alberto si sentì raggelare, inchiodato sotto quello sguardo che capì sarebbe stato in grado di esporlo con ancor più facilità di una scrosciata di pioggia improvvisa, o di uno schiaffo d’acqua in faccia. Ti sta mettendo alla prova. Non farti trattare da ragazzino, non fargli credere che non hai idea di cosa sta parlando, mostragli di che pasta sei fatto. Spernacchiò una risata a cuor leggero. «Pfft, ma certo che Massimo mi ha già fatto bere vino.» Stravaccò le spalle sullo schienale della seggiola, lasciandovi ciondolare un braccio attorno. Accavallò le gambe sbottonandosi un’altra chiusura del cappotto, ed esibì un gonfio sorriso da sbruffone. «Mi dà da bere ogni giorno, praticamente, anche a colazione.»

Massimo gli lanciò un’occhiata obliqua. L’oste strabuzzò le palpebre e per poco non lasciò cadere il vassoio. Persino Tommaso e un altro dei pescatori seduti al tavolo vicino si girarono a sbirciare la scena.

Alberto si morsicò il labbro, desiderando solo mangiarsi la lingua. Ma che cavolo. Sprofondò contro lo schienale della seggiola, arrossì sentendo le orecchie andare a fuoco. «L-la…» Pescò una bruschetta dal tagliere, trovandola decisamente più appetibile delle olive. «La gassosa può andare.» La rosicchiò per non essere costretto a tenere lo sguardo alto su Eros e sulle altre facce che si erano girate verso di lui.

L’oste alzò le spalle, sfoderò un canovaccio per dare una rapida strofinata al tavolo, e si dileguò. Rimasero loro tre soli, il brusio di voci a circondarli, e gli acquerelli incorniciati a vegliarli dalle pareti.

Eros chiuse un pugno davanti alla bocca e cacciò un tossito rauco e tonante. «Dunque...» Sfilò un fazzoletto dal taschino e si strofinò la bocca. «Tommaso mi diceva che siete interessati a una mia Ape.»

Massimo annuì. «Una di quelle che hai esposto nel garage dell’officina. Quella color verde bottiglia.»

«Sì.» Eros rimise in tasca il fazzoletto. «Ce l’ho ben presente.»

L’oste tornò da loro, depose un bicchiere di gassosa zampillante davanti ad Alberto e servì il vino rosso in una caraffa smaltata uguale alla precedente, decorata dagli stessi fiori disegnati da spennellate di tempera.

Eros servì prima Massimo e poi riempì un bicchiere anche per sé. Contemplò le sfumature del vino che, sotto le luci così basse e calde, apparvero di un intenso color prugna. «In realtà c’è già un tizio di Camogli che sarebbe interessato ad averla.» Bevve un sorso piccolo e schioccò la lingua fra i denti stretti. «Per i pezzi di ricambio, più che altro. La mia reale intenzione era quella di mandarla su a Genova con il carico di domani, per farla arrivare in concessionario, ma mi hanno annullato l’ordine. Il fatto è che per me è sempre più difficile piazzare pezzi da rottamare. Ormai i clienti vogliono subito il piatto pronto. E io ho non ho più le energie di un tempo per stare dietro alle riparazioni in officina.» Espose una mano tremante, chiazzata dalla vecchiaia e prosciugata dalle rughe. Le unghie giallognole e consumate come trucioli di legno. «Le mani non lavorano più bene come un tempo, ahimè.»

Massimo avvicinò il vino alla bocca ma non bevve. «Ma non avevi un ragazzo che ti aiutava con il garage?»

«Lo avevo, appunto» si lagnò Eros. «Ma è partito questo settembre, proprio, ed è andato su a Torino. Gli hanno offerto un contratto in fabbrica e si è dileguato. Furbo, lui. Non posso nemmeno biasimarlo. D’altronde dove vuoi che vada restando qui?» Bevve ancora e puntò quei suoi occhietti di ghiaccio contro Alberto. «Non dare retta a Massimo quando ti promette di farti diventare un marinaio, ragazzo. Non sono questi i mestieri con cui si va lontano. Tempo cinque anni a questa parte e ti ritrovi confinato a fare lo scaricatore di porto.»

Alberto buttò giù un sorso di gassosa che gli punse la gola. Un caldo brivido di rabbia risalì la schiena e gli bruciò sulla nuca, accendendo in lui una fiammella, un vivo senso di protezione nei confronti di Massimo, lo stesso che sentiva provenire da lui quando gli posava la mano sulla schiena. Il desiderio di piantarsi davanti a Massimo, di slanciare la coda e di sguainare zanne e artigli per proteggerlo da quell’estraneo. Sparlino di me quanto vogliono, che facciano pure. Ma se si azzardano a dire anche solo una parola contro Massimo giuro che… «Io non sono un marinaio.» Posò il bicchiere tenendolo stretto con entrambe le mani. La condensa colorò di blu i polpastrelli schiacciati sul vetro. «Tantomeno uno scaricatore di porto. Io sono un pescatore.»

Massimo arruffò i baffi e sorrise d’orgoglio dietro i riflessi del vino color prugna. «La più nobile delle professioni.»

Alberto ricambiò il sorriso, sentendosi infiammare di gioia e d’orgoglio. Ma sì: chi se ne frega degli altri. Cosa mi importa di quello che pensano gli altri?A lui infatti bastava far sorridere Massimo, ricevere quei miti ma sinceri sguardi di approvazione, per sentirsi felice e appagato come non mai. Bastava quello per farlo sentire a casa, nel luogo a cui ora apparteneva.

Eros si strinse nelle spalle. «Se ci tenete tanto ad avere quell’Ape, io sono anche disposto a vendervela. Il resto sono affari vostri.» Pescò un’oliva infilzata da uno stuzzicadenti. «In cuor mio però mi sento di dirvi che non ne vale la pena, perché dovreste comunque darla in mano a qualcun altro per le riparazioni.» Trangugiò l’oliva e sbandierò lo stuzzicadenti come la bacchetta di un maestro di scuola. «Ci sono da sostituire le ruote, da rifare la vernice, sistemare gli specchietti, e dare un’aggiustata al radiatore. Ultimamente poi anche la marmitta aveva cominciato a singhiozzare di brutto. Se potessi lavorarci io allora sarebbe tutta un’altra questione. Potrei farvi un prezzo di favore. Ma così sarebbe come mettervi fra le mani un ferro vecchio.»

Alberto sollevò un sopracciglio, solleticato da un’idea che gli rischiarì la mente, dissolvendo i cattivi pensieri e soffiando via le nubi del suo malumore. «E se invece…» Passò l’indice attorno all’orlo umido del bicchiere di gassosa, sfregò i polpastrelli fra loro per dissolvere la sbavatura di squame, e tintinnò l’unghia sul vetro. «E se invece fossi io ad aggiustarla? Ad aiutare te…» Strinse i denti, tossicchiò e si corresse. «Ad aiutare lei con le riparazioni, intendo?»

Gli uomini del tavolo affianco, quelli seduti assieme a Tommaso, smisero di chiacchierare e un paio di loro si girarono. Persino l’oste che era appena passato per servire il caffè ai giocatori di carte lanciò un’occhiata ad Alberto. Tornò a riversarsi quella fine pioggerellina di sguardi che però non erano più ostili, né freddi come ghiaccio né pungenti come spilli.

Alberto li ignorò. Gli occhi calmi e attenti rivolti a quelli di Eros che lo scrutavano ancora con una vena di dubbio. «Lei prima ha detto che il ragazzo che la aiutava si è trasferito, no? Potrei sostituirlo io, per il tempo che serve per riparare l’Ape. E così posso coprire parte delle spese con la mia – com’è che si chiama? – mano di lavoro?»

«Manodopera» lo corresse Massimo.

Alberto annuì. «Quella mano lì, insomma. Se da qui a un mese non dovessimo riuscire a combinare niente, allora lei si terrà l’Ape e se ne farà quello che vuole.» Piegò il gomito sul tavolo, si spinse in avanti con la spalla, e snudò tutto il candore del suo sorriso più accattivante. «Mi sembra un’offerta ragionevole, no?»

Sguardi affascinati ma anche esterrefatti volarono da un pescatore all’altro, nessuno escluso. L’oste arrestò il movimento del braccio, smettendo di passare lo strofinaccio umido sul tavolo appena sparecchiato, e anche lui trattenne il fiato in attesa della risposta. Gli uomini del tavolo di Tommaso avevano deposto i mazzi di carte per girarsi e seguire la trattativa. Qualcuno bisbigliò ricevendo in cambio una ridacchiata, e per quell’istante di silenzio si udì solo lo sgocciolio del lavandino e il ronzio del frigorifero proveniente da sotto il bancone.

L’unico sguardo che ancora non aveva smosso una ruga, scettico e per nulla impressionato, era proprio quello di Eros. «Uhm.» Eros sfilò la mano dal suo bicchiere di vino, si grattò la lunga cicatrice che s’infossava fra le rughe della guancia. «Hai mai messo le mani su un motore, ragazzo?»

Il viso di Alberto s’illuminò come il sole di luglio. «Sì, ovvio!» No, Alberto, non è vero. «Cioè, circa.» Giunse una fulminea ma pungente occhiata di Massimo. «Uhm, più o meno.» No, non è vero neanche questo. Alberto scosse il capo, espose le mani incerottate e chinò lo sguardo colpevole. «Okay, non esattamente. Però…» Si picchiettò l’indice sul petto e sfoderò il suo sorriso più convincente. «Però imparo in fretta, questo è sicuro, l’ha detto anche Massimo. E lei potrebbe insegnarmi un po’. Facciamo una cosa del tipo che lei mi spiega e io eseguo.» Gesticolò fra lui ed Eros. «Un lavoro mente-e-braccio, una cosa così. È fattibile, no? Ed è vantaggioso per tutti. Il lavoro fisico non mi spaventa, lo giuro, sono più forzuto di quello che sembro.»

«Uhm…» Eros squadrò con scetticismo il fisico spilungone e mingherlino di Alberto, ignorò qualche bisbiglio proveniente dagli altri tavoli, e increspò le sopracciglia. Tornò a rivolgersi a Massimo. «E com’è questo ragazzo, Massimo?» Bevve l’ultimo sorso di vino. «È affidabile?»

La grande mano di Massimo scese a battere sulla spalla ossuta di Alberto. «Lavora sodo.» Massimo rispose senza alcuna incertezza. «Ed è instancabile. Se ultimamente gli affari vanno bene è solo grazie a lui, per questo possiamo permetterci di spendere qualche lira in più per il camioncino. Te lo cedo volentieri per un paio di ore al giorno, se può imparare qualcosa di utile.»

Imparare qualcosa di utile, appunto. Alberto assottigliò le palpebre. Il suo sorriso brillò nell’ombra, solleticato da una calda frenesia, da un’immagine sempre più viva, così vicina da poterla toccare solo allungando la punta dell’indice. Imparare qualcosa di utile per quando potrò tenere una Vespa tutta mia, o per quando dovrò progettare un’auto dal doppio motore ultra-turbo con cui portare Luca fino in capo al mondo.

Eros annuì. «Allora si può fare.» Tornò a tirare fuori il fazzoletto appallottolato e ci tossì dentro. «Mandalo da me nel pomeriggio, magari dopo le consegne. Lo metto al lavoro sull’Ape e vedrai che in capo a un mese o due te la facciamo tornare come nuova. Poi posso anche cedervela.» Rimise il fazzoletto nella giacca. «Spese di manodopera escluse, chiaramente.»

Alberto sgranò gli occhi che brillarono come due stelle – Ce l’ho fatta? L’ho convinto? Avremo l’Ape? – e trasse un lungo sospiro che gli prosciugò tutto il fiato dal petto. «Sul serio?» Strinse i pugni e li slanciò verso il soffitto. «Grandioso! Non se ne pentirà, glielo giuro.» Aprì una mano, sputò sul palmo, facendolo diventare blu, e porse la stretta a Eros. «Affare fatto, allora.»

Eros stropicciò una smorfia allibita sotto i baffi. Guardò il luccichio delle scaglie brillate sotto la luce delle lampade, spostò quell’occhiata su Massimo.

Anche Alberto guardò Massimo – ma che ho fatto?

Massimo bevve dal suo bicchiere e socchiuse una palpebra verso Alberto, facendosi capire al volo.

Alberto afferrò il messaggio e si morsicò il labbro, come quando gli scappava qualche frase impertinente davanti ai clienti della pescheria. Tirò indietro il braccio e si asciugò la mano sul cappotto. Come non detto.

In compenso, diverse risatine giunsero dagli altri tavoli dell’osteria. «Accidenti, Massimo…» Uno dei pescatori allentò il bavero del maglione, picchiettò sul tavolo il mazzo di carte con cui stava giocando. «Altro che scaricatore di porto. Questo qui è da mandare a Milano, a fare il ragioniere. L’arrampicatore sociale!» Rise di nuovo e diede una gomitata al suo vicino. «Ci rende tutti ricchi. Una testa così è un peccato che vada sprecata.»

Il suo vicino annuì. «Oppure lo si manda a Torino, anche lui.»

«Già, perché no» ribatté l’altro, «ma mica a lavorare in fabbrica. Lo candidiamo come prossimo erede degli Agnelli.»

Risate più forti si sparsero anche fra gli altri tavoli, mescolandosi allo sfogliare delle carte da gioco e al tintinnio delle brocche con cui i pescatori continuavano a riempirsi i bicchieri di vino.

Alberto arricciò il naso, confuso. Agnelli? «E cosa c’entrano le pecore?»

Le risate questa volta crepitarono, sfacciate e fragorose, facendo vibrare le pareti, tanto che persino Massimo dovette tossicchiare dietro il pugno per nascondere la sua.

Alberto continuò a non capire. Tutti ridevano e lui non sapeva nemmeno quello che aveva detto. Forse ho raccontato una barzelletta senza saperlo? Devo ridere anch’io? «Ma che ho detto?» Guardò Massimo, andò in cerca di aiuto. «No, sul serio, che ho detto?»

Massimo scosse il capo e lasciò che Eros gli servisse dell’altro vino.

«In ragazzo mette di buon umore» disse uno dei pescatori che sedeva allo stesso tavolo di Tommaso. Soppresse un’ultima ridacchiata. «Dovresti portarlo qui più spesso, Massimo. Così rallegra l’atmosfera.»

Quella dichiarazione illuminò lo sguardo di Alberto e lo sparò sulla Luna, facendolo galleggiare attorno alla sua orbita assieme ai banchi di sardine che risplendevano in una notte dai mille colori. Quelle parole così semplici sfrecciarono attraverso il petto, riecheggiarono nel cuore – dovresti portarlo qui più spesso, portarlo qui più spesso, più spesso –, e lo fecero sentire libero e felice come la volta in cui si era lanciato assieme a Luca dalla scogliera della loro isola, saltando dalla rampa a bordo della loro Vespa, quando aveva creduto di poter toccare la volta celeste solo allungando il braccio verso le nuvole.

Ora sì che avrebbe potuto sul serio camminare sulla Luna. Altro che telescopio!

Respirò a pieni polmoni quella sensazione di completezza, la sicurezza di aver raggiunto un traguardo tanto voluto e tanto sofferto, dopo averlo desiderato e inseguito come aveva agognato la vittoria della Portorosso Cup.

Era una piccola conquista, quella di sentirsi più vicino agli abitanti di Portorosso, ma per lui valeva più di qualsiasi coppa, più di qualsiasi premio in denaro, più di qualsiasi Vespa. Se avesse battuto anche solo una volta le palpebre, era sicuro che si sarebbe ritrovato il viso inondato da copiose lacrime di commozione.

I pescatori accostarono i tavoli e avvicinarono le seggiole. Aggiunsero le caraffe di vino avanzato, raccolsero tutte le bruschette in un’unica cesta, e si fecero portare anche dei grissini assieme ad altre fette di formaggio. «Qui bisogna festeggiare l’occasione. Ecco, ecco…» Uno di loro versò il vino in un bicchiere pulito. «Offrigli un po’ di vino.» Lo depose davanti ad Alberto. «E per davvero, questa volta.»

Gli occhi di Alberto tornarono a illuminarsi. «Uuh, vino!» Lui allungò le mani e arrivò a sfiorare il bicchiere prima che Massimo glielo sfilasse da sotto il naso.

«Niente vino» disse Massimo. «Non ha l’età.»

«Ooh, bazzecole» brontolò il pescatore che teneva ancora in mano la caraffa. «Io la mia prima bevuta di vino l’ho fatta che ero ancora nella culla. Sai com’è che faceva mio padre? Intingeva il ciuccio nel vino e poi me lo dava da succhiare.»

Tommaso rise di gusto. «Questo spiega molte cose.» E anche altri si unirono a lui.

Massimo invece tornò a scuotere il capo, non volle sentir ragione. «Non dategli da bere. Se poi si addormenta sul tavolo mi tocca riportarlo a casa di peso.»

«No, no, non mi addormento.» Alberto giunse le mani e lo implorò facendo occhioni da cucciolo. «Lo giuro che non mi addormento.»

Un’energica manata batté sulla spalla di Massimo. «Oh, come se per te fosse un problema portare pesi, Massimo. Ecco, ragazzo, serviti e bevi.» Gli allungarono un altro bicchiere di vino. «Un goccetto ti farà bene. Il vino fa buon sangue.»

«Ma lui il sangue buono ce l’ha già» esclamò il pescatore che si era appena servito dalla cesta di grissini. «È pur sempre italiano, anche se è un mostro marino.»

Alberto accettò il bicchiere ma le sue mani compirono uno scatto improvviso, facendo stillare una goccia che gli rigò la nocca del pollice e che scese lungo la pelle solcando una riga di squame blu.

Le risate s’interruppero di colpo. Calò un gelo talmente fitto che persino il riverbero delle lampade perse calore. L’oste fece cadere un calice. Ci fu il crash! del vetro esploso in mille pezzi e il tintinnio dei cocci più piccoli sparpagliati fra le piastrelle del pavimento. Qualcuno si alzò per aiutarlo a raccogliere i pezzi fra i tavoli e le seggiole. Qualcun altro tornò ad allontanare lo sguardo, come avevano fatto quando Massimo e Alberto erano entrati nell’osteria, e altri tossicchiarono per celare l’imbarazzo.

Massimo scoccò un’occhiata dura e severa all’uomo che aveva pronunciato la battuta. Raggiunse il braccio di Alberto, fece sfilare il tocco dietro la sua spalla e strinse leggermente sulla stoffa del cappotto per fargli sentire la solidità del suo sostegno. Un gesto che sembrò proprio dire: non avere paura, se qualcuno s’azzarda a toccarti ti prendo per mano e ti porto via. Nessuno ti farà mai nulla di male, con me sei al sicuro.

Di nuovo ci fu solo il silenzio, i passi dell’oste che si allontanavano dai tavoli, il gocciolare del lavandino, il ronzio del frigorifero, e la fredda brezza notturna che scricchiolava sui vetri delle finestre annerite dal buio e offuscate dalla nebbia.

Alberto fece tamburellare le unghie sul vetro del bicchiere. Si affacciò al suo riflesso specchiato sulla superficie del vino, al suo viso da ragazzo che, davanti a quelle parole, a quell’accusa – … anche se è un mostro marino – non sembrò contare nulla.

Perché tu rimarrai sempre un mostro marino,gli suggerì la voce di Bruno, che ti piaccia o meno. Tu non sarai mai come loro, a prescindere dalla pelle che indosserai in mezzo agli umani.

«Altro che italiano.» La voce di uno dei pescatori che sedevano contro il bancone, sotto i riflessi azzurrini del televisore privo di sonoro, riecheggiò nel silenzio, facendo voltare tutti. L’uomo tenne alto il suo bicchiere di vino, come per celebrare un brindisi. «Ormai lui è di Portorosso.» Strizzò l’occhio in direzione di Alberto. «Oppure no, ragazzo?»

Alberto venne scosso da un altro scatto improvviso. «Ecco…» Di Portorosso? Io? Sul serio? «Io...»

«Sciocchezze.»

Quella seconda voce, così brutale e improvvisa, fu un doloroso tuffo al petto. Alberto sentì il suo cuore infrangersi emettendo lo stesso crash! secco e cristallino del bicchiere che poco prima era caduto sul pavimento.

La voce di Bruno riemerse, odiosa e insistente: ora si rimangeranno tutto, vedrai. Ed Eros si rimangerà pure la proposta di farti lavorare in officina. È inutile che ci speri, caro Alberto. Tu non potrai mai fare parte di questo paese, a prescindere da quanto lo desidererai e a prescindere da quanto ti impegnerai per farti accettare dagli altri pescatori.

Quello stesso tizio che aveva parlato per ultimo si alzò dal suo tavolo, raccolse una seggiola e si mise a sedere affianco a Eros, proprio di fronte ad Alberto. Frugò nella tasca del suo cappotto trapuntato, andò in cerca di qualcosa. «Non si è mai visto un abitante di Portorosso che non sappia giocare a Scopa.» Picchiò sul tavolo un mazzo di carte da gioco. «O preferisci Briscola, ragazzo?» Batté due dita in cima al mazzo. «A te la scelta.»

Alberto riguadagnò colore in viso, sentendosi però ancora smarrito in quella trottola di confusione. «Eh?»

Gli arrivò una manata sulla spalla, ben più energica di quelle di Massimo, «Su, su, ragazzo», tanto da fargli rimbalzare il fiato fuori dai polmoni. «Mettiti d’impegno, ché oggi diventi uomo.»

«Un vero uomo che non ha mai bevuto vino?» commentò uno di quelli che stavano sgranocchiando dal tagliere di formaggi. «Bah!»

Massimo tornò a proteggerlo tramite un mormorio. «Non dargli ascolto.» Ma Alberto ne ebbe abbastanza di nascondersi sotto la sua ombra, di aggrapparsi al suo braccio e di tenersi protetto contro il suo fianco le volte in cui si sentiva minacciato.

Vogliono il Mostro Marino?

Alberto strinse forte le mani attorno al bicchiere di vino che ancora reggeva fra le dita.

E allora avranno il Mostro Marino!

Incollò le labbra all’orlo, gettò la testa all’indietro, e si scolò il vino tutto d’un fiato.

Mentre beveva, sentì un conato di vomito raggomitolarsi in fondo alla gola, pungergli la bocca e accapponargli la pelle. Strizzò gli occhi lacrimanti. Il vino era disgustoso. Sapeva di aceto andato a male mescolato allo sciroppo di mirtilli dentro cui hanno messo in ammollo un pugno di chiodi di garofano. Avrebbe voluto sputarlo ma combatté il conato e in qualche modo riuscì a succhiarlo fino all’ultima goccia senza vomitarlo.

Finito di bere, Alberto sbatté sul tavolo il bicchiere vuoto e strinse un gemito fra i denti. Una goccia colò dall’orlo, gli rotolò fra le dita, fece affiorare un sottilissimo strato di squame che, in contrasto al color prugna del vino, sfumarono di viola, facendo danzare i riflessi luminosi sul vetro ripulito.

Alberto strusciò il dorso della mano sulle labbra per non rendere palese la sua smorfia di disgusto. Strinse le palpebre e sostenne lo sguardo allibito dei pescatori. «Squi-si-to.»

Nessuno fiatò. Rimasero tutti muti come pesci, Eros e Massimo compresi.

Alberto riprese fiato dalle narici, si sfilò il cappotto di dosso – la botta di vino era già salita a ovattargli la testa e ad accaldargli la faccia come una vampata di fuoco –, rilassò le spalle sullo schienale della seggiola, e fece scorrere il pollice lungo il fianco del mazzo di carte, fingendo tono indifferente. «Allora, mi insegnate a giocare a Spazzola, sì o no?» Socchiuse le palpebre. Un tagliente lampo di furbizia gli attraversò gli occhi. «O avete troppa paura di perdere contro il Mostro Marino?»

Qualcuno fischiò. Qualcun altro si scambiò una pacca sul braccio, qualche risatina sparsa. Altri invece si fecero serissimi. Sui loro volti, calarono le stesse espressioni che sfoggiavano quando si armavano di reti e di arpioni per uscire in mare e tornare con le barche cariche di montagne di pesci boccheggianti.

L’uomo che aveva sfidato Alberto fece cenno ad altri due compari, li chiamò a sedersi affianco a lui, si impadronì del mazzo di carte, le distribuì equamente, e guardò Alberto dritto negli occhi. L’espressione cupa ma il sorriso appagato di chi può vantarsi di aver portato a casa il pesce più grosso dell’intero Mar Ligure.

Alberto sorrise di rimando, raccolse il suo mazzo di carte e accettò la sfida.

Finita la serata, persino gli arpioni appesi alla parete avevano smesso di fargli paura.

   
 
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