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Autore: Ikki_the_crow    22/02/2022    0 recensioni
Nel folto dei boschi di Neverwinter, una carovana mercantile trova un uomo svenuto. Non ricorda nulla, non sa nemmeno come si chiama. L'unica cosa che ricorda è un nome. Elisa.
Quanto in là siete disposti a spingervi per la persona che amate?
[Serie collegata alla storia "RS-F-1073-11-11-902" e alla serie "Lathander take the wheel" di NPC_stories e Dira_]
Genere: Drammatico, Fantasy, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Capitolo 4
 
Erano passati più di due mesi da quando il dottor Blackwood aveva gettato il proprio guanto di sfida alla Morte. Due mesi di studio continuo, giorno e notte. Due mesi di sacrifici.
Il lavoro alla clinica era stata un’autentica benedizione. Grazie ad esso, non era necessario per lui cercare soggetti per esperimenti: ogni giorno, almeno tre persone entravano da quelle porte per non uscirne mai più. Giovani e anziani, uomini e donne, di qualsiasi razza concepibile: la compagnia mercenaria del Drago Rosso era variegata, e le missioni che accettava pericolose. Non era raro che qualcuno non tornasse. E molti di quelli che tornavano riportavano ferite terribili.
Nessuno si stupiva quando alcuni di essi non sopravvivevano.
 
Il sedativo aveva terminato il suo effetto mentre lui era ancora intento a prepararsi per l’operazione, e non avrebbe potuto dargliene ancora prima di dodici ore per timore di provocare un arresto cardiaco.
Doveva aver diluito troppo l’estratto; oppure il fegato di quel ragazzo era più rapido del previsto ad eliminare le sostanze nocive. Non l’avrebbe stupito per nulla.
Per fortuna, l’aveva già legato. Ma non imbavagliato.
“Che cosa sta succedendo? Mi liberi subito, dottore!”
Lui aveva sospirato. Aveva segnato un’ultima annotazione sul proprio quaderno e poi si era diretto verso il tavolo da lavoro.
“Temo di non poterlo fare, ragazzo,” aveva detto con aria rammaricata. “A meno che io non voglia dovermene andare da Whitechurch. E non potrei mai lasciare questa casa. Elisa la amava troppo.”
“Io… Io non dirò nulla. Lo giuro!”
“Come hai giurato a Saria che non avresti mai più bevuto?”
Un’espressione irata si era disegnata sul viso del ragazzo.
“Lei cosa ne sa?” aveva chiesto.
“Sono il suo medico curante. Vado a casa sua tre volte alla settimana, per controllare che la caviglia stia guarendo bene. Se dovesse rinsaldarsi storta, potrebbe non camminare mai più. Pensi davvero che non avrei notato i lividi? O non avrei capito l’origine di quelle fratture?”
Il dottor Blackwood aveva fissato il suo ospite con disgusto.
“Quando ho chiesto a Saria come si fosse fatta male, mi ha detto che era scivolata su una lastra di ghiaccio. Ma non aveva escoriazioni o abrasioni compatibili con una caduta. Ragazza ingenua. Ma innamorata. La capisco, anche se non approvo.”
“È stato un incidente!”
“No, non lo è stato. Non è la prima volta che noto ferite del genere durante un controllo periodico. Non trattarmi come un imbecille. Non ti aiuterà.”
“Io… Lei non può fare questo!” piagnucolò il ragazzo. “I miei genitori mi cercheranno!”
“Senz’altro. E non ti troveranno. Penseranno che tu sia fuggito con la carovana di mercanti che è partita stamattina. O credevi che nessuno ti avrebbe visto mentre facevi il filo a quella prostituta?”
Era andato alla carovana di mercanti per comprare alcuni ingredienti e chiedere se avessero libri di medicina, come sua abitudine. Quando aveva notato che il ragazzo aveva un debole per la giovane dai capelli biondi e dal seno formoso, il dottore aveva colto la palla al balzo. Una volta che lui si era allontanato, l’aveva avvicinata e le aveva dato un consiglio. Se quel tipo si fosse fatto troppo insistente, le aveva detto, fagli bere questo. Le aveva passato una piccola ampolla piena di un liquido trasparente. Questo lo metterà fuori gioco, e domattina non ricorderà nulla, aveva spiegato. Lei lo aveva ringraziato con aria seccata. Era chiaro che non ne poteva già più di quelle attenzioni.
A quel punto, Christopher non aveva dovuto far altro che aspettare. Come previsto, quella sera il ragazzo era tornato alla carica; lei gli aveva sorriso, lo aveva invitato nel suo carro e aveva chiuso la porta. Mezz’ora più tardi, l’aveva riaperta e scaricato il corpo esanime tra i cespugli con una risatina. Probabilmente si era anche presa anche il suo borsellino per il disturbo. Non era importante.
Ciò che era importante era che ora il ragazzo era qui.
“In realtà non avresti dovuto svegliarti per ancora un’altra ora. Ma già che sei sveglio,” stava ragionando ad alta voce il dottore, “forse puoi aiutarmi con un piccolo esperimento.”
Si era avvicinato al tavolo degli strumenti e aveva preso alcune lame, una grossa pinza ed una lucida sega da legno.
“Secondo alcuni, è possibile stimolare varie parti del cervello per ottenere sensazioni diverse, richiamare ricordi e perfino creare allucinazioni. Vediamo se riusciamo a creare una mappa più completa delle diverse zone, che ne dici?”
Aveva fatto il giro intorno al tavolo in modo da posizionarsi alle spalle del ragazzo, che nel frattempo aveva iniziato ad urlare e dimenarsi. Inutile: le cinghie di cuoio avrebbero trattenuto un cavallo, e le pareti di quel seminterrato erano state imbottite di lana proprio per evitare rumori molesti.
Il dottore aveva offerto un pezzetto di legno al ragazzo, tenendoglielo vicino alla bocca con una mano ma stando attento che lui non provasse a mordergli le dita.
“Ti consiglio di stringere questo tra i denti,” aveva detto. “Toccare il cervello non causa alcun dolore, ma prima di arrivarci dovrò tagliare il cuoio capelluto e segare l’osso. Non sarà piacevole.”
E non lo era stato. Per nulla.
 
Christopher osservò con aria frustrata il corpo sul tavolo di fronte a lui. Era uno gnomo dalla pelle dorata, di età compresa tra i cinquanta e i settant’anni. Poco più di un ragazzo, per quella razza. Il dottor Blackwood aveva appena terminato l’autopsia, confermando ciò che il dottor Wollstonecraft già sospettava: il giovane mercenario era morto a seguito di un’estesa emorragia interna provocata dal colpo di coda di una viverna che lo aveva spedito contro una roccia. Secondo i testimoni oculari, lo scricchiolio delle ossa si era sentito a tre metri di distanza. L’animale era stato abbattuto, alla fine, ma le perdite erano state ingenti: due soldati morti sul posto, e tre feriti gravemente. Uno dei quali, in quel momento, si trovava di fronte a lui sul tavolo operatorio all’ultimo piano della clinica, nell’attico riadattato ad obitorio. Gli altri due erano stati più fortunati: sarebbero sopravvissuti senza danni permanenti.
Almeno quella volta.
 Una volta terminata l’autopsia e scritto il proprio rapporto, il dottor Blackwood non aveva visto nessun problema a compiere qualche piccolo esperimento sul corpo prima di rivestirlo e riconsegnarlo alla famiglia. Non avrebbero neppure potuto accusarlo di vilipendio di cadavere: la prassi comune per le autopsie prevedeva di estrarre quasi ogni singolo organo dal corpo per esaminarlo, per poi rigettarli alla rinfusa nella cassa toracica prima che quest’ultima fosse ricucita con del filo da sutura. Peggio di così non avrebbe potuto ridurlo.
Ora, parecchie ore più tardi, Christopher passeggiava nervosamente intorno al tavolo rileggendo i propri appunti e cercando di capire quale fosse il problema.
Perché non riesco a rianimarlo?
La teoria era semplice. L’aveva studiata ampiamente nei mesi precedenti, sia su testi di magia arcana presi in prestito dalla biblioteca della Torre dell’Arcano, sia su trattati di magia divina recuperati nei vari templi della città. I primi erano stati illuminanti, circostanziati e ben scritti; per quanto riguardava i secondi, Christopher aveva dovuto ammettere che, una volta eliminata tutta la parte di fanatismo religioso e le lodi a questa o quella divinità, si erano rivelati ben più utili di quanto avesse inizialmente previsto. A quanto sembrava, l’idea di combinare magia arcana e divina avrebbe potuto davvero dare i suoi frutti.
Il condizionale era d’obbligo. Perché fino a quel momento, nulla aveva funzionato.
Che sia perché non mi appoggio a qualche divinità?
Era possibile. Un Chierico che avesse il favore di questo o quel dio non aveva scusanti: sarebbe bastata la volontà del suo signore per renderlo in grado di compiere qualsiasi miracolo. Ma per lui era diverso: la sua magia divina non arrivava da preghiere o rituali, quanto piuttosto da una incrollabile fede nella propria missione.
So per certo che non è la mia volontà, il problema, si disse.
 
Non sapeva da quanto tempo fosse lì sotto. Il tempo tende a perdere il suo significato quando ogni istante è uguale al precedente, e tutti sono pieni di dolore. Un dolore rovente, bianco, paragonabile solo al calore delle fiamme che riempivano il lago sopra cui era sospesa la sua gabbia. Aveva sentito dire uno dei custodi che quelle fiamme erano in grado di bruciare perfino i diavoli più resistenti, e che alcuni di essi si facessero rinchiudere per qualche tempo in quel pozzo con il solo scopo di dimostrare la loro resistenza.
A volte, per una distrazione, alcuni di loro venivano dimenticati lì sotto.
Dopotutto, quello era l’Inferno.
Christopher Blackwood ricordava a malapena come fossero andate le cose dopo la sua dipartita dal mondo dei vivi. Aveva in mente la vaga immagine di un luogo grigio, senza la minima luce, una città senza abitanti circondata da un muro infinito. Sapeva che ci sarebbero dovute essere altre anime intorno a lui, un’infinità, ma non ne aveva percepita nemmeno usa.
Non che gli interessasse. Nelle lunghe notti dopo la morte di Elisa, aveva avuto il tempo di pensare a fondo a cosa sarebbe successo una volta superata la soglia tra i mondi. Aveva immaginato una voce tonante che elencava i peccati da lui commessi, le persone che aveva ucciso. Ma il dottore non si sarebbe fatto intimidire.
“L’ho fatto per mia moglie!” avrebbe gridato. “Gli Dei le hanno voltato le spalle, ma io non lo farò mai!” E poi, sarebbe accaduto ciò che doveva accadere.
C’era stato un lampo, e poi si era sentito cadere. Gli era parso di precipitare per giorni nell’oscurità, finché una voce suadente non gli era risuonata all’orecchio.
“Vuoi evitare l’oblio eterno, Christopher Blackwood? Cerchi potere? Cerchi vendetta?”
Improvvisamente, nel buio era apparsa una sagoma. Sarebbe sembrata una donna di aspetto incantevole, o forse perfino un angelo dalle gigantesche ali piumate, se non fosse stato per il luccichio avido negli occhi. Aveva squadrato l’anima come fosse stata uno spuntino prelibato.
“Cerchi conoscenza?” aveva continuato la figura con voce vellutata. “Posso dartela. Posso darti tutto ciò che desideri.”
“Io cerco solo mia moglie,” aveva risposto lui.
La figura aveva scintillato per un attimo, e i tratti dell’Erinni si erano modificati. Ora ciocche castane le circondavano il viso, e gli occhi si erano fatti di un verde intenso.
Christopher Blackwood aveva battuto le palpebre. O quanto meno lo avrebbe fatto, se avesse avuto ancora delle palpebre da battere.
“Vuoi salvare Elisa? Allora vieni con me.” Aveva teso una mano, con aria invitante.
Lentamente, il dottore aveva allungato le dita.
“Chi sei tu?” aveva chiesto.
“Il mio nome è Damasze-alma. Sarò la tua padrona, la tua musa e la tua guida. E tu sarai il mio servo, Christopher Blackwood. Io ti donerò sapienza, acume e conoscenza.”
Sotto di loro si era aperto uno spettacolo mozzafiato. Un deserto di roccia e lava si stendeva a perdita d’occhio, costellato da torri di pietra sottili come stalagmiti e alte fino al cielo. Nei laghi di fuoco si agitavano ombre che gridavano senza posa, mentre diavoli di ogni forma si arrampicavano sulle rocce come insetti o tormentavano le anime dei supplicanti.
“Io ti donerò nuova vita,” stava dicendo intanto Damasze-alma. “E non come un patetico Lemure. Diverrai un Falxugon, un diavolo mietitore. E come tale tu mi donerai anime per la mia collezione. Sarai il mio servo, Christopher Blackwood?”
Lui aveva guardato dritto negli occhi bellissimi e terribili dell’Erinni.
“Mia moglie?” aveva ripetuto.
“Con la conoscenza che ti darò, potrai salvarla,” aveva mentito lei.
“Se è così, accetto.” Le aveva afferrato la mano.
Damasze-alma aveva riso. “Eccellente, Christopher Blackwood. Allora vieni. Abbiamo molto su cui lavorare.”
Da quel momento erano passati millenni. O forse solo un battito di ciglia. Il tempo era un’illusione, in quel luogo. Solo il dolore era reale.
Quello che Damasze-alma non aveva detto, quando aveva fatto la sua proposta, era che per rinascere sotto forma di Diavolo un’anima doveva prima essere riplasmata. E nel processo, perdeva ogni frammento della sua precedente identità.
L’Erinni aveva promesso che il dottore avrebbe potuto aiutare la moglie perché sapeva che, una volta terminata la trasformazione, il neonato Falxugon non avrebbe neppure ricordato di essere stato un tempo un umano di nome Christopher Blackwood. Men che meno che aveva avuto una moglie. Non importava quanto si fossero amati o le promesse che si erano fatti: il processo di trasformazione avrebbe cancellato tutto quanto.
O almeno, avrebbe dovuto. Una volta rimossi i primi strati dell’anima, i ricordi relativi al proprio aspetto fisico e alle proprie abilità e conoscenze in vita, l’Erinni si era imbattuta in un nucleo ostinato e coriaceo che nessuna tortura o lusinga era stata in grado di spezzare. Convinta che fosse solo questione di tempo, aveva sbattuto quell’anima mutilata in una gabbia di ossidiana sopra uno dei laghi di fuoco infernale.
Non ci vorrà molto, aveva pensato Damasze-alma. Il dolore lo farà cedere.
Ma Christopher Blackwood non aveva ceduto. Aggrappato a quell’unico pensiero come ad un pezzo di legno in mezzo ad un fortunale, era rimasto presente a sé stesso attraverso il dolore, l’umiliazione e le tentazioni. Lentamente, la sua stessa anima si era cristallizzata intorno a quel pensiero, rendendolo il centro stesso della sua esistenza nella morte come lo era stato in vita.
“Elisa…”
E i secoli erano passati.
 
“Non può essere un problema di volontà. E allora cos’è?”
Il dottor Blackwood osservò con astio il corpo immobile sul tavolo. Nonostante i suoi sforzi, non era riuscito a rianimarlo. Neppure a fargli muovere un muscolo. Perché?
Forse il problema non è l’anima, ma il corpo. Il mio corpo, pensò. Non avendo una divinità dalla propria parte, era il suo corpo – o meglio, ciò che passava per il suo corpo dopo che l’Inferno stesso lo aveva risputato, forse avvelenato dal suo amore immortale – a dover incanalare le energie arcane e divine necessarie a portare a termine il processo. Era un’attività spossante, fisicamente e mentalmente. Ma come tutte le attività stancanti, con l’esercizio sarebbe diventata sempre più facile. Il dottor Blackwood non aveva dubbi a riguardo.
Un sommesso picchiettare sul vetro della finestra lo riscosse. Al di là del vetro c’era un corvo che osservava all’interno con aria curiosa.
Christopher sorrise, alzandosi dalla sua sedia per andare ad aprire all’animale.
“Ciao, Wolfgang. Dove sei stato?” lo accolse.
Uno dei rituali arcani più semplici, il primo che era stato in grado di portare a termine, gli aveva consentito di evocare un famiglio, una sorta di spirito guida dalla forma di animale che gli avrebbe fatto da assistente, servitore e compagno. Un frammento di sé in un altro corpo.
Quando aveva dovuto scegliere la forma da donargli, la decisione era stata scontata. L’animale che era comparso al centro del cerchio magico era la copia esatta di uno di quei corvi che Elisa aveva ammaestrato con amore, pazienza e offerte di cibo. Uno dei più intelligenti che lei avesse mai avuto, lo stesso che aveva imparato per primo a portarle fiori in cambio di una dose maggiore di cibo.
Perfino il nome era lo stesso. Non sarebbe potuto essere diversamente.
Wolfgang svolazzò all’interno della stanza e si posò con grazia vicino alla testa dello gnomo defunto e ricucito, ancora immobile sul tavolo. Lo osservò con un occhietto nero, lo becchettò piano e poi emise un verso interrogativo.
“Non ha funzionato. Il mio corpo non è ancora in grado di convogliare abbastanza energia,” sospirò Christopher. Solo allora notò il pezzo di carta sul davanzale. Al posto di un fiore, Wolfgang gli aveva portato quello che sembrava un avviso di taglia, preso probabilmente dalla bacheca della Compagnia del Drago Rosso dall’altra parte della strada.
 Christopher lo afferrò, si aggiustò gli occhiali scheggiati sul naso ed iniziò a leggere.
“Wolfgang, sei un genio,” mormorò quando ebbe finito. “Prepara i bagagli. Si parte.”
Il corvo si lisciò le piume nere con il becco e gracchiò felice, saltellando sul petto del morto.
Luskan gli aveva insegnato tutto quello che poteva dargli al momento. Era stato molto, ma non era stato abbastanza.
Era tempo di rimettersi in viaggio.


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