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Autore: udeis    05/03/2022    0 recensioni
La storia del destino di un regno e di chi ne è stato artefice e compartecipe.
1. Re -Io, che preferii l'azione a un'immobile sconfitta, misi in moto gli ingranaggi del fato di mia spontanea volontà.
2. Figlia dell'inverno - Nessuno sembrava amare l’inverno, così iniziai a detestarlo anche io perchè mi aveva fatto diversa da tutti gli altri.
3. Strega - I suoi occhi neri come la notte come fuoco consumano il mio animo.
4. Fame - Avevo fame e mi sarei nutrita ad ogni costo.
5. Quello che ho perso - in poche e semplici parole avevano negato il mio sacrificio, non gliel'avrei permesso.
6. Appartengo alla terra - appartengo alla terra e alla terra tornai tra pianti e maledizioni.
7. Il principe che venne da lontano - C’era una volta un principe in cerca di una terra da poter chiamare sua
8. Dea - io ricordo solo le donne che mi videro
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
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La figlia dell’inverno

Figlia dell’inverno, così mi chiamavano a corte quando pensavano che non li sentissi. Figlia dell’inverno o dono della carestia.

Lo dicevano perchè ero nata alla fine di una lunga e dolorosa carestia, perchè ero nata per mezzo della strega che si era rifiutata di fermarla, perchè ero nata in cella da una donna condannata a morte, perchè ero nata, portando via la vita di mia madre. Lo sussurravano perchè ero nata nel momento più buio dell’inverno, nell’ora più tormentosa della vita di quel giovane regno, all’apice dell’angoscia del suo re.
La primavera successiva alla mia nascita, dopo che il corpo di mia madre fu bruciato e le sue ceneri sparse al vento, i campi tornarono fertili e le messi abbondanti come non lo erano da anni.

Cosa aveva segnato la fine della carestia? La mia nascita o la morte di mia madre?
Ero, forse, l’ultima maledizione lanciata da una strega morente, una rosa ammaliante, ma velenosa che avrebbe condotto il regno alla rovina? O era la mia stessa esistenza a garantire l’abbondanza?
Il tocco gelido dei loro dubbi non mi abbandonava mai, bruciandomi la pelle in un perpetuo inverno.


Quando tutto diventava insopportabile mi rifugiavo nei giardini.
Pur restando indifferente alla mia angoscia, come lo era a quella di tutte le creature sue figlie, la natura riusciva, tuttavia, a donarmi pace. La musica delle stagioni accompagnava la mia infanzia, consolandomi: la primavera era un crescendo di flauti e campanelli, l’estate aveva una musica forte e calda di ottoni, l’autunno un lento pizzicare di archi, l’inverno, invece, erano percussioni lievi e insistenti.

I sussurri della corte e del popolo, invece, erano come un vento freddo che si insinuava sotto al mantello di lana, strappando via ogni ogni calore. I mormorii si moltiplicavano come un eco nelle grandi sale vuote del castello e mi inseguivano perfino sotto le coperte in cui mi rifugiavo.
“Figlia dell’inverno!” condannavano, perchè miei occhi erano dello stesso colore del ghiaccio, la mia pelle chiara era fredda come la neve, i miei capelli ricordavano rami scuri e spogli e il mio sorriso assomigliavano al ringhio di un lupo affamato. Nessuno sembrava amare l’inverno, così iniziai a detestarlo anche io perchè mi aveva fatto diversa da tutti gli altri.


Mio padre, invece, lo adorava e non perdeva occasione di dirmelo. Durante la brutta stagione i campi erano a riposo, i mercanti non potevano viaggiare e a nessuno veniva voglia di litigare: persino le contese e le guerriglie di confine si acquietavano. D’inverno un re aveva tempo e quel tempo lo dedicava a me.

Quando la corte lo vide aiutarmi a costruire un pupazzo di neve, disse che non era decoroso.
Quando i nobili lo videro scivolare su una slitta da una montagnola, tenendomi stretta a sé, affermarono che così si comportavano solo i contadini.
Quando su mia richiesta adottò il falco ferito che trovammo nel bosco, le dame di corte insinuarono che era un animale da compagnia fin troppo strano per una principessa.
Quando invece che a tessere e a filare, il re insistette perchè i precettori mi insegnassero la storia e la matematica, i sapienti mormorarono che non era saggio.
Quando chiamò delle donne, delle streghe, per aiutarmi a gestire le capacità che avevo iniziato a sviluppare, tutti si domandarono se non fosse vittima di un incantesimo.

Ma la parola di mio padre era legge e, come l’estate, portava sempre frutto. Nessuno  poteva davvero dimenticare con quanto valore e generosità aveva guidato e protetto il regno fino ad adesso.


“È un buon re,” sussurrava la gente, “anche se ha scelto di crescere la figlia dell’inverno”.

 

Quando tornò la carestia, affiancavo mio padre nel governo da tempo e mi rendevo perfettamente conto del prezzo che il regno avrebbe dovuto pagare per sopravvivere a una tale calamità. Il re ne riconobbe i sintomi molto presto e cercò in tutti i modi di scongiurarla, aumentando gli sforzi che lo avevano sempre contraddistinto.
Io non volli essere da meno: mi consumai gli occhi e su tomi polverosi di ingegneria e agricoltura, abbandonai il sonno per studiare i documenti ufficiali, persi la voce a furia di portare ambasciate, percorsi mille e mille volte ancora i miei giardini per riflettere su nuovi rimedi e tessere nuove strategie.

L’incubo che aveva avvelenato la giovinezza del re e del suo regno, minacciava di devastare anche la sua maturità e io non potevo permetterlo. Vent’anni prima non era bastato ridurre i pasti della corte e ridistribuire il cibo, non era bastato vendere gli ori e le sete del castello pur di nutrire una persona in più, non erano bastati i cavalieri a mantenere l’ordine nella città bassa.

Feci in modo che la corte non si accorgesse delle occhiaie sempre più marcate, che segnavano il volto di mio padre, feci in modo che nessuno notasse i pasti saltati e i capelli d’un tratto si erano fatti più bianchi che grigi. Preparai tisane e impacchi alle erbe per alleviare la sua angoscia e permettergli il riposo. Consultai esperti provenienti da altri paesi, convocandoli a corte come se fosse un capriccio. Dettai una nuova moda per le nobildonne e mi ornai di fiori che intrecciai io stessa, per non fare notare la mancanza di gioielli che avevo da lungo tempo venduto.

Il calore estivo che mio padre aveva sempre emanato e che negli anni fragili e freddi della mia infanzia aveva riscaldato l’inverno della mia solitudine scemava, giorno per giorno in un fresco dell’autunno e io non lo potevo sopportare.

Affiancai sempre più il re nell’esercizio della giustizia e mi arrogai la responsabilità finale della sentenza. Mi si spezzò il cuore quando dovetti iniziare a condannare chi, per fame e disperazione, si era dato al brigantaggio, ma sapevo che era un dolore che il re, mio padre, aveva già sopportato e volevo risparmiarglielo.


Era per quello che che era andato a Zalis e sapevo quanto gli era costato.
Vedevo quell’ombra scura infestare ogni suo sguardo fin da quando potevo ricordare: adombrava ogni suo successo e rendeva più cupa ogni sconfitta, lo perseguitava anno dopo anno e non gli dava mai pace. Anche nei suoi sorrisi più dolci, nei suoi gesti più affettuosi, nelle sue gentilezze più tenere vedevo sempre l’ombra del dubbio, il terrore che io o il regno potessimo rifiutarlo per via del suo passato.

Per questo, avevo rinunciato alla stregoneria molto presto.

Quando ebbi la certezza che solo le streghe sentivano la musica delle stagioni, smisi di ascoltarla ed evitai di uscire nella natura così da attutire tra i mattoni del castello anche l’eco di quella melodia.
Non volevo credere che il destino fosse immutabile come mi descrivevano: mi sforzai nel trovare le erbe noiose e i segreti naturali scontati. Dimenticai quel che potei e annegai il resto nella quotidianità: mi concentrai sui miei studi storici e matematici, raffinai il mio galateo, mi interessai alle frivolezze della corte, curai il mio aspetto, mi allenai a sorridere con grazia.
 

In quei giorni cupi, dove ogni cosa sembrava destinata a finire, ripresi in mano di mia volontà i fili di quell’eredità che avevo continuato a negare: aprii le porte alla magia perchè non mi era rimasto altro e fu come rinascere.
Ricominciai a sentire la musica, ricominciai ad amare l’inverno: il caldo e il freddo non potevano più davvero toccarmi, il vento mi portava le voci di cose lontane, nell’acqua intravedevo misteri preclusi anche ai saggi.

Quando l’inverno fu di nuovo al suo apice, il giorno del mio compleanno, feci scorrere in me la musica forte e calda dell’estate e lasciai che avvolgesse l’intero regno così come le braccia di mio padre facevano un tempo con me.

Fermai la carestia per amor suo, salvando il regno per il quale aveva sempre messo in gioco la vita. Come l’agrifoglio splendetti nel più cupo inverno per ricordare al mondo della primavera.

  
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