When the time will come
Looking through his
eyes
Yoongi aveva osservato sempre il mondo con attenzione: il
fatto che non esprimesse apertamente ciò che pensava ad ogni singola ora del
giorno, non portava ad una esclusione volontaria da tutto, anzi. Lui guardava,
traeva le sue conclusioni, ci rimuginava sopra per poi muoversi di conseguenza.
Era un attento osservatore, e per quanto sembrasse fin troppo spesso bisognoso
di stare lontano dalle emozioni altrui, non poteva fare a meno di cogliere
tutto e rendersi conto di essere circondato da una schiera di deficienti, a
detta sua. Jin sembrava non aver ancora ceduto, Jungkook faceva di tutto per
riavvicinarlo con il solo risultato di allontanarlo ancora una volta, senza
contare che Jimin si sentiva tanto tremendamente in colpa da prendersi carico
di ciò che stava succedendo, senza averne alcun diritto. Taehyung? Lui era
stato il migliore, aveva prima parlato con Jin, poi fatto ascoltare la
registrazione al diretto interessato, e aveva pure rischiato di prenderle dal
primo. Yoongi ammise che non gli sarebbe dispiaciuto: se l’amico non avesse
fatto una tale vigliaccata le cose sarebbero potute andare diversamente.
C’era qualcosa però che era cambiato da un paio di giorni. Aveva colto
sfumature differenti nei suoi due soggetti di studio preferiti, definendoli
così senza insultarli: Jungkook arrossiva un po’ troppo spesso, e Jin si
dilungava in sorrisi più sinceri. I suoi sguardi poi parlavano molto più di ciò
che voleva lasciare intendere. Era successo qualcosa, la situazione sembrava
meno tesa finalmente. Che si fossero riappacificati senza dire nulla? Magari
avevano cercato la giusta occasione per parlare dell’accaduto, mettendo a nudo
i loro sentimenti e il taciuto che aveva creato non pochi problemi.
Tra i tre ragazzi coinvolti in quel malsano tentativo di sistemare le cose per
conto terzi, soltanto Yoongi non si sentiva affatto in colpa e anzi, tanto
aveva spinto nella direzione dell’intervento che alla fine Jimin e Taehyung
l’avevano seguito, e secondo il suo parere le conseguenze emotive che stavano
lavorando su di loro non erano necessarie. Sospirò, probabilmente avrebbe
dovuto parlare con entrambi prima di riabituarsi a musi lunghi, mugugni
contrariati e pasti separati. Si issò e andò al piano di sopra, era sicuro
avrebbe trovato lì i due colleghi, in camera a giocare con qualche consolle, o
a divertirsi a prendersi in giro, farsi selfie o stuzzicarsi.
Esattamente come facevano sempre.
Un pizzico di normalità almeno da parte loro, il dormitorio non era più lo
stesso da quando la coppia inconsapevole si era predisposta dei paletti
nonostante una dichiarazione d’amore con tutti i crismi. Percorse per tre
quarti il corridoio in parquet avvertendo il solo scricchiolio dei propri passi
in parte coperto da un insieme di voci lontano e ovattato.
Strano.
Una situazione anomala, in un insieme di stanze solitamente affollate. Le
camere dei due disgraziati incapaci di scendere a patti con loro stessi erano
vuote, ne era sicuro: li aveva visti uscire per raggiungere lo studio e
lavorare a un pezzo particolarmente ostico, una collaborazione che richiedeva
attenzione, allenamento, rigore. Meglio così, si disse, avrebbe potuto parlare
con più tranquillità con gli amici rimasti a casa. Quindi il rumore che
aumentava di intensità a ogni passo proveniva da un’altra parte: raggiunse la
camera di Jimin ed entrò senza neppure il bisogno di bussare, non era chiusa a
chiave – non c’era mai un particolare motivo per separarsi dal resto del gruppo
isolandosi dietro a porte sigillate dalla serratura. Rimase fermo poco dopo
l’uscio, la dinamica della scena che si stava svolgendo davanti ai suoi occhi
lo aveva immobilizzato: Jimin correva a petto nudo, scarabocchiato su tutto
l’addome da un’ampia gamma di tonalità di colore che variavano dal nero
all’azzurro al rosso, con punte di verde e viola brillante, da sotto l’ombelico
fino al petto. A coprire il corpo soltanto un paio di pantaloncini di pigiama
estivo azzurri di una taglia vergognosa per un vitino sottile come il suo.
Taehyung lo rincorreva con dei pennarelli dai tappi buttati chissà dove,
ridendo fino alle lacrime ed inciampandosi sui pantaloni che gli erano finiti
sotto ai piedi, cascando inesorabilmente di fronte a Yoongi e su Jimin, di cui
aveva afferrato con inutile speranza il braccio per evitare il capitombolo. Le
risate si levarono allegre mentre l’impreparato spettatore indietreggiò
richiudendosi la porta alle spalle.
No, non era il momento di affrontare un qualsiasi argomento con loro, non uno.
Yoongi si passò la mano sul volto cercando di trattenere a stento una risata
isterica, coperta a malapena da un colpo di tosse forzato.
Che poi, cosa ci facesse Taehyung in camera di un Jimin mezzo nudo, era un
mistero: ecco, loro due lo erano stati un po’ più un mistero per lui, perché il
primo era costantemente aperto, esposto, si lasciava trascinare
dall’entusiasmo, giocava spesso e con trasporto. L’altro, beh, era più
difficile comprenderlo, tendeva a nascondere un po’ troppe cose, alcune
probabilmente importanti. Tentare di riuscire a capire un uragano come loro quando
stavano assieme era critico, ci aveva già rinunciato più volte senza la massima
convinzione sul risultato ottenuto.
«Hai visto la sua faccia?» Taehyung non smetteva di ridere, le dita ancorate ai
pantaloncini di Jimin che erano scivolati fino alle cosce, mostrando i boxer
grigi. Quest’ultimo non provava vergogna, il senso del pudore era qualcosa di
alieno in quella famiglia chiamata Bangtan. Le risate finirono nel momento in
cui Taehyung sovrastò l’amico, stringendogli i fianchi con le ginocchia e
osservandolo dall’alto, gli occhi ancora lucidi per l’ilarità.
«Jimin, sai che ti voglio bene?»
L’altro sorrise.
«Certo, me lo dici tutte le volte! Lo so, lo so.» Eppure, respirava a fatica,
forse la stretta era eccessiva e l’improvviso peso che avvertiva sul torace non
era solo quello dell’altro, vicino, troppo vicino; era qualcosa di più forte.
Troppo vicino.
«Ehi, alzati adesso, guarda che pesi!»
Taehyung gli afferrò la mano, portandosela al volto. La avvolse con le sue
dita, la differenza evidente delle dimensioni lo faceva sorridere e lo
incuriosiva sempre. Ci scherzava molto, a volte lo prendeva in giro, non lo
faceva con cattiveria, loro in fondo erano così.
Non era però il momento di scherzare quello, affatto.
Jimin avvertiva chiaramente il petto accelerare il proprio movimento, le labbra
piene schiuse a cercare aria con affanno.
Non va bene.
«Per favore, alzati.»
I visi a poca distanza, gli occhi ridotti a due fessure.
Taehyung si abbassò su di lui, i respiri a mischiarsi sulle rispettive labbra.
«Jimin, sai che ti voglio bene…?» Il tono era diverso, la voce un sussurro, aveva
faticato a dire quelle parole per la prima volta, non era come quando giocavano
davanti a tutti, si rincorrevano in giro per le sale prove o per i corridoi del
palazzo. Non era come quando interagivano goliardicamente nei set fotografici,
tra uno scatto e l’altro. No. Era differente, e Jimin era rimasto paralizzato
nell’esserne consapevole; avvertì chiaramente il proprio nome pronunciato a
stento.
Alzati.
Taehyung azzerò le distanze, appropriandosi di quella bocca con un tocco lieve,
quasi avesse paura di rendersi conto si trattasse di una illusione spezzata.
Schiuse le palpebre, non osò fare altrettanto con le labbra. Jimin era in apnea,
gli occhi strizzati in un combattuto senso di rifiuto misto a una tale
aspettativa da rischiare di non volersi più staccare, fermando il tempo in una
istantanea eterna.
Era sbagliato.
Lo sapeva, certo che lo sapeva.
Erano colleghi di lavoro, coinquilini, amici da una decina d’anni.
Condividevano tutto praticamente, dai luoghi di svago alle stanze private,
dalle lezioni alle prove. Non poteva permettersi di mischiare tutto e rischiare
la carriera con delle distrazioni troppo forti.
Taehyung sarebbe stato una distrazione.
Uscirci sarebbe stato una distrazione.
Desiderarlo lo sarebbe stato.
Non si trattava di cedere ai suoi sorrisi davanti alle telecamere, alle moine, alle
espressioni enfatizzate. Non era questione di farsi abbracciare, stritolare,
sollevare e portare in giro come un fidanzato innamorato.
No.
Jimin sospinse via l’altro con un colpo di reni e scalciando, liberandosi dalla
stretta, ancora le labbra umide e un terribile vuoto all’altezza dello stomaco.
Andava tutto bene quando si trattava di divertimento, a lui andava bene così:
le coccole sul divano, gli abbracci, i sorrisi sinceri… fu in quel momento,
fuori dalla propria stanza, bloccato in mezzo al corridoio, che Jimin realizzò
per la prima volta cosa era accaduto: i segnali erano sempre stati chiari, lui
non ci aveva dato semplicemente peso. Le attenzioni che lui gli dedicava erano
palesi.
Era un gioco, pensava.
Certo, ci aveva creduto fino alla fine. Taehyung più di tutti lo faceva star
bene, anni a prodigarsi per lui, e non aveva mai neppure pensato potesse
trattarsi di qualcosa di più di un grandissimo sentimento di amicizia. Ora lo
aveva capito, se n’era reso conto poco prima di farsi baciare sul pavimento di
legno della camera: lo aveva letto dentro a quelle iridi. Non era mai stato
così bene come in quei pochi secondi, ed era buffo perché ora stava malissimo,
avrebbe volentieri cancellato quell’espressione stupida che aveva rivolto
all’altro invece di lasciarsi andare. Un bacio non poteva fare male, un bacio
non cambiava nulla, certo un bacio poteva significare tante cose ma non per
questo avrebbe rovesciato anni di un rapporto meraviglioso costruito
sull’affetto e sulla fiducia reciproca.
Fiducia…
«Jimin?»
Certo, la fiducia, quella che il ragazzo aveva sempre sbandierato con un
sorriso. Da quanto tempo gli nascondeva la cosa?
«Jimin, sei lì fuori, vero?»
Nonostante il richiamo, decise di non rispondere: sperò con tutto se stesso di non trovarselo di fronte, non avrebbe saputo
cosa dire. Era accaduto in fretta, si era lasciato trascinare, aveva reagito
come uno stupido ed era scappato via dall’amico più caro e alla trasparenza di
ciò che quest’ultimo aveva dimostrato in un gesto tanto semplice.
Esplicativo.
Insomma, un migliore amico non bloccava qualcuno a caso su un pavimento
baciandolo.
Jimin si tappò la bocca con le mani a coppa: sussultò e strinse gli occhi, i
battiti rimbombavano nella cassa toracica tanto forte da rischiare di farla
esplodere.
Non rispondere.
«Jimin… per favore… so che sei lì. Senti, se è per quello che è successo… beh,
scusami.»
Non uscire.
«Pensavo, ecco… credevo che anche tu, insomma… pure tu potessi…» Taehyung non
proseguì ulteriormente. Credeva forse le sue parole si sarebbero sollevate
inutili in un corridoio vuoto.
No. Sapeva di trovare Jimin a un paio di metri di distanza. «Pensavo che tu,
che anche tu provassi qualcosa. Non è così? Mi sono sbagliato?» Il ragazzo poggiò
la fronte contro la sottile parete che lo separava dall’altro. «Jimin, ho
sbagliato? Rispondimi…»
Non parlare.
Come faceva a saperlo? Cosa avrebbe potuto dire esattamente rispecchiando la
verità? In pochi istanti tantissimi momenti passati assieme si accavallarono
uno sull’altro nella sua testa.
Il sorriso di Taehyung.
Vorticavano, si intrecciavano.
Le sue mani a cercarlo sempre.
Si sovrapponevano, creando un collage caotico di centinaia di fotografie.
I suoi occhi.
Jimin spalancò le palpebre trattenendo un gemito. Era sempre stata lì davanti a
lui quella certezza: Taehyung lo amava da chissà quanto tempo ormai, e lui come
un idiota non se n’era nemmeno accorto.
«Jimin? Dì qualcosa, qualsiasi cosa.»
Non se n’era accorto, come era possibile? Come poteva essere stato tanto cieco?
«Mi dispiace…» Furono le uniche due parole che uscirono dalle labbra di Jimin:
percorse il corridoio correndo giù per le scale nella speranza di non
incontrare nessuno, scappando da lui, scappando da se stesso.