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Autore: Glenda    11/03/2022    1 recensioni
Questa fan fiction si colloca in corrispondenza con la quinta stagione dell'anime.
Attenzione: spoiler sulla quinta stagione e sui volumi del manga fino al 30.
Hawks sta svolgendo una missione in incognito presso l'unione dei villain, ma nelle sue indagini si è imbattuto in qualcosa di più grande di lui. La sola persona di cui pensa di potersi fidare è Endeavor, ma l'incarico che gli è stato affidato prescrive di non comunicare con nessuno. Dall'altro lato Endeavor, mentre cerca di capire cosa stia succedendo al suo collega, deve anche confrontarsi con la sua nuova posizione di numero uno e con i rimorsi del passato. La FF ha tono prevalentemente introspettivo e si concentra sul rapporto che si sta costruendo tra i due personaggi, alternando i punti di vista. Comparsate anche di Shoto Thodoroki e di Dabi, con qualche siparietto sull'unione dei villain.
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Endeavor, Hawks
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Mi fido solo di Endeavor, è così. Inutile girarci intorno. Dovrei fidarmi della Commissione di pubblica sicurezza, gli devo la mia posizione e molto altro, ma è proprio avendo avuto a che fare con loro per tutta la vita che ho imparato l’arte della diffidenza. D’altra parte è la mia stessa diffidenza che mi rende l’uomo ideale per questa missione, missione da cui uscirò (uscirò?) più diffidente che mai: un cane che si morde la coda, all’infinito.

Loro invece si fidano di me, sanno che farò le cose per bene, un lavoro pulito in cui sarò l’unico a sporcarsi le mani: un lavoro eccellente come tutti quelli che ho portato a termine, tranne un errore non preventivato, che loro mi hanno già perdonato e che io non mi perdono.

Il mio errore è la cicatrice sul viso di Endeavor.

Volevo evitare conseguenze sui civili e solo la sua presenza poteva garantirmelo, ma non mi aspettavo di trovarmi davanti un noumu come quello… e soprattutto sono un fottutissimo egoista, perché mentre a mente lucida pensavo che grazie ad Endeavor non ci sarebbero state vittime, dentro di me sapevo che mi stavo nascondendo dietro la sua schiena: mi stavo proteggendo dai miei stessi sensi di colpa se qualcosa fosse andato storto.

Quando l’ho soccorso, conciato in quel modo, mi sono sentito uno schifo, e invece lui ha fatto una cosa che mi ha spiazzato: ha risposto alla mia battuta sulla posa di All Might. “Il braccio è diverso” ha detto “lui usa il sinistro”… E, beh, è difficile definire come ci si sente in quei momenti in cui vorresti essere soltanto grato e invece ti senti distrutto, svuotato dentro, una cicca di sigaretta schiacciata sul marciapiede, l’ultimo negli stronzi… Avrei voluto dire mille cose (domandargli, persino, se aveva idea di chi fossi, se aveva idea di cosa lui rappresentasse per me) e invece ho detto Scusami. Che era la parola più fuori posto in quel momento ma era – anche – la verità.

 

***

 

Sono stato a trovare Endeavor in ospedale ogni giorno, dopo la battaglia, per tutto il tempo che è rimasto incosciente.

Lui non lo sa né desidero lo sappia (le vulnerabilità personali è meglio tenersele per sé).

Lo sa suo figlio, però.

Non avevo mai incontrato di persona Shoto Todoroki e incontrare una persona in ospedale non è come incontrarla in un bar: in ospedale le persone acquistano una specie di dolcezza arresa, sembrano tutte più avvicinabili, più solidali tra loro.

L’ho incrociato la prima volta poche ore dopo la battaglia: io aspettavo notizie, lui era venuto a chiederne. Solo, composto e serio: un ragazzino di sedici anni con il viso da adulto. Mi ha riconosciuto e salutato prima lui, educatamente, come se si stesse rivolgendo ad una figura di autorità e non ad un tizio di appena sei anni più di lui, sudicio e sanguinante, con le ossa tutte rotte e un paio di ali spennate sulla schiena.

“Sei Shoto, giusto?”

Domanda retorica, per attaccare bottone.

Lui ha annuito, senza aggiungere altro, e si è seduto accanto a me, ma lasciando una sedia vuota in mezzo.

“Studi alla Yuei con Tokoyami. Mi ha raccontato un sacco di cose di voi…”

Al sentire il nome del suo compagno di classe, ha abbozzato un debole sorriso.

“Tokoyami è davvero un ragazzo in gamba… ha fatto tirocinio alla mia agenzia…”

Parlavo tanto per parlare, come faccio spesso. Parlavo per riempire il disagio che provavo nel trovarmi di fronte il figlio dell’uomo che si era ferito gravemente per colpa mia.

Invece lui ha detto: “Grazie di aver combattuto a suo fianco” e poi, senza alterare affatto quella sua espressione distante e un po’ triste “Siete stati fantastici”.

Fantastici un accidente. Endeavor è stato fantastico, io ho al massimo cercato di mettere una pezza sul casino che ho creato.

Butto là la frase più fatta che mi arriva alle labbra.

“Andrà tutto bene.”

No che non va bene.

Non ci pensiamo mai che gli eroi abbiano dei figli, una famiglia. E gli eroi stessi non pensano mai che, quando rischiano, non rischiano da soli: quando si sfida la morte per mestiere, si rischia – sempre - anche il dolore degli altri. Anche le perdite degli altri.

Ricordo di aver formulato questo pensiero con chiarezza mentre guardavo Shoto Todoroki fissare la porta da cui avrebbe dovuto uscire un medico con una buona o cattiva notizia, e ricordo di essermi detto che quello – quello sì – era un ottimo motivo perché la Commissione di sicurezza avesse affidato quell’incarico proprio a me.

Io non coinvolgevo nessuno: io non stavo mettendo a rischio nessun dolore altrui. Nella peggiore delle ipotesi avrei fatto versare due lacrimucce a qualche ragazzina in preda a infatuazioni adolescenziali. Almeno da questo tipo di sensi di colpa ero libero.

“Hawks, tu lavori spesso con Endeavor?”

Lo chiama col suo nome da eroe. Ammirazione o lontananza?

“No. È stata la prima volta che abbiamo combattuto insieme.”

“Lo immaginavo. Endeavor non è il tipo di persona che ama collaborare.”

“Non è vero. Semplicemente non si fida del fatto che gli altri sappiano fare bene il loro lavoro. Ma io intendo dimostrarglielo.”

Era la verità.

E lo farò, se le cose non finiscono in un disastro. Lo farò.

“Posso chiederti… un favore?”

Sempre la stessa espressione vacua, accentuata dalla discromia dei suoi occhi: ma nella sua voce sento passare un’emozione. Reticenza? Imbarazzo?

“Puoi… non dire a… mio padre” (e pronuncia queste parole quasi con fatica) “che mi hai incontrato qui?”

“Pensi che non gli farebbe piacere?”

Non ho avuto risposta, perché è stato allora che il dottore ci ha interrotti.

Ci ha dato notizie tutto sommato incoraggianti, sufficienti a farci dormire tranquilli.

Poi si è rivolto a me dicendo che anche io avrei avuto bisogno di cure, ed io ho potuto rimettermi addosso la maschera dell’eroe sfrontato che risponde che sta benissimo e si è fatto solo due graffi.

Solito teatrino per idioti.

Che mi ha dato sollievo, però.

  
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