Capitolo
1
«Scappa Ginny!»
«No! Non ti lascio
qui!»
«Crucio!»
«No!»
«Ginny vieni via!»
«no! Draco! Draco,
no!»
Delle
braccia robuste presero Ginny per la vita e la
strinsero forte mentre i colori della battaglia si confondevano e Ginny
veniva
catapultata a terra. Notò che non era più sul
marmo di casa, non era a Villa
Fatata. Si erano smaterializzati.
«Draco...
Draco...» singhiozzò la ragazza. Una mano le
si posò sulla spalla, ma lei la respinse con forza.
«Ginny,
Draco...»
«No!»
urlò
la ragazza, con quanto fiato aveva in gola. «Sta’
zitto! Non ti voglio sentire! sparisci, va’ via!
L’hai abbandonato! L’hai...»
e riprese a singhiozzare. Blaise Zabini la strinse a sé.
«Ti
odio, Zabini» borbottò la ragazza, non cercando
comunque di sottrarsi a quell’abbraccio di cui aveva un
estremo bisogno.
«Saprà
cavarsela. Ci sono i tuoi fratelli con lui. Tu
non devi assolutamente scontrarti con qualcuno».
Ora
Ginny se lo scostò di dosso.
«Sta’
zitto Zabini. Tu non capisci niente» sibilò
guardandolo negli occhi. Blaise sorrise.
«Quando
tutto sarà finito mi ringrazierai».
La
ragazza emise uno sbuffo.
«Tutto
questo non finirà mai, Balise, mettitelo bene in
testa. Anche tu, come Draco, verrai cercato e i tuoi genitori ti
infliggeranno la giusta punizione.
Moriremo tutti,
prima o poi».
Blaise
sentì un blocco allo stomaco che gli fece volgere
lo sguardo lontano dal viso infuriato della ragazza. Lui sapeva, sapeva
che non
sarebbe finito molto presto tutto questo. Sapeva che sarebbe morto, che
i suoi
genitori lo consideravano feccia che andava eliminata e presto
così avrebbero
fatto. Sapeva che lui non aveva speranze. Ma loro
sì. Loro avrebbero custodito i loro figli, li
avrebbero
cresciuti come si deve e avrebbero posto la parola fine sulla terribile
guerra
che li aveva travolti. Loro meritavano di vivere.
Per questo aveva portato Ginny lontano da casa.
Ginny
si accorse dell’improvvisa tristezza dell’amico.
«Oh
Merlino. Scusa! Scusa Blaise! Non volevo... io...
intendevo... Oh scusa...» e riprese a singhiozzare.
«Non
ti scusare Ginny. Hai detto quello che pensavi. Hai
solo messo a parole quello che penso da tempo» la
rassicurò Blaise
accarezzandole i capelli con gentilezza.
Quei
capelli che
avrebbe accarezzato tutti i giorni.
Scostò
la mano bruscamente e se la infilò in tasca,
quindi si alzò e sfoderò la bacchetta.
«Dove
mi hai portata?» chiese Ginny alzandosi a sua
volta, non accortasi di quel movimento brusco.
«Dove
i tuoi fratelli mi hanno detto di portati. Quelli
che... beh, verranno qua» distolse lo sguardo dal viso di
nuovo rigato di
lacrime della ragazza e si guardò intorno. Era una pianura.
Ai suoi lati, due
colline. Una di quelle colline era stata la casa di Luna Lovegood. Ora
era solo
terra piena di detriti.
«Siamo»
Ginny deglutì. «Siamo vicino a casa mia»
un
sussurro, niente di più, che la fece piangere ancora.
Ricordava la Tana, quel
giorno di molti anni prima, assediata dai Magiamorte, incendiata con il
corpo
di suo fratello Percy dentro, che aveva dato l’allarme a
tutti sull’arrivo del
nemico.
Cadde
di nuovo a terra e si prese il viso fra le mani.
Blaise, questa volta, preferì restare in piedi e lasciarla
ai suoi ricordi.
Ginny
aveva ormai smesso di singhiozzare da tempo, e ora
solo le lacrime rigavano il volto della ragazza, quando un forte pop la distrasse dal suo dolore.
Erano
a pochi metri da loro. Ginny balzò in piedi con
una rapidità sorprendente ed incominciò a
correre. Anche Blaise, accortosi
dello slancio della ragazza, voltò il capo verso il gruppo
di persone ed
incominciò ad avvicinarsi, il passo spedito ed un sorriso un
po’ tremolante in
volto.
Ginny
si fermò a pochi passi dal gruppo. Guardò i suoi
familiari.
Remus
era davanti. Reggeva a fatica Dora, che aveva un
grosso taglio in fronte, e teneva per mano il piccolo Teddy, che si
reggeva il
braccio con una smorfietta di dolore, ma per il resto erano tutti e tre
salvi.
Affianco
a Dora Ron respirava a fatica. Aveva del sangue
incrostato sui capelli e un occhio gonfio.
Poi
veniva Neville, che teneva per mano Nives. Dietro i
loro s’intravvedevano George e Luna, stanchi ma illesi. Bill
e Fleur erano
accanto a loro. Fleur si teneva il grembo con una smorfia.
Lavanda,
dopo essersi fermata, cadde a terra con un
sospiro e restò lì.
Fred
era dietro di tutti. Reggeva la neonata in una mano
e con l’altra teneva ancora salda la bacchetta, guardandosi
intorno furtivo.
Balise
si affiancò a Ginny, il sorriso che scompariva
piano dal volto.
«Do...
dove sono Hermione e Draco?» chiese. Ginny
trattenne il fiato. Remus abbassò lo sguardo, scuotendo il
capo, così come
fecero quasi tutti. Fred guardò Ginny in viso,
così lei poté accorgersi che
aveva gli occhi lucidi.
Sentì
i singhiozzi salirle in gola. Scosse il capo con
furia e chiuse gli occhi: meno guardava meno male stava.
Blaise
sentì le lacrime pungergli gli angoli degli
occhi. Ma non le lasciò uscire. Si voltò, in modo
che i presenti non lo
vedessero, e abbassò le spalle, sconfortato. Il suo miglior
amico non ce
l’aveva fatta.
«Hanno
dato fuoco alla casa. Ancora»
disse Remus, la voce roca. Ginny scosse di nuovo il capo.
Non voleva sentire nient’altro. «Non siamo sicuri
che li abbiano uccisi».
«E
cosa credi che ne abbiano fatto? Li hanno portati con
loro per offrirgli un banchetto e trattarli come vecchi
amici?» esclamò Blaise,
ancora girato di spalle. Remus scrollò le spalle.
«Potrebbero
averli imprigionati per costringerli a dir
loro dove siamo» fu la sua semplice risposta, quindi si
voltò verso Teddy, lo
prese in braccio e portò Dora a sedersi accanto ad un albero
solitario. Ron si
avvicinò timidamente a Lavanda e si accovacciò,
prendendole il viso tra le mani
per sollevarlo. Questa scostò in malo modo le mani e si
inginocchiò con una
smorfia di dolore. Ron vide così il sangue che le impregnava
la veste da notte.
Cercò
di parlare, ma la ragazza fu più veloce.
«Ce
l’avevi ad un passo. Era ancora lì, distesa.
Potevi
prenderla. Perché non l’hai fatto?»
aveva sussurrato così piano che nessuno,
apparte Ron, poté sentirla. Questi si sentì
sprofondare in un baratro oscuro,
ma non rispose.
«Non
l’hai dimenticata, vero? Volevi farle un torto?
Volevi fare un torto a tuo fratello? Sei uno stupido, Ronald
Weasley» e detto
ciò si mise in piedi, pur a fatica, da sola e si
avvicinò con passo traballante
all’albero dov’era appoggiata Dora e dove si
stavano riunendo tutti. Luna le
andò accanto e la sorresse con il corpo minuto.
Bill
fece sedere con molta lentezza la moglie e le
scostò i capelli dal viso, sorridendole con quanta
convinzione poteva. Questa
ricambiò con dolore il sorriso e si strinse la mano di Bill
sul viso con
tristezza.
Blaise
si voltò e trovò ancora Ginny davanti a lui, le
mani in volto e il petto che si alzava e abbassava a ritmo irregolare.
Le toccò
un braccio con gentilezza e le scostò i capelli dal viso.
Ginny abbassò le mani
e lo guardò negli occhi. Leggeva in quelle pozze azzurre lo
stesso dolore che
provava lei. Così, senza pensarci, gli buttò le
braccia al collo e lo strinse
in un abbraccio, che il ragazzo restituì un po’
titubante.
Ron
rimase a terra. Delle gocce caddero sul suolo erboso
e presto diventarono molto frequenti. Il gruppo alzò lo
sguardo verso il cielo
come un unico elemento e i nuvoloni grigi che si presentarono agli
occhi dei
presenti li fecero rattristare ancor di più. Anche il cielo
sapeva di aver
perso due delle poche persone che ancora si opponevano a Lord Voldemort.
*
Hermione
venne spinta in malo modo dentro una cella e
dietro di lei la serratura venne fatta scattare. Qualcuno rise e
Hermione si
sentì mancare.
«Non
avrete mai nulla da me!» urlò quasi senza
rendersene conto. Ancora una risata, poi il nulla.
La
ragazza di mise seduta e cercò di scrutare il buio
attorno a lei. Ma non vedeva più in là della sua
mano.
Non
ricordava precisamente com’era finita in quel luogo,
di qualunque luogo si trattasse. Ricordava Villa Fatata, quella
sì, ricordava
Fred che l’avvisava dell’arrivo dei Mangiamorte,
lei che prendeva Rose e
scendeva di sotto per andar via. Ricordava di essere entrata in cucina,
poi
tutto si era fatto confuso. Qualcuno le aveva lanciato una maledizione
e lei
l’aveva schivata solo per un soffio. Poi però
qualcosa doveva averla colpita,
perché si ricordava di esser caduta a terra ed essersi
svegliata solo quando
l’avevano spinta nella cella. Constatò con un
rapido esame di aver preso una
botta in testa e una storta alla caviglia, perché le doleva
al minimo
movimento. Si toccò i capelli in cerca di tracce di sangue,
ma con suo enorme
sollievo non aveva ferite sul capo, solo un livido che al minimo tocco
protestava vivacemente.
Cercò
di prendere un respiro profondo, ma quello che
venne fuori fu l’ennesimo sospiro frammentato dai singhiozzi
che premevano di
uscire.
Pensò
ai suoi genitori, che non vedeva ormai più da
anni, alla sua nuova famiglia, che
aveva appena perso. Pensò a Fred, che sicuramente in quel
momento non sapeva
che pesci prendere, pensò alla sua piccola Rose. E pianse.
Le lacrime le
sgorgarono dagli occhi prima che potesse anche solo pensare di
fermarle, e così
le lasciò fare. Lasciò che quelle gocce calde le
attraversassero il viso con
gentilezza e cadessero sul suolo sudicio della cella. Si
sfogò, piangendo tutte
le lacrime che possedeva, singhiozzando fino a sentir male al petto,
sussurrando ogni tanto i nomi dei suoi amati.
Dovevano
essere passate ore, ormai (non che ne fosse
sicura, non si capiva molto in quella cella lontana dal mondo), quando
finalmente le lacrime incominciarono ad esaurirsi e i singhiozzi
divennero
semplici respiri irregolari. E fu in quel momento, mentre la
razionalità si
faceva largo a spintoni decisi tra la disperazione che
l’attanagliava, che la
porta della cella fu aperta.
Un
cigolio di ferro disperato accolse l’entrata in scena
di qualcuno che non riusciva a vedere. L’improvvisa luce che
illuminò la cella
le fece dischiudere gli occhi, infastidita.
«Alzati.
Forza, ora. C’è qualcuno che vuole
vederti»
disse una voce strascicata che fu impossibile da riconoscere. Forse
poteva
sbagliarsi, ma le sembro, mentre mani rudi le afferravano un braccio e
la
strattonavano in malo modo in piedi, che quella voce avesse un che di
disgustoso. Come di... fogna.
Una
fitta allucinante alla caviglia la fece urlare di
dolore, ma l’uomo che le teneva ancora saldo il braccio non
accennò a fermarsi.
Si chiuse la porta della cella alle spalle e prese a camminare con una
certa
fretta, facendo così venir fuori il lato rude di Hermione,
che incominciò a
insultarlo con tutti gli epiteti disgustosi che aveva imparato nel
corso della
sua breve vita. L’uomo, comunque, che ora alla luce Hermione
poteva vedere un
pelo meglio, non accennò ad averla sentita e tirò
dritto, svoltando per tanti
di quei passaggi che Hermione presto perse il poco orientamento che
aveva
cercato di mantenere.
Come
aveva immaginato solo a sentir la voce, l’uomo a
lei davanti aveva un aspetto piuttosto ripugnante. Aveva lunghi capelli
neri
tendenti al grigio sporco, impiastricciati da macchie poco rassicuranti
di
rosso bordò e a volte anche verde. Gli occhi giallognoli
erano iniettati di
sangue e il viso, che un tempo doveva essere stato almeno chiaro e
pulito, era
cosparso da polvere nera che gli dava un aspetto alquanto
pipistrellesco. Era
un po’ gobbo, più basso di lei, e con almeno una
ventina di chili in più di
quanti se ne poteva permettere. Indossava abiti logori e sporchi come
il suo
viso, ed Hermione notò le dita con le unghie nere e gialle
delle mani che la
fecero rabbrividire: abituata almeno a quel poco di pulizia che era il
decente,
vedere quell’essere ripugnante che le stringeva un braccio
con le mani sudice e
incrostate dello sporco più ripugnante del mondo non era
proprio rassicurante.
Rimasero
in silenzio a lungo, Hermione intenta a non
pensare a ciò che la stava toccando, l’uomo
concentrato sulla strada da
prendere per far perdere l’orientamento alla ragazza (o
almeno così lei
pensava, perché non riusciva a spiegare in altro modo le
continue deviazioni e
le immersioni in cunicoli bui come una notte senza stelle, luna e
città
luminose nei paraggi).
Aveva
ormai calcolato che altri due metri e sarebbe
crollata a terra svenuta per il male alla caviglia, quando
l’uomo si fermò
davanti ad una porta completamente indistinguibile dalle mura scure e
incrostate di sporco.
‘Certo
che si trattano bene in questo luogo’ pensò la
ragazza contemplando l’unto che poteva vedere dappertutto.
Ormai sospettava
che, stando in quel posto, si stesse contaminando anche lei di tutta
quella
sporcizia.
«Ti
conviene badare a quello che dici, ragazza, o non
uscirai viva da questa stanza» borbottò
l’uomo con un ghigno sadico, prima di
infilarla oltre alla porta a forza, facendole urlare
l’ennesimo insulto. Cadde
in ginocchia con pateticità e non si alzò per un
periodo di tempo che le parve
infinito. Tutti i muscoli della gamba destra pulsavano così
forte che sembrava
andasse a fuoco l’arto. Il viso volto verso terra,
aspettò la sua fine che
sarebbe arrivata molto presto (sperava). Poi, dopo attimi interminabili
di
silenzio, constatò più saggiamente che molto
probabilmente prima l’avrebbero
torturata per estorcerle informazioni preziose sui superstiti con cui
viaggiava, quindi forse l’avrebbero lasciata a marcire
lentamente nella sua
cella, divorata dai topi e sommersa da scarafaggi intenti ad
avventurarsi nella
sua bocca e su per il suo naso. Un rivolo gelato le
attraversò la spina dorsale
per tutta la sua lunghezza, quindi decise che forse alzare lo sguardo
non le
avrebbe procurato molto dolore in più di quello che
già le torturava gli arti e
si espandeva in tutto il corpo come formiche lavoratrici nel loro
giorno di
festa intente a procurarsi più cibo possibile.
Alzo
molto lentamente (molto probabilmente il bradipo
più pigro del mondo sarebbe stato cento volte più
veloce di lei) il capo e
guardò fisso un punto davanti a sé. Non vedeva
molto così, in realtà. Davanti a
lei c’era una scrivania di legno scuro da cui spuntavano un
paio di gambe
snelle fasciate da un abito scuro.
Il
silenzio regnava sovrano nella stanza che (Hermione
lo constatò quasi con un sospiro) era molto più
pulita dei posti che aveva “visitato”
negli ultimi venti minuti. Rimase alcuni attimi a contemplare quel poco
che
riusciva a vedere della persona che le stava di fronte, intimorita da
quello
che sarebbe successo di lì a poco.
‘Potrà
sembrare stupido, adesso, ma non ci tengo a
marcire con degli scarafaggi in bocca’
pensò, rabbrividendo solo all’idea.
‘Certo,
però, resto ancora un altro po’ qui in silenzio
e finisco con l’addormentarmi...’
«Non
vi dirò niente» fu la prima cosa che le venne in
mente di dire mentre cercava (invano) di alzarsi in piedi. Una fitta
prepotente
alla caviglia la fece gemere contrariata. Odiava farsi male.
Qualcuno
rise. Era una risata che le accendeva un
campanello di allarme nella mente. Non che fosse maligna, tipo quella
di
Bellatrix Lestrange, anzi, era un po’ derisoria, forse, ma
sincera e
stranamente gentile. Era più il fatto che le sembrava in
qualche modo
familiare, come qualcosa che non si sente da tempo e fa fatica a tornar
in mente
appena lo si risente. Come se quella risata l’avesse
accompagnata per la sua
vita con dolcezza, fosse stata presente nei suoi momenti migliori e
peggiori. Come
se Hermione conoscesse quella persona che rideva.
‘Maledetta
caviglia’ si ritrovò a pensare la ragazza. Aveva
una tremenda voglia di guardare la persona che le stava davanti negli
occhi,
non fissare le sue gambe.
«Dovrete
uccidermi» mormorò ancora la ragazza, con
più
sicurezza di quanta ne avesse in corpo.
«Prendi
tempo» le diceva sempre Fred quando i loro
discorsi viravano verso una sua presunta cattura. «Cerca di
farli parlare. Più
parlano più si distraggono. Devi sembrare decisa, sicura di
quello che fai,
anche se dentro sei disperata e non trovi via di fuga. Questo li
farà pensare
in una tua arma segreta, un modo per sfuggirgli. E più
parli, più loro si
dimenticano quello che stavano facendo. Devi distrarli a parole.
Combattere non
serve in questi casi, non quando sei probabilmente senza bacchetta e
sfinita
dopo uno scontro».
«Non
mi prenderanno mai» ribatteva con fermezza
Hermione, sorridendo al ragazzo. «Non finché ci
sei tu con me. Nessuno ci deve
separare».
In
quel momento quelle due semplici frasi le sembravano
le più stupide e infantili del mondo. Era stata catturata,
era stata
allontanata da Fred, da Rose, da tutti. Era tutto perduto. Sarebbe
morta.
«Non
ti preoccupare, questo non succederà»
ribatté la
persona, con una fermezza ed una calma invidiabile. Ed Hermione si
sentì
mancare. Non perché, oltre alla calma, c’era una
gentilezza agghiacciante in
quella voce. Non perché l’uomo si era alzato e si
era parato davanti a lei con
la bacchetta in mano. Non perché lei era disarmata, piena di
ferite e prossima
a morte certa. Ma perché quella voce era, presumibilmente,
l’ultima che si era
aspettata di sentire tra quelle che aveva immaginato mentre cercava una
via di
fuga. Perché la persona che aveva davanti era
l’ultima che avrebbe voluto
vedere in quel luogo. Perché quei capelli scuri, spettinati,
gli occhi verde
smeraldo, gli occhiali cerchiati di corno, il corpo minuto ma
muscoloso, il
sorriso beato stampato in volto, erano cose che non vedeva da anni e
che mai
avrebbe pensato di rivedere.
«Non
è possibile» mormorò, mentre
l’uomo si chinava su
di lei e il sorriso si allargava di più. Hermione
pensò che forse, in fin dei
conti, ora poteva davvero dire di aver visto di tutto prima di morire.
Spazio
ringraziamenti:
Ringrazio
le gentili persone che hanno aggiunto
questa storia tra le preferite:
Quelle
-quella, a
dir la verità- che l’ha aggiunta tra le seguite:
1
- emmetti
Le
persone che
leggono senza dar segni di vita ritracciabili e, infine, le dolcissime
persone
che si fermano anche per una recensione:
love
luna: eccomi
qua con il seguito ^_^ Sai, anche a me sono sempre piaciuti Fred e
Hermione
insieme, così anche come George e Luna! Spero questo
capitolo ti piaccia come
il precedente.. bacini ^_^
emmetti:
assie
assie per i complimenti... eccoti il seguito ^_^ allora..
com’è? Spero ti
piaccia come l’inizio... beh, aspetto la tua recensione C=
Bacini...
Bene...
al
prossimo capitolo. Spero (come sempre) che possa piacervi questo cap e
che mi
recensirete, anche solo per una critica su qualcosa che non va ^_^
Bacini
a tutti
quanti _ki_