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Autore: _Agrifoglio_    16/03/2022    12 recensioni
Una missione segreta, un’imboscata vicino al confine austriaco e il corso degli eventi cambia. Il senso di prostrazione dovuto al fallimento, il dubbio atroce di avere sbagliato tutto, un allontanamento che sembra, ormai, inesorabile, ma è proprio quando si tocca il fondo che nasce, prepotente, il desiderio di risorgere. Un incontro giusto, un’enorme forza di volontà e, quando tutto sembrava perduto, ci si rimette in gioco, con nuove prospettive.
Un’iniziativa poco ponderata della Regina sarà all’origine di sviluppi inaspettati da cui si dipanerà la trama di questa storia ricca di colpi di scena, che vi stupirà in più di un’occasione e vi parlerà di amore, di amicizia, di rapporti genitori-figli, di passaggio alla maturità, di lotta fra concretezza e velleitarismo, fra ragione e sogno e della difficoltà di demarcarne i confini, di avventura, di duelli, di guerra, di epos, di spirito di sacrificio, di fedeltà, di lealtà, di generosità e di senso dell’onore.
Sullo sfondo, una Francia ferita, fra sussulti e speranze.
Davanti a tutti, un’eroica, grande protagonista: la leonessa di Francia.
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes, Quasi tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Battaglia-di-Wagram-4

Il Papa prigioniero e l’Imperatore turbato
 
Versailles, febbraio 1809
 
Il cielo di febbraio incombeva perlaceo, striato da grosse nuvole plumbee e una foschia di densità non uniforme si alzava dai fili d’erba ghiacciati e dagli specchi d’acqua ingrigiti. Saliva verso l’alto, confondeva i contorni e i volumi delle cose, si depositava sulla pelle e sugli abiti e arruffava i capelli.
Stretta nella redingote scura, con il bicorno di feltro incalcato sui capelli e le redini ben strette nei guanti bianchi di capretto, Oscar seguiva, indietro di pochi passi, il Re che, malgrado il tempo incerto, si era ostinato ad andare a caccia, passione ereditata dal defunto padre.
Era infreddolita, di quel gelo e quell’umido che penetrano nelle ossa, ma non dava a vederlo, perché mai in vita sua si era lamentata e perché era preoccupata non per se stessa, ma per la salute del Re che, dopo la prigionia in Corsica, non aveva mai completamente recuperato la costituzione florida dell’infanzia. Una apparentemente banale infreddatura poteva rivelarsi fatale, se arrivava a congestionare i polmoni e persone ben più robuste di Luigi XVII se ne erano andate nel giro di pochi giorni dall’insorgere dei sintomi. I genitori di André, per esempio…
Era stata tentata più di una volta di pregare il Sovrano di tornare alla reggia e aveva sempre desistito. Non voleva privarlo anche di quel piacere e, poi, non spettava a lei dire al suo Re cosa fare, dandogli consigli non richiesti.
Giunti in prossimità di un lago, il banco di nebbia si infittì e separò il Re e il Comandante dai pochi cortigiani che cavalcavano insieme a loro, ma a diversi piedi di distanza.
Preso coraggio dalla caligine che nascondeva completamente gli altri e che rendeva incerti gli stessi lineamenti del Re che pure le era così vicino, Oscar deglutì e iniziò a parlare:
– Maestà, non è necessario che sposiate Maria Luisa d’Asburgo Lorena, se non ne siete convinto. Le trattative per l’alleanza procederanno ugualmente. L’Austria è incalzata da Napoleone e l’iniziativa di allearsi è partita dall’Imperatore Francesco I e non da Voi.
– Comandante de Jarjayes, ormai ho comunicato la mia proposta di matrimonio alla corte austriaca ed essa è stata accolta con entusiasmo. Il Principe von Metternich si sta adoperando per fissare la dote dell’Arciduchessa e per definire gli altri termini dell’affare.
– Fintanto che il matrimonio non sarà stato celebrato, nulla ci sarà di irreversibile…
– Oltre a rafforzare l’alleanza con l’Austria, Comandante de Jarjayes, devo dare una discendenza alla mia dinastia e le Principesse cattoliche scarseggiano.
– Maestà, perdonate l’ardire, ma non privateVi del conforto e del sostegno che soltanto un matrimonio fondato sulla stima e sull’amore reciproci può dare! Io ho contratto un simile matrimonio, con l’aiuto di Re Luigi XVI e della Regina Maria Antonietta e in ogni giorno della mia vita ho tratto forza, allegria, tenerezza e appagamento da questa unione… Voi tanto avete sofferto e, sulle Vostre spalle, incombe il fardello di tutti noi… Non gravateVi di un altro carico, ma cercate una donna con cui dividere i pesi che già portate!
– Non esiste una simile donna, per me, Madame Oscar e nessun deus ex machina scenderà dall’alto per gratificarmi della sua benevolenza… Devo rafforzare l’alleanza con l’Austria e dare continuità alla dinastia dei Borbone di Francia. Sembra un controsenso e un’assurdità, ma, alla fine, la rosa delle possibili spose è molto meno ampia per un Re che per uno qualsiasi dei sudditi di lui, nobili o plebei che siano.
– Allora, attendete, Maestà! Non vincolateVi adesso che siete giovane!
Avrebbe voluto urlargli che lui era come il padre e non come i due Luigi che avevano preceduto quest’ultimo, che non sarebbe stato da lui trovare conforto o divertimento in una favorita e che quel matrimonio sarebbe stato una tomba, ma non osò. Abbassò le palpebre e tacque, ben consapevole di essersi spinta troppo oltre per tutti i canoni, i propri e quelli dell’etichetta.
– Cosa dovrei attendere? – rispose il Re, sforzandosi di sopraffare il magone che gli stringeva la gola – La morte coglie di sorpresa tutti, giovani e anziani e, anche rinviando l’inevitabile, sempre un’estranea dovrei sposare…
Lasciò trascorrere qualche istante in silenzio e, poi, proseguì:
– Non angustiateVi per me, Madame Oscar. Dicono che l’Arciduchessa Maria Luisa ha un carattere eccellente. Ella è timida, morigerata, bene educata e affettuosa. Ama teneramente il padre ed è benvoluta da tutta la famiglia. Cosa potrei desiderare di più? Sarà una Regina e una sposa esemplare.
Subito dopo, voltò il cavallo e aggiunse:
– Ho scelto proprio un tempo da lupi per questa battuta di caccia! Cerchiamo di non facilitare troppo il compito alla morte… Comandante de Jarjayes, riferite al resto dei cacciatori il mio desiderio di tornare indietro, Ve ne prego.
– Sarà fatto, Maestà e perdonate la mia insolenza!
Ciò detto, Oscar girò a sua volta il cavallo e si diresse verso un gruppo di alberi scheletriti, sfumati dalla nebbia, in prossimità dei quali aveva scorto le sagome scure di alcuni destrieri.
 
********
 
Parigi, Café Le Procope, aprile 1809
 
– Manca poco alla Vostra laurea, Antoine – disse Bernadette, avvolta in un morbido vestito di seta color smeraldo, ornato con ricami floreali e trattenuto, sopra la vita, da un nastro di velluto di poco più scuro, che Antigone le aveva prestato per l’occasione – Cosa farete, dopo?
– Sicuramente, collaborerò con mio padre, ma non mi dispiacerebbe tentare la carriera accademica. Voi, invece, cosa farete, Bernadette? Anche la Vostra laurea è vicina – rispose il giovane Lavoisier, rapito nel contemplare gli occhi verdi di lei, così magnificamente richiamati dal colore dell’abito e da quello delle roselline di organza, intrecciate fra i neri capelli ricciuti.
– Non saprei con precisione – disse la ragazza – Continuare l’attività di lettrice del Re non mi dispiacerebbe. Poi, si vedrà – concluse, pensando, ma non dicendo, che le occasioni di carriera erano tremendamente scarse per una ragazza, soprattutto se di estrazione piccolo borghese.
– Il Café Le Procope è decisamente all’altezza della sua fama! – esclamò lui, cercando un argomento di conversazione per non naufragare nella visione di lei – Capisco proprio perché La Fontaine, Voltaire, Diderot, Benjamin Franklin e il nostro nemico per eccellenza, Napoleone Bonaparte, amassero frequentarlo! Potremmo tornarci un’altra volta con i due giovani de Jarjayes et de Lille e anche con i fratelli de Girodel che mi sembrano molto simpatici!
– E potremmo estendere l’invito ai Vostri genitori e a mia madre! – aggiunse Bernadette, cogliendo l’occasione per suggerire un incontro informale e, all’apparenza, casuale che favorisse la rottura del ghiaccio fra le due famiglie e desse al ragazzo il coraggio di farsi avanti e di chiarire finalmente i suoi sentimenti.
– Non credo che si tratterebbe di una buona idea – si affrettò a dire lui, con il volto fattosi triste – Le età sono troppo diverse e la comitiva non si amalgamerebbe mai.
– Non se si aggiungessero anche il Conte di Lille e Madame Oscar e, magari, pure i genitori di lei. In questo caso, i nostri genitori avrebbero degli interlocutori della loro età.
– Continuo a ritenerla un’idea poco felice – rispose lui, dispiaciuto e a disagio – Che argomenti in comune potrebbero avere? L’incontro rischierebbe di rivelarsi un insuccesso…
– Antoine, siate onesto, Vi vergognate di me e della mia provenienza? – azzardò Bernadette che aveva compreso perfettamente l’ostilità di Madame de Lavoisier, ma che era ansiosa di saggiare la forza e la profondità dei sentimenti del giovane.
– Ma cosa dite, non siate assurda! – protestò lui con sincerità, perché mai si era vergognato di lei – Ho amicizie di tutte le estrazioni e la Vostra non è affatto bassa… Ma bevete la Vostra cioccolata, se no si raffredderà e sarebbe un peccato, visto che è deliziosa…
 
********
 
Parigi, Palazzo Lavoisier, aprile 1809
 
La porta dello studio del giovane Antoine Laurent de Lavoisier si aprì e nella stanza entrò la madre, con il volto attraversato da un cipiglio inquieto.
– Posso parlarti, Antoine o ti disturbo?
– Che dite, Signora Madre? Certo che potete parlarmi! Voi non disturbate mai! – rispose il ragazzo mentre, imbarazzato, si alzava per accogliere la genitrice.
La signora si sedette su una poltrona e il figlio girò la sedia per non darle le spalle.
– Una mia amica mi ha riferito di averti visto al Café Le Procope, la settimana scorsa, in compagnia di una signorina – disse la donna, senza preamboli, con voce ferma e severa – Si tratta della stessa giovinetta che frequenta questa casa per studiare insieme a te o di un’altra ragazza?
– Si tratta proprio di Mademoiselle Bernadette Châtelet, Madre – confermò il giovane, deglutendo – e non capisco perché non Vi riferiate a lei chiamandola con nome e cognome.
– Come temevo! – esclamò, stizzita, la madre, sbattendo una mano sul bracciolo – Non capisco, poi, perché studiate insieme, visto che frequentate due facoltà diverse! Perdi soltanto tempo, Antoine. Ti distrai e il tuo rendimento potrebbe calare.
– Il mio rendimento è rimasto invariato, Signora Madre – la tranquillizzò il figlio – e, anzi, è pure migliorato. Studiare da soli non giova all’umore.
– Io non ti chiedo di studiare da solo, ma soltanto di farlo con compagnie… più adeguate!
– Bernadette non Vi piace e mai Vi piacerà, Madre. Potremmo discutere di quest’argomento per anni, senza mai trovare un accordo.
– Per anni?! – inorridì Madame de Lavoisier – Spero proprio di no! Fino a che punto ti sei spinto con quella giovane, Antoine? Ti sei dichiarato?
– No, Signora Madre, siamo soltanto buoni amici – rispose lui, un po’ infastidito per l’ingerenza, ma sempre rispettoso.
– Signore, Vi ringrazio! – sospirò la donna.
– Bernadette è una brava ragazza, assai devota e di sani principi!
– E’ figlia di una governante, Antoine! E non è tutto! Ho preso delle informazioni e ho scoperto che la madre della governante, una donna che rispondeva al nome di Nicole Lamorlière, non si è mai sposata! La madre della tua amica, oltre a essere una domestica, è una figlia illegittima, nata da una serva – questo è sempre stata Madame Lamorlière! – e da chi sa quale padre!
Antoine Laurent arrossì e chinò il capo, perché quella situazione imbarazzava pure lui.
– Non possiamo imputare a Bernadette gli errori dei genitori della madre – disse, poi, in un sussurro – Avrei preferito anch’io che ella provenisse da una famiglia più rispettabile, ma non scegliamo noi a chi volere bene.
– E quel padre giornalista giacobino? – infierì la signora.
– Egli è morto da tempo, Signora Madre. Le idee politiche di lui non possono più infastidirci!
– Tuo padre fu accusato dell’omicidio di Bernard Châtelet e rinchiuso nel carcere della Grande Force, in attesa di essere giudicato e, quasi sicuramente, condannato. Voreresti imporgli come nuora la figlia di quell’uomo? Vorresti che lui, vedendola, si rammentasse delle sue traversie? Vorresti sottoporlo a un tale strazio?
– La colpa fu dell’invidia di Marat e non del padre di Bernadette che, morendo, ebbe la sorte peggiore di tutti. Se mai, dovrebbe essere Bernadette a provare dolore, nel vedere mio padre.
– E, allora, solleva tutti dall’ambasce e trovati un’altra fanciulla! Perché non corteggi, per esempio, le amiche della giovane Châtelet? La Contessina de Jarjayes et de Lille o la Contessina de Girodel!
– Semplicemente, perché non le amo, Madre! Oltretutto, applicando il Vostro ragionamento, se le corteggiassi, dovrebbero ritrarsi sdegnate, perché io appartengo alla recente nobiltà di toga e non, come loro, all’antica nobiltà di spada!
Madame de Lavoisier ebbe un moto di dispetto, perché non era abituata a non sentirsi all’apice.
– Dimentichi che, in gioventù, fui corteggiata da un Conte che voleva assolutamente sposarmi!
– Ma Voi non lo volevate, perché era di quarant’anni più vecchio e lo consideravate un orco sciocco, grossolano e insensibile, tanto che mio nonno Vi combinò, in tutta fretta, un matrimonio con mio padre, suo collega nella Ferme Générale. Lo so.
– Anziché fare lo spiritoso, rifletti su ciò che ti ho detto! – sbottò la madre, alzandosi di scatto dalla poltrona – La tua unione con quella giovane non sarebbe mai benedetta da me né da tuo padre e incontrerebbe la nostra ferma opposizione!
Pronunciate queste parole, uscì velocemente dalla stanza, quasi sbattendo la porta dietro di sé.
Il giovane Antoine Laurent, che si era alzato in piedi subito dopo la madre, ricadde sulla sedia afflitto ed esasperato, consapevole del fatto che sposare Bernadette sarebbe stata una scelta che avrebbe devastato la vita che aveva finora condotto e che avrebbe scavato un solco incolmabile fra lui e gli amati genitori.
 
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Portogallo, Oporto, 12 maggio 1809
 
Il sedici gennaio 1809, il Generale John Moore cadde eroicamente nella battaglia de La Coruña, colpito da una palla di cannone. Sopportate stoicamente le lunghe ore di agonia, si spense, lasciando l’esercito inglese un’altra volta senza Comandante. Le giubbe rosse furono imbarcate e ricondotte in patria e il Portogallo cadde di nuovo sotto il controllo del Maresciallo Soult.
Lo Stato Maggiore britannico decise, quindi, di rimandare in Portogallo Sir Arthur Wellesley che vide, così, dileguarsi le sue paure di una lunga inattività ed ebbe nuovamente l’occasione di mettere alla prova il suo valore e di frapporre centinaia di miglia fra sé e il suo male assortito matrimonio.
L’undici maggio, le forze di Wellesley si scontrarono con quelle di Soult nei pressi di Grijó e il Maresciallo napoleonico, trovandosi in schiacciante inferiorità numerica, si ritirò a nord del fiume Douro.
Sir Arthur, questa volta Comandante in capo delle forze britanniche in Portogallo, si lanciò all’inseguimento del nemico che, però, fece saltare in aria l’unico ponte e requisì tutte le imbarcazioni.
Fra i due eserciti, il fiume Douro scorreva silente e Sir Arthur Wellesley guardava con frustrazione le truppe nemiche al sicuro sull’altra sponda.
– Somerset, inviate immediatamente degli ufficiali in ricognizione. Che perlustrino ogni ansa del fiume in cerca di ponti, guadi o di qualche dannata imbarcazione.
– Sì, Signore – rispose l’Aiutante di Campo del Luogotenente Generale – Trasmetto subito l’ordine.
Alcune ore dopo, il Colonnello John Waters, con l’aiuto di alcuni abitanti del luogo che detestavano le truppe napoleoniche, trovò tre chiatte destinate al trasporto del vino.
In un lasso di tempo relativamente breve, un numero consistente di giubbe rosse fu traghettato sull’altra sponda del Douro e prese possesso di un convento in muratura che sorgeva in prossimità della riva. Quando gli uomini di Soult se ne accorsero, un intero battaglione britannico aveva già attraversato il fiume.
Le truppe napoleoniche attaccarono gli inglesi, ma questi, protetti dalle mura del convento, risposero al fuoco e inflissero gravi perdite nei ranghi avversari. Come se non bastasse, dall’altra sponda del fiume, Sir Arthur diresse un fitto cannoneggiamento contro i nemici che, in fila, marciavano verso il convento, così che i soldati di Bonaparte furono sottoposti a un duplice attacco.
Soult chiamò, allora, dei rinforzi da Oporto, ma gli abitanti della città, stanchi di soprusi e vessazioni, aiutati da quattro battaglioni britannici, scacciarono gli invasori e Soult fu costretto a fuggire verso le montagne del nord, perdendo, nella marcia, migliaia di uomini, l’artiglieria e i bagagli, formati, in larga parte, dal frutto dei saccheggi.
– Questa vittoria a Oporto è stata clamorosa, Somerset! – disse Sir Arthur al suo Aiutante di Campo – Finalmente, lo Stato Maggiore mi autorizzerà a portare la guerra in Spagna!
 
Battaglia-di-Oporto

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Non-possiamo-Non-dobbiamo-Non-vogliamo

 
Roma, Palazzo del Quirinale, 6 luglio 1809
 
Erano trascorse circa due ore dalla mezzanotte e, dal posto di osservazione del Generale Miollis, fu dato il segnale che tutti aspettavano per iniziare le operazioni.
Il Papa si era rifiutato di appoggiare il blocco continentale contro l’Inghilterra e si era opposto alle ingerenze imperiali nelle questioni religiose. Per tutta risposta, il 2 febbraio 1808, il Generale Sextius Alexandre François de Miollis aveva occupato Roma e, successivamente, Napoleone si era impadronito delle province di Ancona, Macerata, Pesaro e Urbino oltre che delle Romagne. Con decreto firmato a Vienna, il 17 maggio 1809, aveva annesso al suo impero i restanti domini del Papa e, cioè, il Lazio e l’Umbria, perché formassero i dipartimenti del Tevere e del Trasimeno. A giugno, il decreto era stato reso pubblico e letto nelle strade della città eterna e la bandiera napoleonica era stata innalzata su Castel Sant’Angelo. Il Papa, di rimando, pur senza nominare esplicitamente l’Imperatore, aveva scomunicato gli usurpatori e, la notte stessa, la bolla “Quam memorandum” era stata affissa sulle porte delle basiliche di San Pietro, di San Giovanni in Laterano e di Santa Maria Maggiore. Il mattino seguente, i soldati di Napoleone l’avevano strappata dalle ante e fatta a pezzi. La situazione era diventata incandescente e si temeva una sommossa. L’Imperatore aveva scritto una lettera al cognato Murat, definendo il Pontefice un pazzo furioso che andava internato e, effettivamente, alcuni giorni dopo, aveva deciso di trarlo in arresto, tanto che, nella sera del cinque luglio, il palazzo del Quirinale era stato circondato e la cavalleria transitava nelle strade limitrofe. La direzione delle operazioni era stata affidata al Generale Radet che disponeva di centocinquanta soldati, divisi in tre squadre e di sessanta romani.
Allo scoccare del segnale, alcune scale di legno furono issate sulle mura dei giardini del Quirinale, in tre diversi punti. Poiché le prime erano troppo corte, ne furono fatte arrivare delle altre, appositamente usate dai “festaroli” per addobbare le chiese in occasione delle solennità. Il Generale Radet, invece, riuscì a entrare con maggiore facilità da una finestra bassa di fronte alla chiesa di Sant’Andrea al Quirinale, immettendosi nei giardini e, da lì, raggiungendo la base dello scalone.
I guardiani e i domestici del palazzo, sopraffatti dal numero, non opposero resistenza. Soltanto un servitore suonò la campana, ma fu subito arrestato.
La devastazione, intanto, era iniziata. Molte porte furono fatte a pezzi con l’ascia e i soldati napoleonici si riversarono nei corridoi e nelle sale. In un’anticamera, si imbatterono in un drappello di Guardie Svizzere, comandate da Karl Leodegar Pfyffer von Altishofen, che deposero le armi.
Giunsero, infine, nello studio del Papa che trovarono ad attenderli in compagnia di alcuni Cardinali, fra cui il pro Segretario di Stato Bartolomeo Pacca.
Il Sommo Pontefice era vestito con l’abito bianco, la mozzetta di seta rossa e la stola dorata. Aveva un’aria serena e uno sguardo mite e privo di paura che contrappose all’arroganza marziale degli invasori.
Con emozione e imbarazzo, il Generale Radet si rivolse a Pio VII e gli disse:
– Su ordine dell’Imperatore Napoleone, al quale ho prestato giuramento d’obbedienza, Vi chiedo Santo Padre, di rinunziare alla sovranità temporale della città di Roma e dello Stato Romano. 
Il Papa si eresse, con calma dignitosa, nella sua esile figura e, con voce ferma e pacata, rispose:
– Non possiamo. Non dobbiamo. Non vogliamo.
– Allora, non mi lasciate scelta, Santo Padre – ribatté, quasi arrossendo, il Generale Radet.
– Io sono soltanto l’amministratore del dominio temporale che non appartiene a me, ma alla Chiesa di Roma. Non è in mio potere rinunciarvi – proseguì il Papa – Mi ricordate il giuramento di obbedienza da Voi prestato al Vostro Imperatore. Considerate, allora, in quale modo e con quale fedeltà il Vicario di Cristo è impegnato a sostenere i diritti della Santa Sede.
– Se questa è la Vostra decisione – aggiunse, affannosamente, Radet – sarete condotto dal Generale Miollis che Vi indicherà il luogo della Vostra destinazione.
– Non mi aspettavo un simile trattamento da parte dell’Imperatore – disse Pio VII, con un velo di tristezza nella voce.
– L’Imperatore, invero, ha molti motivi di riconoscenza nei confronti della Santità Vostra – abbozzò, con visibile costernazione, il Generale Radet.
– Vorrei avere due ore di tempo per prepararmi.
– Purtroppo, dovete partire immediatamente, Santità.
– Devo lasciare il Quirinale da solo?
– Potete essere accompagnato dal pro Segretario di Stato, Santità.
Il Papa indossò il cappello e il mantello rosso, prese con sé un crocifisso e il breviario e, così come si trovava, accompagnato dal Cardinale Bartolomeo Pacca, uscì dal palazzo, passando per le stanze le cui porte erano state abbattute. Era anziano e, forse, non avrebbe più rivisto quei luoghi, ma non poteva vacillare né tirarsi indietro, ora che la prova suprema era arrivata. Era il successore di Pietro e, come il suo predecessore, avrebbe affrontato il martirio, se fosse stato necessario, fiducioso che Dio non gli avrebbe fatto mancare consolazione e sostegno.
I due prigionieri entrarono in una piccola carrozza chiusa che fu subito circondata dai gendarmi a cavallo, all’esterno della quale presero posto il Generale Radet e un Maresciallo d’alloggio. In tutto, il Papa e il Cardinale avevano con sé soltanto una lira e settantacinque centesimi.
Mentre la vettura partiva, un Sacerdote si fece il segno della croce e, dentro di sé, sospirò: “Quo vadis, Domine?”.
Diversamente da ciò che era stato detto al Pontefice, la carrozza non si diresse dove alloggiava il Generale Miollis, ma velocemente fuori Roma, attraverso Porta del Popolo, in direzione della Toscana.
 
Pio-VII-prigioniero

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Versailles, tenuta de Jarjayes, agosto 1809
 
Era un’infuocata domenica di agosto e, subito dopo la funzione mattutina, per fare una cavalcata e trovare un po’ di refrigerio, Oscar e André si erano recati al laghetto che giaceva immobile e sonnacchioso nella tenuta, testimone di tante loro giovanili scorribande e scazzottate.
– Sono le dieci del mattino e c’è già un caldo insopportabile! – sbuffò André, immergendo un fazzoletto nelle acque del lago e inumidendosi, con esso, la fronte e le gote.
– Bonaparte ha proprio passato il segno, André! Il Papa non meritava un simile trattamento. E’ un uomo mite e buono, dotato di una forza di carattere e di una serenità che pochi possono vantare. Napoleone dovrà pagare per tutto ciò!
– Possiamo evitare di parlare di lui almeno di domenica?! – protestò André, rispolverando la sua insofferenza verso colui che, ormai, monopolizzava l’attenzione, l’interesse, i pensieri e i discorsi della moglie.
– Il Pontefice è stato condotto nella Certosa di Firenze e, da lì, in un caldo soffocante e senza alcun riguardo, a Grenoble – continuò Oscar, senza neppure ascoltare le rimostranze del marito – Non sentendosi tranquillo a lasciarlo nella Francia del sud, Bonaparte l’ha fatto trasferire nuovamente. La carrozza ha attraversato Valenza, Avignone, Aix, Nizza e Mondovì e, pochi giorni or sono, fra disagi e angherie, il Papa è giunto a Savona, dove pare che sarà detenuto sine die. La cosa sorprendente è che, a ogni tappa, la folla ha accolto la carrozza con urla di acclamazione, trasformando la prigionia in un trionfo!
– E’ anziano e di costituzione poco robusta, speriamo che non soffra troppo! – commentò André.
– Pio VII diventerà presto il monumento vivente della ὕβϱις di Napoleone. Quell’uomo va fermato e messo in condizione di non nuocere più alla pace dei popoli! Le imprese militari di lui sono mirabili, ma non perfette. Ognuna di esse presenta delle falle. Se schierassimo l’esercito…
– Oscar, potresti risparmiarmi il panegirico di Bonaparte di domenica mattina?!
– Ma se ho appena detto che non è perfetto! Quale panegirico?! Non essere petulante, André, che già fa caldo!
– Ah, sì? Senti caldo, Oscar? – domandò l’uomo, sollevando la moglie ed addentrandosi, con lei in braccio, nelle acque del lago, incurante di invettive e proteste – Eccoti servita.
Ciò detto, lasciò la presa, facendola cadere in acqua, in un tonfo sordo, seguito da guizzanti spruzzi e dalle vivaci imprecazioni di lei.
 
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Battaglia-di-Wagram

Battaglia-di-Wagram-3

Battaglia-di-Wagram-2

 
Austria, Vienna, Castello di Schönbrunn, ottobre 1809
 
Sedeva pensieroso davanti alla maestosa scrivania che campeggiava nella stanza sita nell’ala est del castello che aveva sottratto alla protervia degli Asburgo. Lui, oscuro germoglio di una famiglia corsa che aveva conosciuto alterne fortune, scolaro geniale e solitario, deriso da compagni di corso molto più ricchi e infinitamente più sciocchi, giovane ufficiale che aveva stentato a mettere insieme il pranzo con la cena, aveva occupato Vienna e aveva stabilito il proprio quartier generale nella residenza estiva di una delle famiglie più potenti d’Europa.
Dopo le ondivaghe sorti della guerra in Spagna, era tornato a vincere e lo aveva fatto ai danni dell’Austria che, dall’epoca della battaglia di Austerlitz, era alla disperata ricerca di una rivincita.
Lui, però, aveva sbaragliato le truppe dell’Arciduca Carlo a Eckmül, aveva preso Ratisbona e, il dodici maggio, aveva occupato Vienna che, abbandonata dall’esercito dell’Arciduca e difesa soltanto dalla milizia cittadina, gli si era arresa senza combattere, preservando, in questo modo, secoli di storia e di bellezza. L’Imperatore Francesco I se ne era fuggito, alcuni giorni prima, con la coda tra le gambe, portandosi dietro la famiglia e la corte e lui, l’insignificante provinciale venuto dal nulla, aveva preso possesso della capitale dell’impero asburgico.
Non si era fermato il sacro fuoco e, alla fine di maggio, aveva conquistato i villaggi di Aspern e di Essling. A Essling, aveva trovato la morte il più caro amico e fedele collaboratore, il temerario Maresciallo Lannes, colpito da una palla di cannone che gli aveva trinciato di netto una gamba. Per ironia della sorte, quell’uomo prode e incosciente, che non aveva mai temuto niente e nessuno e che si era sempre gettato a capofitto in ogni battaglia neanche fosse stato un eroe omerico, era stato raggiunto dal fato mentre si riposava seduto su un masso. La ferita era degenerata in cancrena e la morte lo aveva raggiunto, fra atroci sofferenze, nell’arco di una settimana. In quell’occasione, lui, l’Imperatore, il conquistatore d’Europa, lo stratega di Austerlitz, aveva pianto.
Poi, erano arrivati il cinque e il sei di luglio e, con essi, la vittoria di Wagram. Nelle stesse ore in cui, a Roma, Papa Pio VII era stato arrestato e deportato, lui, in Austria, aveva avuto ragione, in casa, di un acerrimo e superbo nemico.
L’Arciduca Carlo aveva fatto saltare in aria i ponti che collegavano Vienna all’altra riva del Danubio, dove si era ritirato. Lui, allora, si era accampato nell’isola di Lobau, al centro del fiume e, da lì, in pochi giorni, aveva fatto allestire alcuni pontoni di legno che avevano consentito alle truppe di passare dall’altra parte. L’Arciduca Carlo si era aspettato una simile mossa e aveva progettato di stringere il nemico in una morsa, con il Danubio dietro che lo imbottigliasse. Quello che non si era aspettato era che così tanti uomini sarebbero riusciti ad attraversare il fiume, rendendo vana la manovra di accerchiamento.
Per due giorni, la battaglia era infuriata, fra alterne vicende e migliaia di morti da entrambe le parti. Il Maresciallo Bernadotte, con la sua arroganza e presunzione, aveva combinato uno dei tanti, enormi guai della sua carriera, essendo immediatamente rimosso e costringendo lui a rivedere i piani.
L’Arciduca Carlo si aspettava di ricevere rinforzi dal fratello, l’Arciduca Giovanni e, invece, erano arrivate le truppe del Principe Eugène de Beauharnais, il figlio di Josèphine e la vittoria aveva arriso a lui, l’oscuro virgulto della provincia.
Quasi contemporaneamente, era venuto a sapere che il progetto matrimoniale con la Granduchessa Anna Pavlovna Romanova era definitivamente tramontato, a causa della strenua opposizione dell’aristocrazia russa e ne aveva provato un enorme sollievo. Joséphine de Beauharnais gli piaceva ancora tanto e, malgrado i reciproci, innumerevoli tradimenti e i sette anni di differenza d’età, era la donna che più aveva amato in vita sua, l’altra metà dell’anima di lui. Molte cose lo accomunavano a lei: la provenienza dalla piccola nobiltà isolana, essere stati due provinciali, costretti a destreggiarsi e a emergere in un mondo ostile, avere subito derisione e umiliazioni a causa delle iniziali goffaggine, rozzezza e diversità, un feroce desiderio di modificare il proprio destino ed essere unici nei rispettivi ambiti. Si capivano a vicenda e si completavano.
Poi, era avvenuto l’imponderabile e il destino, nei panni di un diciassettenne fanatico e a suo modo eroico, non aveva tardato a mostrargli il lato oscuro della gloria.
Il dodici ottobre, stava sfilando nella corte del castello di Schönbrunn, quando un ragazzo, rispondente al nome di Friedrich Staps, gli si era avvicinato con la scusa di dovergli consegnare una petizione a nome del popolo tedesco. L’atteggiamento risoluto di Staps aveva insospettito Berthier e Rapp e il giovane era stato arrestato, perquisito e trovato in possesso di un grosso coltello da cucina. Rifiutandosi di spiegare le proprie motivazioni a nessun altro che alla sua vittima mancata, il ragazzo era stato condotto nello studio di lui e, lì, nello stupore generale, aveva stoicamente e saldamente ribadito le proprie posizioni di aspirante tirannicida, disposto a dare la vita per la salvezza e la libertà della Germania. Aveva reiteratamente e coraggiosamente rifiutato ogni proposta di grazia, offertagli, in cambio di una pubblica ritrattazione, in ragione della giovane età e dell’ammirazione che tanto ardore e coraggio avevano suscitato nel padrone dell’Europa. Aveva detto di non voler macchiare il suo gesto con la viltà e che, se fosse stato lasciato libero, ci avrebbe riprovato ancora, ancora e ancora.
Friedrich Staps era stato, quindi, sommariamente processato e fucilato all’alba del diciassette ottobre, lasciando il signore d’Europa nell’ansia e nello sconcerto. Non era certo la prima volta che qualcuno attentava alla vita di lui, ma era sicuramente la prima occasione in cui una persona gli si era avvicinata così tanto da poterlo colpire. Realizzò, con terrore, di non essere invincibile, ma vulnerabile come tutti, che la morte avrebbe potuto raggiungerlo in qualsiasi momento anche al di fuori dei campi di battaglia e che, se ciò fosse avvenuto, se ne sarebbe andato senza eredi e tutto ciò per cui aveva lottato sarebbe miseramente crollato, polverizzato nell’istante stesso in cui avesse cessato di respirare.
Si affrettò a firmare il trattato di Schönbrunn che sanciva la sconfitta e i termini della resa dell’Austria e partì, subito dopo, alla volta di Milano.
Il pugnale di Friedrich Staps aveva mancato Napoleone, ma aveva colpito al cuore Joséphine de Beauharnais.
 

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Versailles, giardini di Palazzo Jarjayes, autunno 1809 
 
– Con il rapimento del Papa, Bonaparte ha toccato il fondo. Tutta l’Europa ne parla e lo giudica il despota che è. Voleva compiere un atto di forza e mostrare al mondo cosa succede a chi gli si oppone, fosse anche il Papa in persona, ma questa alzata di ingegno gli si ritorcerà contro.
Il Generale de Jarjayes era incollerito e disgustato e stringeva i pugni, quasi a volerli usare contro Napoleone.
– Se fosse stata viva mia nonna – disse André, con voce fattasi dolce e scherzosa al tempo stesso – sarebbe stata scandalizzatissima.
– Non dirlo a me, André! Mia moglie recita in continuazione novene e tredicine per la liberazione del Papa e, quando ne termina una, ne inizia subito un’altra! L’unica cosa positiva è che il tiranno non è riuscito a sposare la Granduchessa Anna Pavlovna Romanova. Finalmente, lo Zar ha capito di che pasta è fatto l’alleato e sta iniziando a prendere le distanze da lui. Meglio tardi che mai!
– Non sarei così ottimista, Padre – si inserì Oscar – Sono sicura che riuscirà a sposare un’altra Principessa di sangue reale e a stringere nuove alleanze. Quando il Generale Bonaparte assume una determinazione, non retrocede facilmente.
– Oscar, come procede la ricerca del tesoro dei giacobini? – domandò il Generale.
– André e io stiamo concentrando gli sforzi sugli eredi di Danton, così come suggeritoci da Mademoiselle Charlotte de Robespierre, ma sembra essersene persa ogni traccia. Nessun Danton è reperibile a Parigi e in tutta la Francia.
– Comincio a credere che questo tesoro sia una leggenda – disse, con voce cupa, il Generale.
– E’ impossibile, Padre – rispose Oscar – Lo stesso Pontefice, per mezzo del Cardinale Brancadoro, mi incaricò di trovarlo e, negli Archivi Vaticani, esistono prove inoppugnabili dell’esistenza di questo tesoro, ma, purtroppo, nessun indizio sull’ubicazione di esso.
– Signore, Oscar – sussurrò André – Temo che siamo seguiti. Ho questo sospetto da qualche minuto. Ho sentito dei rumori provenire da quella siepe.
Malgrado l’età, il Generale raggiunse la siepe con uno scatto velocissimo e vi trovò dietro Robert Gabriel de Ligne.
– Robert, che diavolo ci fai qui, stavi forse origliando? – tuonò l’anziano ufficiale che ben poca stima nutriva per il nipote.
– Assolutamente no, Signor Nonno – rispose il giovane Tenente dei Dragoni, con l’aria brillante e ambigua che, da sempre, lo contraddistingueva – Stavo soltanto cercando una spilla che ho perduto.
– Cerchi le spille, adesso? Torna a questa tua occupazione virile e lasciaci in pace!
Il Generale de Jarjayes raggiunse la figlia e il genero con aria disgustata, non sapendo se preferire che quel damerino imbelle del nipote stesse davvero cercando una spilla o li stesse spiando.
– Secondo te, ha sentito? – chiese Oscar al marito.
– Non lo so, ma questa cosa non mi piace – rispose lui.
Robert Gabriel de Ligne si allontanò con una strana luce negli occhi.
 
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Battaglia-di-Talavera

 
Portogallo, Lisbona, autunno 1809
 
Oppresso dal caldo e dalla stanchezza, Sir Arthur Wellesley sedeva nella terrazza della villa, sita nella campagna di Lisbona, che aveva preso in locazione da un nobile portoghese.
Malgrado le vittorie riportate, la situazione non era delle più semplici e la penisola iberica si era rivelata un territorio difficile da controllare, a causa delle grandi distanze, delle catene montuose che rendevano disagevoli gli spostamenti e del caldo torrido che, sebbene non fosse paragonabile a quello indiano, spossava le truppe e assimilava ogni marcia per quelle terre brulle a un autentico supplizio.
La collaborazione con gli alleati spagnoli si era dimostrata tutt’altro che semplice e proficua e ciò aveva portato a rallentamenti e incomprensioni che avevano, a volte, inciso sull’esito delle missioni. La Spagna non aveva un unico esercito, ma più armate regionali indipendenti e fra loro scoordinate e, come se ciò non bastasse, fra Sir Arthur e il Generale Gregorio Garcia de la Cuesta, Comandante delle truppe iberiche alleate, era subito nata una forte antipatia. Divisi da trent’anni di differenza di età e da due mondi di provenienza diversi, i due uomini si contendevano il comando e si detestavano, trovandosi reciprocamente arroganti, insolenti, prepotenti e incapaci.
Cuesta non era rapido negli spostamenti e stentava a mantenere gli impegni presi. In particolar modo, non forniva a Sir Arthur i rifornimenti promessi, con la conseguenza che ai vari problemi delle truppe britanniche si aggiunse la fame. Sir Arthur aveva proibito tassativamente ogni forma di saccheggio, per senso dell’onore e perché voleva che l’esercito inglese si distinguesse da quello napoleonico, così che le popolazioni europee scegliessero da che parte stare. Allo stesso tempo, però, doveva pur rifocillare i suoi uomini e la scarsità di oro nei forzieri britannici, unita alla scorrettezza di Cuesta, gli creava non pochi problemi.
Ricongiuntisi il ventuno luglio nei pressi di Oropesa, i due alleati decisero di attaccare insieme le truppe del Maresciallo Victor alle prime luci dell’alba del ventitré, nei pressi di Talavera de la Reina. All’ora concordata, però, de la Cuesta non si presentò, accampando successivamente una serie di scuse, con la conseguenza che il nemico ebbe tutto il tempo di ricevere rinforzi.
La battaglia di Talavera fu, quindi, combattuta fra il ventisette e il ventotto luglio, contro un avversario raddoppiato nel numero e senza godere dell’effetto sorpresa.
I soldati britannici erano accaldati, stanchi, affamati e, alla fine dei due giorni, neanche si reggevano più in piedi. Il Maresciallo Victor fu sconfitto e, tuttavia, la vittoria tattica si rivelò una sconfitta strategica, perché i britannici subirono perdite inferiori dal punto di vista numerico, ma superiori in proporzione all’ampiezza dell’esercito.
Nei mesi successivi, con truppe esauste e ridotte di un quarto, Sir Arthur Wellesley dovette fare incessantemente la spola tra Spagna e Portogallo, per rintuzzare gli attacchi del Maresciallo Soult. La collaborazione col Generale de la Cuesta si fece di giorno in giorno più fallimentare e i rifornimenti, come al solito, non arrivavano, finché il nobile spagnolo non fu rovinosamente sconfitto nella battaglia di Ocaña.
Sir Arthur decise, quindi, di ritirare le truppe in Portogallo, al fine di riorganizzarle e di difendere almeno quello Stato.
La vittoria di Talavera, nonostante le ingenti perdite, aveva avuto una vasta eco in patria e ciò consentiva a Wellesley di mantenere il suo credito e, con esso, il comando dell’esercito e, tuttavia, egli era molto avvilito, perché da quella campagna si era aspettato di più.
– C’è una lettera per Voi, Signore – disse Somerset, porgendo a Sir Arthur un plico.
L’uomo prese la missiva dalle mani del suo Aiutante di Campo e la aprì stancamente, temendo che essa contenesse le solite lamentele della moglie Kitty. Non passò molto tempo che Lord Somerset vide l’espressione del superiore mutare dalla tristezza alla gioia.
– Il Re ha deciso di ricompensarmi per la vittoria di Talavera de la Reina, Somerset! Da settembre di quest’anno, sono il Visconte Wellington di Talavera e di Wellington!
– Complimenti, Signore! – commentò entusiasticamente il giovane Somerset – Complimenti, Lord Wellington!
 
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Milano, Palazzo Serbelloni, dicembre 1809
 
Stretta al braccio di Napoleone, Joséphine de Beauharnais passeggiava nel giardino di Palazzo Serbelloni, col cuore triste e agitato. Dal ritorno del suo amante da Vienna, ella percepiva che qualcosa era accaduto e che dell’altro ancora stava per succedere, ma non sapeva bene cosa e aveva timore di affrontare l’argomento, ponendo una domanda diretta.
Dal canto suo, Napoleone non trovava il coraggio e l’occasione di dirle la verità e, cioè, che di lì a poco l’avrebbe lasciata, per sposare una Principessa che presto sarebbe stata scelta. Malgrado tutto, l’amava ancora, la considerava anche una sorta di portafortuna e non gli reggeva il cuore al pensiero di infliggerle un tale dolore.
Entrambi stavano, quindi, sulle spine e parlavano del più e del meno, per riempire i silenzi e smorzare l’imbarazzo, consapevoli che non erano quelli i veri argomenti di cui avrebbero voluto e dovuto discutere.
– Bonaparte, amore mio, non condivido i tuoi progetti sulla sorte del Duca d’Enghien. Vuoi farlo rapire dal palazzo dove abita, processare sommariamente e fucilare. Egli, però, è una brava persona anche se ti osteggia ed è parente del Duca d’Orléans che, fino a poco tempo fa, era tuo alleato. Questa azione non farà altro che attirarti addosso il biasimo di tutta l’Europa, rinfocolando le ire che ti sono piovute addosso dopo il rapimento del Papa. Anche la prigionia del Pontefice, a parer mio, è sbagliata. Infliggere tante sofferenze al Vicario di Cristo, a un uomo anziano e dalla costituzione gracile, fa di lui un martire e di te un carnefice. Aggiungo anche che tutto ciò allunga un’ombra sinistra sulla tua persona e che questo atto ti porterà sfortuna!
– Che parole grosse, mia cara e quanto cruccio ti dai! Il Duca d’Orléans, come dici bene tu, era un mio alleato, ma adesso non lo è più. Il Duca d’Enghien può essere pure una brava persona, ma quante brave persone muoiono in guerra e anche in tempo di pace, tutti i giorni? Pio VII ha fatto una scelta, decidendo di schierarsi contro di me e io non posso lasciare libero un mio nemico. Quanto al biasimo dell’Europa, io me ne frego e dovresti farlo anche tu. La fortuna e la sfortuna ce la creiamo noi, con le nostre azioni e non devi farti suggestionare dagli stati d’animo e dalle paure.
– Sarà come dici tu, amore mio, ma nessuno e sottolineo nessuno ha approvato la tua decisione di ridurre in prigionia il Pontefice e nessuno ti applaudirà per l’omicidio del Duca d’Enghien.
– Punti di vista, mia cara, ma ora torna nelle tue stanze, che comincia a fare freddo.
Le posò un bacio sulla fronte, a disagio per l’agitazione che le stava provocando e sentendosi colpevole per ciò che presto sarebbe stato costretto a farle.
– Mi baci, così, sulla fronte, come se fossi una bambina? – disse lei, con un lieve tono di rimprovero.
Lui le rivolse un sorriso forzato, girò le spalle e se ne andò.
Arrivato nel suo studio, vi trovò Paolina Borghese, seduta sulla sedia davanti alla scrivania, che lo aspettava. La donna era, come sempre, sfarzosamente abbigliata ed esibiva una toletta costosa, stravagante e ricca di ornamenti. “Nostra Signora degli Orpelli” l’aveva sempre definita.
Nel vedere la sorella, Napoleone presagì lamentele e piagnistei e, non sentendosi in vena di affrontarli, la precedette:
– Se sei venuta a lagnarti del tuo soggiorno a Roma o a Torino, Paolina, risparmia il fiato e non angustiare te stessa e me. Il posto di una moglie è accanto al marito.
– Non sono venuta a lagnarmi del mio soggiorno o di mio marito, col quale vivo in perfetta armonia – mentì lei – ma a parlarti del tuo matrimonio, Napoleone. Nostra madre è molto addolorata per il fatto che non ti sposerai più.
– Le nozze con la Granduchessa Anna Pavlovna Romanova, purtroppo, sono sfumate, a causa di una lunga serie di dettagli con cui non ti voglio tediare.
– Occorre, allora, trovare una sostituta.
– E’ quello che mi sto sforzando di fare – tagliò corto lui, senza troppo entusiasmo e desideroso di chiudere al più presto la conversazione.
Paolina guardò il fratello con aria determinata ed enigmatica e, poi, gli sorrise con espressione rassicurante. Era stato per colpa della malevola intromissione di Joséphine de Beauharnais che il Marchese Camille Alexandre de Saint Quentin l’aveva lasciata, costringendola a sposare il Principe Camillo Borghese e a vivere noiosamente a Roma e a Torino. Adesso, quella donna avrebbe pagato il fio.
– E’ proprio di questo che sono venuta a parlarti. Ho un piano da illustrarti, se avrai la bontà di ascoltarmi.
   
 
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