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Autore: wolfymozart    17/03/2022    0 recensioni
La rivoluzione incombe su Parigi, restituendo dignità agli oppressi e presentando un conto amaro agli oppressori. Ma nei suoi giudizi perentori e tranchant, di condanna e assoluzione, non tiene conto delle sfumature, mai nette, tra innocenti e colpevoli, non tiene conto di sentimenti, paure, speranze di quanti, pur nella schiera degli oppressori, sono stati anch'essi vittime del sistema.
Un rivoluzionario integerrimo ma tormentato, una nobildonna infelice ma determinata, un amore impossibile, una condanna eterna.
Genere: Drammatico, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Rivoluzione francese/Terrore
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Correvano veloci campi, alberi, casolari, sagome ai lati della strada, nella luce chiara del primo mattino. I raggi del sole autunnale rendevano liquidi i colori accesi dell’estate e si posavano delicati sul viso del cocchiere. David Bonnet, l’aria stanca ma vigile, lanciava sguardi attenti intorno per accertarsi di non essere seguito da nessuno; sotto il tendone, in mezzo alla frutta e alla verdura di stagione, madame de Beaufort, la piccola Juditte e la fedele serva Louise, sobbalzavano, intirizzite dal freddo, ad ogni scossone del carretto sulle strade dissestate di campagna. Da quando erano salite a bordo in città a quando avevano superato definitivamente i sobborghi erano state chine, silenziose, avvolte nei loro mantelli. Bonnet aveva constatato con sollievo che non c’era bisogno di richiamare all’attenzione, di riprenderle o rimproverarle; del resto non avrebbe saputo come rivolgere ordini ad una nobildonna, nemmeno se si fosse trattato di un pericolo di vita: si sarebbe trovato in grande difficoltà nel rivolgersi a lei. Madame de Beaufort, tuttavia, non aveva avuto nulla da obiettare, aveva docilmente seguito tutte le sue indicazioni, incoraggiando la figlioletta e la domestica a fare lo stesso. Per un paio d’ore erano state nascoste tra cavolfiori, ortaggi, patate e carote, con il fiato sospeso, poi, appena fuori dai centri abitati, il carrettiere aveva dato loro la voce, annunciando lo scampato pericolo. La strada, tuttavia, era ancora lunga e dunque le aveva pregate di aver pazienza e di mettersi comode. Uno strano tipo, quel carrettiere, pensava Marianne, taciturno e schivo, non aveva fatto domande, non si era permesso di commentare la loro fuga: Clermont doveva averlo già informato di tutto, si trattava di una persona fidata.
Solo quando il sole si stagliava ormai alto nel cielo azzurro solcato dai rami secchi degli alberi, Marianne si avvicinò al conducente e, al di là del telo, prese la parola:
-Signor Bonnet, scusate se vi disturbo, ma è da ore che siamo in viaggio, vorrei sapere la meta, non ci avete detto nulla in proposito. – esordì titubante, quasi porre quella domanda fosse una colpa.
David Bonnet si girò di scatto, senza mollare le redini, sorpreso da quella domanda. -Madame, non vi ha detto nulla il dottor Clermont? – le chiese istintivamente.
Clermont non le aveva svelato il piano? Non le aveva parlato di quella villa di campagna confiscata alla famiglia Duschamps, occupata per un certo periodo dalle truppe e ora caduta in disuso? Gli pareva molto strano che avesse ordito tutto da solo, senza renderla partecipe. Gli pareva altrettanto strano il fatto che si fosse preso la briga di organizzare la fuga di una nobildonna, moglie di uno dei realisti più reazionari di Parigi. Di certo ci doveva essere sotto qualcosa a lui sconosciuto se il deputato integerrimo si era abbassato a certi sotterfugi per salvare una donna.
- No, mi ha soltanto detto di presentarmi un’ora prima dell’alba a porte de Clignancourt e di domandare di voi. Non so altro. – rispose con onestà.
- Dovrete adattarvi, temo, ad un’abitazione non proprio comoda e ospitale. Si tratta di una residenza requisita ad una famiglia nobile, sfruttata poi come quartier generale dalle truppe. Ora è in disuso, possono essere abitati soltanto i locali della servitù, a pian terreno. Nulla di troppo confortevole, ma avrete almeno un tetto sulla testa. –
- Non avremo difficoltà ad adattarci, vero Louise? – domandò retoricamente alla serva.  – Non so come ringraziarvi per quello che state facendo per noi. Forse potreste pensare che si tratti di un tradimento nei confronti della Repubblica, di un reato, ma io vi dico che state salvando una vita innocente, quella di mia figlia Juditte. –
Bonnet rimase piacevolmente sorpreso da quelle parole, che dimostravano un atteggiamento umile, riconoscente, così diverso dall’alterigia dei nobili a cui era abituato o di cui aveva sentito parlare: Madame de Beaufort era una donna gentile, di animo sincero, la stimò e apprezzò. C’era in lei qualcosa che lo affascinava e in quel momento capì le ragioni dell’amico.
-Non dovete ringraziare me, contessa. Dovete ringraziare Jacques Clermont, è lui che si è occupato di tutto. Pensavo che foste a conoscenza del suo piano, ma dalla vostra domanda ho capito che non lo siete. –
- Non ne so nulla, ieri sera sono andata da lui in cerca di aiuto, senza sapere che ci avrebbe fatto nascondere fuori città. –
Dunque Clermont aveva pianificato tutto questo nel giro di quelle poche ore? Doveva avere molto a cuore la vita di queste persone, se ne aveva predisposto così rapidamente la fuga, assumendosi il rischio di nasconderle in una villa confiscata dalla Repubblica. Bonnet rimase taciturno, interrompendo così la comunicazione con lei. Pensava e ripensava al rapporto che legava questa bella e giovane contessa al suo fraterno amico, rivoluzionario tutto d’un pezzo. Si ricordò che Clermont aveva accennato ad una visita alla figlia del conte di Beaufort, ma certamente la conoscenza tra loro doveva essere di più lunga data: chi si assumerebbe un tale rischio per una persona che si conosce appena?
 
 
-Ebbene, state giocando con il fuoco, Clermont, ve ne rendete conto? – domandò quasi con incredulità Bertrand Laroux dalla sua poltrona foderata di rosso, dietro la scrivania dell’ufficio di segretario, le mani giunte davanti alla punta del naso, l’aria meditabonda.
Clermont si alzò di scatto dalla sedia e prese a camminare nervoso per la stanza illuminata dal sole di mezzogiorno.
-So bene quanto sia rischioso, mi rendo conto che quello che vi sto chiedendo possa sembrare una violazione della legge. – rispose appoggiando infine le mani sulla scrivania e abbassando la testa pensieroso.
- Io sono sempre stato un vostro amico, ed è da amico che ho il dovere di mettervi in guardia dal pericolo che potreste correre. – ribatté Laroux, aggiustandosi un ciuffo di capelli fulvi che gli ricadeva sulla fronte, un gesto di vanità, che si inquadrava bene nel suo personaggio. Si rigirò la penna d’oca fra le mani, fissando Clermont, a capo chino, con i suoi indagatori occhi verdi. Un guizzo di vanagloria lampeggiò nel suo sguardo: il deputato Clermont che si abbassava a domandare un favore, e quale favore, ad un semplice segretario non era cosa che si potesse verificare ogni giorno. L’avrebbe avuto in pugno, se gli avesse concesso quanto chiedeva, cioè un certificato civico con un nome fittizio per una contessa il cui marito era stato arrestato come controrivoluzionario, complice degli insorti in Vandea, tre lasciapassare, anch’essi falsi, per consentire alla donna, a sua figlia e ad una domestica di espatriare in Inghilterra. Non si trattava di un semplice favore, si trattava di un reato, punibile con la ghigliottina. Certo, non era infrequente che si fabbricassero documenti falsi, attestati civici contraffatti, passaporti a nomi fittizi, ma nella maggior parte dei casi venivano subito smascherati; Clermont stava invece domandando al Comitato di sicurezza generale stesso di patrocinare la fuga di questa nobildonna, onde evitare brutte sorprese ai controlli.
- Credete, Laroux, che non sia consapevole del pericolo in cui potrei incorrere? Conosco la legge quanto voi. – ribatté fiero Clermont, appuntando i suoi occhi scuri in quelli dell’amico, che non tardò ad abbassarli.
Laroux finse di sistemare le carte sparse sulla sua scrivania, evitando accuratamente di incontrare lo sguardo del deputato Clermont che, dall’alto della sua statura, lo fissava in piedi, visibilmente teso. Stava prendendo tempo, il segretario, stava frugando nella mente per cercare le parole migliori per esprimere quanto voleva mettere sul piatto della bilancia. Un favore del genere non poteva essere concesso a cuor leggero, nemmeno ad un amico. E lui era tipo da non fare nulla per nulla. Amava il potere, lo bramava sopra ogni altra cosa e quell’uomo che gli stava di fronte, autorevole e stimato, gli pareva l’aggancio naturale per la sua scalata al successo. Tuttavia era meglio accertarsi delle reali intenzioni del deputato Clermont, delle vere motivazioni che stavano alla base di quella richiesta, di per sé esecrabile per un intransigente fautore della Repubblica come lui, ma non solo, in virtù delle nuove disposizioni, passibile di essere considerata un reato punibile con la morte. Per quale motivo Jacques Clermont, rispettato deputato giacobino si interessava in modo così accorato alle sorti della consorte di un nobile complottista condannato a morte?
-Jacques, io vi vorrei aiutare, ma sapete, non mi state mettendo in una felice posizione: si tratta di un reato, di una contravvenzione alle leggi della Repubblica, votate dalla Convenzione di cui voi stesso fate parte. – cercò di spiegarsi, passandosi nervosamente una mano nella chioma fulva.
- Io non ho approvato quella legge. – dichiarò con piglio fiero Clermont poi, rimettendosi a sedere aggiunse: - Ma non si tratta di questo. Vedete, Laroux, voi siete giovane, siete cresciuto infervorato dagli ideali patriottici, educato ad un profondo senso del dovere, della legge. – e a queste parole Laroux scostò lo sguardo: entrambi credevano poco a quel discorso, che tuttavia Clermont terminò ugualmente: - Trovo onorevoli e giuste le vostre obiezioni, lodo il vostro senso patrio, ma debbo ricordarvi che la legge è un fatto squisitamente umano. Le leggi cambiano, si modificano, vengono abrogate, come tutti i fatti umani sono passibili di errore; quello che viene sancito oggi potrebbe non avere più valore domani e, soprattutto, quello che viene sancito oggi potrebbe non essere conforme all’ideale di Giustizia che dovrebbe essere faro di ogni nostra presa di posizione. Applicare ciecamente il diritto non sempre significa perseguire la via della giustizia, al contrario, l’applicazione cieca e acritica della legge può sfociare nella più grande ingiustizia. Diceva Cicerone nel De Officiis “summum ius, summa iniuria”.
Betrand Laroux, la coccarda tricolore ben visibile appuntata sul bavero della giacca, dovette nascondere un sorriso divertito. A tanta eloquenza doveva spingere una donna, pensò. Di certo, se si era degnato di scomodare le polverose pergamene ciceroniane, la questione doveva essere seria: Clermont non avrebbe osato opporre resistenza alle sue richieste, l’avrebbe avuto in pugno per gli anni a venire. Il giovane si accarezzò il mento con fare circospetto, come soppesando ad una ad una le parole dell’amico, poi con i suoi occhi verdi ne scrutò i lineamenti del volto, tesi nella spasmodica attesa di una sua risposta che avrebbe potuto suonare alle sue orecchie come una condanna o un’assoluzione. Laroux si compiacque ancora per un poco del potere che deteneva su Clermont, poi, con fare studiato rispose:
-Amico mio, voi parlate bene, siete un uomo di intelletto e di cultura, ma le vostre parole non hanno il potere di smuovere il mio giudizio sulla questione. La Giustizia è come una donna bellissima, desiderata, amata da tutti e inafferrabile, ma è la Legge la consorte che ci troviamo a fianco, è la Legge che ha il potere di rimproverarci ogni nostra piccola malefatta, ogni disattenzione quando rientriamo a casa la sera. Ora chiedo a voi, chi è quella donna nel nome della quale siete disposto a rischiare così tanto? È forse la Giustizia? – lo sguardo insinuante e impertinente confuse Clermont, costringendolo a scuotere il capo, sulle spine. Cercò più volte di ribattere, ma non trovò le parole adatte, lui, così eloquente nelle perorazioni alla Convenzione.
- Ebbene, Clermont, si tratta forse di un’altra donna? Di una donna in carne e ossa? – lo sollecitò con un sorriso compiaciuto Laroux.
Clermont alzò il capo, sollevò lo sguardo e negli occhi scuri, così profondi, gli si poté leggere un’estrema prostrazione, risultato di una cruenta battaglia interiore che dalla sera precedente si stava svolgendo dentro di lui; una battaglia senza esclusione di colpi, senza appello, senza prigionieri. Si fronteggiavano da un lato la sua lealtà allo Stato, la sua irreprensibile condotta di deputato, l’obbedienza alla causa del popolo; dall’altro, vittorioso, il suo amore, disperato, calpestato, bistrattato, che aveva in tutti modi cercato di allontanare dal suo cuore, ma che restava pur sempre vivo e forte, per Marianne. Non potendo ammettere nemmeno a se stesso quanto grande fosse stato il potere di quelle parole da lei pronunciate la sera prima durante il loro drammatico incontro, celava i suoi più profondi sentimenti dietro a frasi magniloquenti, ad alti ideali, che pur condivideva, ma che sarebbe stato pronto a calpestare se lei glielo avesse domandato.
-Anche se fosse, non sono cose che vi riguardano, Laroux. Io sono venuto da voi da amico, facendo appello alla vostra amicizia, ma forse mi sono sbagliato: vi sto chiedendo troppo, dovreste correre un rischio troppo alto. Non posso dirvi altro, o vi fidate di me, oppure dovrò rivolgermi a qualcun altro. – rispose sostenendo il suo sguardo. Lasciò passare qualche istante e poi accennò ad alzarsi. Laroux non poteva farsi sfuggire una simile occasione:
- Aspettate. – lo fermò, afferrandogli il braccio. – Sono stato indiscreto e vi chiedo scusa, non volevo fare alcun genere di insinuazione. Vi aiuterò Clermont, vi farò avere quei documenti domani stesso. – gli promise con un sorriso aperto, amichevole che accompagnò con un cenno del capo in segno di intesa.
Lo sguardò di Clermont si illuminò, ma non lasciò trasparire in altro modo il suo sollievo, si limitò a ringraziarlo e aggiunse: - Sono vostro debitore.
-Se avrò bisogno, dunque, mi ricorderò di voi. – rispose sempre sorridendo Laroux.
Mentre l’amico usciva dalla stanza, lasciatosi sprofondare sulla poltrona dietro alla sua scrivania, Laroux si prefigurava una fulgida ascesa al potere: Clermont era ormai una sua pedina, avrebbe stabilito all’occorrenza se servirsene come appoggio o se sacrificarla nella grande scacchiera della politica.
 
 
Le stanze al pianterreno della grande villa, solitamente occupate dalla servitù, erano fredde e umide, innumerevoli spifferi lasciavano entrare folate di vento autunnale, mentre l’umidità sollevata dalla pioggia sottile che aveva preso il posto del sole del mattino, si insinuava nelle ossa. Tuttavia non avevano di meglio né di meglio avrebbero potuto chiedere, così pensava Marianne, mentre Louise si prodigava nel rassettare quelle stanze, lasciate in condizioni pietose dal passaggio della guarnigione. Si trattava di un’imponente villa di campagna, appartenuta alla nobile famiglia Duschamps, posta sotto sequestro dalla Convenzione dopo la fuga all’estero dei membri della famiglia. Il giardino, un tempo rigoglioso e popolato da piante esotiche secondo il gusto del padrone, ora versava in condizioni disastrose, i rampicanti erano cresciuti a dismisura, soffocando ogni altra pianta, le erbacce proliferavano incolte nei roseti, sconfinando nei vialetti di ghiaia bianca, e il fango, accresciuto dalla pioggia autunnale, si impadroniva di ogni palmo di terreno lasciato vuoto dalla vegetazione. Migliore sorte non era toccata agli appartamenti al piano nobile e al piano superiore, occupati per qualche mese da una guarnigione: l’antico mobilio era stato portato via oppure distrutto per ricavarne legna da ardere, rimanevano giusto gli elementi indispensabili,: letti, qualche sedia, un paio di cassettiere; tappetti e tendaggi erano stati malamente strappati, così come i baldacchini dei letti padronali, le lenzuola sostituite con rozzi teli militari. A questa zona della villa non si poteva neppure accedere, poiché il comandante di guarnigione aveva dato ordine di sprangare le porte d’accesso affinché non venisse occupata da vagabondi o da contadini ridotti in miseria. Tuttavia erano rimaste agibili le stanze della servitù a pian terreno, la cucina con annesso un ampio tinello. Qui, seduta vicino al fuoco su una sgangherata sedia a dondolo, leggeva un libro di fiabe a Juditte, accoccolata in grembo, entrambe avvolte dal grezzo mantello di cui si era servita per la fuga. A volte, fissando le gocce di pioggia scivolare sul vetro della finestra, la sua mente vagava altrove e si concedeva il lusso che, durante quella rocambolesca giornata, non si era ancora concessa: quello di riflettere. Troppi pensieri affollavano la sua mente, troppi avvenimenti si erano avvicendati nel giro di poche ore. Piangeva per la sorte dei suoi genitori, non osava immaginarli, loro così eleganti, con le vesti migliori, in una gattabuia in attesa di giudizio; pensava poi a suo marito, agli occhi verdi e al suo fare spavaldo di fronte agli inquisitori, al tradimento che aveva perpetrato ai danni dei suoceri, senza il minimo obiettare della coscienza, nel tentativo di salvare se stesso, di scendere a patti con i suoi persecutori. - Che tentativo maldestro!- pensava Marianne. Era davvero convinto che un uomo della sua posizione, un Pari di Francia, un cospiratore conclamato, incastrato da prove più che evidenti che testimoniavano, nero su bianco, le sue trame con gli insorti della Vandea, si sarebbe potuto scagionare mandano al patibolo i suoi suoceri? Perché, si domandava Marianne, infliggerle quest’ulteriore dolore? Perché questa assoluta mancanza di pietà nei suoi confronti, questo estremo ribadire il suo potere su di lei e sulla sua famiglia anche a pochi passi dalla ghigliottina? La sua arroganza non aveva limiti, la sua sete di dominio, il suo senso di possesso su di lei era tale che, se fosse stato giustiziato, l’avrebbe voluta trascinare con sé nella rovina. Per anni Marianne de Beaufort aveva vissuto sotto il giogo assillante del marito, per anni aveva dovuto nascondere in un angolo recondito del suo cuore, i suoi sentimenti, i suoi sogni, se stessa, per paura della sua disapprovazione, per anni aveva temuto ogni volta che i cadenzati passi di lui si avvicinavano alla sua stanza, per anni si era dovuta concedere a lui senza aver in cambio un minimo gesto di affetto, una parola d’amore, ma soltanto la gelida superbia dei suoi occhi verdi. Non aveva mai alzato la voce con lei, non ne aveva bisogno, sapeva intimidirla in modi assai più subdoli, alimentando le sue insicurezze, fomentando i suoi sensi di colpa nei confronti della figlia, dei genitori, instillandole continuamente l’idea di essere stata fortunata perché, per sua grazia, l’aveva resa la moglie di un Pari di Francia, ma allo stesso tempo instillando il dubbio che altrettanto facilmente l’avrebbe potuta sostituire con un’altra donna più compiacente. Non era per amore che gli era rimasta al fianco per tutti quegli anni, certamente no. Era piuttosto per dovere, per paura, per timore di ritorsioni nei confronti della sua famiglia: era ben noto a tutti che Beaufort, sposandola, si era impegnato a risollevare le sorti finanziarie dei Blanchard, il cui patrimonio era stato, in parte, dilapidato al gioco da Roland e, in parte, malamente investito in operazioni maldestre da suo padre. Beaufort li aveva dunque comprati, aveva in pugno l’antica famiglia dei Blanchard, la più nobile di tutto il Ponthieu, e avrebbe ben presto fatto delle loro terre un suo feudo personale: Marianne non poteva permettersi di deludere il marito, pena la rovina di suo padre, l’arresto per debiti di suo fratello, il crepacuore di sua madre. Così si era ritrovata legata a filo doppio a un marito che non aveva scelto e che non amava, malgrado il suo conclamato charme, i suoi penetranti occhi verdi, il suo portamento austero e la sua indiscussa autorità. Per lei era soltanto un uomo algido, dai modi distaccati e cinici, assetato di potere; distante nella sua fredda cortesia e irraggiungibile sia da lei che da sua figlia. Non piangeva il suo arresto: la sua condanna sarebbe equivalsa, per lei, ad una liberazione. Piangeva a calde lacrime, nascondendo il viso nel mantello per non farsi scorgere da Juditte, la sorte di suo padre e di sua madre, una sorte ormai segnata, ineludibile. Li rivedeva in quella mattina di fine estate di poche settimane prima e stentava a credere che non li avrebbe mai più incontrati in questa vita: al pensiero era scossa da singhiozzi e, malgrado tutti i suoi sforzi, non poteva impedire che Juditte se ne accorgesse e la guardasse interrogativa.
-Che cosa avete, mamma? Perché piangete così? Siamo al sicuro qui, vero? – domandava inquieta la bambina.
- Sì, Juditte, siamo al sicuro, ma dobbiamo fare attenzione. Dobbiamo restare qui fino al segnale che ci darà il dottor Clermont. – rispose Marianne, accarezzando i capelli biondi della figlia.
- Quale segnale? –
- Il segnale della partenza, quando ci imbarcheremo per l’Inghilterra dove ci attende tuo zio Roland. –
- Verrà il dottor Clermont a darci il segnale? Lo rivedremo? –
- Non lo so, Juditte, non so se lo rivedremo; ma sono sicura che ci aiuterà. –
In cuor suo sperava di rivederlo, lo desiderava con tutta se stessa; ma sapeva anche che si era già esposto abbastanza concedendo loro il suo aiuto e adoperandosi per farle scappare, avrebbe corso ulteriori rischi se si fosse azzardato a raggiungerle personalmente. Avrebbe probabilmente fatto pervenire i documenti tramite quel brav’uomo di Bonnet, che era immediatamente ripartito per Parigi, lasciandole sole in quell’enorme casa silenziosa. Eppure non riusciva a togliersi dalla testa quello sguardo freddo ma al contempo, lei lo indovinava, dolente, che le aveva rivolto la sera prima alle sue accorate parole. Era soltanto in virtù della sua umanità, per compassione per la loro sorte infelice, che si era mosso per venir loro in soccorso? Si trattava soltanto di pietà per una futura vedova e per un’orfana il motivo per cui, con tanta solerzia, aveva ordito quella fuga, coinvolto un amico, predisposto un luogo per accoglierle? Il suo intuito le diceva che no, che non poteva trattarsi unicamente di compassione, che non aveva ceduto alle sue richieste soltanto per umana pietà. Tradire la sua Repubblica gli doveva essere costato molto, ma forse c’era qualcosa a cui tenesse di più che alla Rivoluzione, che agli ideali di uguaglianza e libertà che le aveva sbandierato durante il loro incontro. Tuttavia non osava cullare flebili speranze. Quell’antico sentimento, semmai fosse ancora esistito, era sopito nel fondo del suo cuore e difficilmente da lì si sarebbe smosso l’aveva ben capito, quando alle sue parole d’amore, le aveva risposto con freddo distacco. Eppure, mentre si dondolava sulla sedia, cullava con sé la speranza che lui, prima della loro partenza, sarebbe arrivato per un commiato, che, anche solo per pochi istanti, l’avrebbe rivisto un’ultima volta.
Così, quella sera, mentre sorbivano un misero brodo sedute attorno ad un tavolaccio traballante, quando si sentì bussare alla porta, sussultò in cuor suo, presagendo il suo arrivo. Si trattava invece di David Bonnet, che si avvicinò al tavolo con aria mesta, funerea.
-Volete favorire, monsieur Bonnet? – chiese Louise porgendogli un mestolo di brodo.
Bonnet declinò l’invito un cenno del capo, si avvicinò al tavolo, senza sedersi, rivoltandosi con nervosismo il capello fra le mani. Mani tozze, screpolate, mani di un lavoratore.
-Qualcosa non va, monsieur Bonnet? – domandò madame de Beaufort con uno sguardo angosciato.
- Non porto buone notizie da Parigi. – rispose lui, gli occhi bassi.
Dopo vari accenni, Bonnet riuscì, alquanto a disagio, a pronunciare queste parole: - Madame, i conti de Blanchard sono stati giustiziati questa mattina stessa. – Poi tacque abbassando il capo in segno di rispetto. Calde lacrime rigarono il volto di Marianne che però non proferì alcuna parola a riguardo, si limitò a domandare con voce tremante: - E mio marito, il conte di Beaufort? –
-A quanto si dice lo stanno interrogando. È ancora vivo. –
   
 
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